lunedì 19 luglio 2004

E' ITS THREE A TRIESTE
Demna Gvasalia dalla Georgia vince la terza edizione del fashion contest


La collezione maschile di Demna Gvasalia (foto di Andrea Lasorte per Il Piccolo)
 TRIESTE Viene dalla Georgia, studia in Belgio, e immagina uomini a loro agio in giubbotti voluminosi, di pelle e lana, da portare su pantaloni aderenti ai polpacci, che assomigliano vagamente ai mutandoni di lana dei cercatori d'oro del vecchio West. Lui si chiama Demna Gvasalia e ha vinto il premio più importante, tredicimila euro, del concorso di moda per giovani stilisti ITS Three, assegnato per la prima volta, sabato notte in Porto Vecchio, a una collezione tutta maschile.
Un'edizione che ha ridisegnato la geografia dei nuovi talenti della moda, mandando i riconoscimenti principali verso le Filippine, l'Austria, gli Stati Uniti, paesi un po' tagliati fuori dalle consuete rotte della creatività emergente. Il colpo d'occhio offerto dalla collezione di Demna, ventitre anni, è quello di un gruppo di viaggiatori internazionali, ricercati nei dettagli ma non leziosi, mascolini eppure in qualche modo morbidi, disarmati: proprio il tipo di «mood», di umore, che hanno trasmesso le ultime passerelle della moda maschile di Parigi.
La giuria del concorso - nomi di punta, tra cui gli stilisti Antonio MarrasEnnio Capasa e Raf Simons, il direttore dell'edizione francese di Vogue Uomo, Richard Buckley e il direttore creativo di Diesel, Wilbert Das: tutti presenti alla serata finale - ha fatto scelte poco audaci, orientate al prodotto, ai capi immediatamente indossabili e vendibili, concedendo pochi spazi alla sregolatezza. Un orientamento che ha penalizzato l'unico geniaccio tra i ventitre finalisti, il giapponese Yoshikazu Yamagata, che se ne tornerà a casa con la consolazione di un premio speciale, inventato lì per lì al posto di quello, non assegnato, per gli accessori, oltre all'«Ingeo Award», dedicato al capo più convincente confezionato con la fibra prodotta dallo sponsor, riciclabile al cento per cento. Eppure sarebbe bastato questo delizioso abitino bianco, dal taglio asimmetrico, a fugare ogni dubbio sulle potenzialità del giovane stilista.
La tribù di Yoshikazu Yamagata (foto di Andrea Lasorte per Il Piccolo)

Quella di Yoshikazu è stata l'ultima uscita in passerella, la più teatrale (ma chi ha pensato di abbassare riflettori??). Peccato che la sua non fosse una collezione di abiti, anzi nemmeno una collezione, ma una piccola tribù metropolitana, con un barbone coperto dalla testa ai piedi di spruzzi di filo colorato e casetta di cartone sulle spalle, una sposa con l'abito decorato di rocchetti, un uomo in frac con la camicia lunga fino ai piedi e una valigia piena di cose misteriose, un clown dalla giacca affollata di pupazzetti. Una fiaba raccontata con i vestiti, un piccolo, grande spettacolo, un po' come quelli che sempre si pretendono dall'alta moda, costruito su abiti importabili (e qualche modella ha fatto i capricci, in prova, visto il peso degli «accessori»...), ma essenziali per capire un mondo, una filosofia, un percorso: non si indosseranno mai, ma forse permetteranno al loro inventore di diventare quella firma che spingerà lefashion victim di domani a comprare le sue magliette e i suoi pantaloni.
Peccato. I tempi di ripiegamento e la crisi globale, hanno fatto propendere per proposte poco spiazzanti. Come l'impeccabile collezione femminile dell'americano Steven Hoffman, secondo premio (cinquemila euro), uscita da un album di figurini anni '50, con gonne aderenti, trench a corolla che citano il new look di Christian Dior, pull dipinti sul busto e «raddoppiati» sulla schiena, abiti da cocktail. O quella del terzo premio (cinquemila euro), il giapponese Takashi Sugioka, che ama le linee semplici, i colori pastosi della terra, uno street-style da brava bambina, aggiornata ma non provocante. L'ambito «Diesel Award», praticamente un contratto di lavoro con l'azienda di Renzo Rosso - anche lui arrivato a Trieste e seduto in prima fila accanto al presidente della Camera nazionale della moda, Mario Boselli - è andato al filippino Lesley Mobo, che ha proposto donne imbozzolate in giubbotti post-atomici, mentre la talent scout francese Maria Luisa Poumaillou, componente della giuria, ha scelto per le vetrine della sua boutique di Parigi le collezioni di due austriaci, Iris Eibelwimmer e Peter Pilotto, accomunati dalla propensione per i fuseaux e per i colori indigesti: giallo acido, rosa smalto, verde pennicilina.
Porto Vecchio irriconoscibile, sabato sera, con l'ex magazzino Pacorini per una notte diventato crocevia di lingue, di scambi, di energia. Faceva uno strano effetto vedere, tra tanti spazi da tempo deserti, orbite vuote e silenziose, l'enorme capannone pulsare di luci, di musica, di giovani arrivati da paesi di mezzo mondo per giocarsi, a Trieste, la prima grande opportunità di sfondare.
Quest'edizione di ITS, la terza, con oltre mille persone e giornalisti da quindici paesi, ha laureato definitivamente il concorso come uno dei più importanti d'Europa, sostenuto dalla macchina organizzativa oliata dell'agenzia «Eve» di Barbara Franchin (unico appunto, i presentatori della serata, Benedetta Barzini e Ted Polhemus: senza ritmo e prolissi).
«A Trieste le nazioni unite dello stile» è stato detto. Verissimo, complice uno spazio sul mare per la prima volta restituito alla vita, alla dimensione di porto franco della fantasia. C'è da augurarsi che ITS diventi four, five e ancora avanti, rimanendo un evento radicato a Trieste. E che adesso sappia conquistarsi, dopo le simpatie internazionali, anche quelle, più avare, della sua città.

martedì 30 marzo 2004

LA MOSTRA

Vivienne Westwood, la regina che sfidò la regina




 
Vivienne Westwood at the Victoria & Albert Museum



 «La moda è un bambino che ho preso in braccio e non ho mai più lasciato andare». Riesce sempre a spiazzarti Vivienne Westwood, la stilista inglese passata alla storia del costume come la sacerdotessa del movimento punk. Difficile immaginare che questa signora over-sessanta, dagli occhi verdi trasparenti e la pelle diafana sia stata arrestata, circa trent'anni fa, per aver lanciato t-shirt pornografiche, con cow-boy dal pene pronunciato e i nanetti di Biancaneve in versione superdotati. Era il 1974 e al numero 430 di King's Road, nel cuore di Londra, in un negozio chiamato «Sex», Vivienne e il suo compagno di allora, il musicista Malcolm McLaren, si preparavano a lanciare il gruppo dei Sex Pistols, e una rivoluzione epocale contro l'ipocrisia e l'establishment. Abiti di cuoio, cinghie, stracci, magliette di gomma, slogan dirompenti: «determined ugliness», la bruttezza determinata come strumento di libertà, di rottura, di capovolgimento delle regole, e non solo nel vestire.


 
Vivienne Westwood e Malcolm McLaren nel 1970 (Vivienne Westwood Archive)

 
Tre decenni dopo il Victoria & Albert Museum di Londra dedica a VivienneWestwood una grande retrospettiva curata da Claire Wilcox, che aprirà il 1.o aprile e chiuderà l'11 luglio. Oltre 150 abiti dall'archivio personale della stilista e dalle collezioni del museo, per raccontare l'avventura artistica di una delle creatrici di moda più anticonformiste e innovatrici dell'ultimo mezzo secolo.
Dalle trasgressioni di King's Road alla rivoluzione nello stile inglese, con grande uso di stoffe molto british come il tweed e il tartan, dal bondage alla reinterpretazione di corsetti e crinoline, Vivienne Westwood ha saputo combinare, con fiuto, spregiudicatezza e tradizione. E costruire su di sè un personaggio sempre coccolato dai media, capace di far notizia anche quando la vena creativa degli esordi ha lasciato il posto a una più tranquilla citazione del passato.
«Queen Viv», la figlia di due operai tessili del Derbyshire, che deve il suo nome all'attrice Vivienne Leigh e il cognome al primo marito, Derek Westwood, è oggi a capo di un impero di milioni di sterline, ma non ha mai saputo rinunciare a stupire. Consacrata due volte British Designer of the Year, insegna moda a Vienna e i suoi abiti sono esposti nei musei di tutto il mondo e battuti all'asta da Sotheby's a cifre da capogiro. Ma quando la regina Elisabetta la invita a Buckingham Palace, nel '92, per conferirle l'onorificenza dell'Order of British Empire, «Viv» non può fare a meno di piroettare davanti ai fotografi, svelando al mondo che non porta biancheria intima.
«Mamma ha l'innocenza di un bambino. Non avrebbe mai pensato che quegli scatti venissero pubblicati», confessa il figlio Ben nella monumentale biografia dedicata alla stilista da Jane Mulvagh. «Attention-seeker», smania da riflettori, commenta più prosaicamente Gene Krell, giornalista e direttore artistico di Vogue.
Il negozio, aperto da Vivienne e Malcolm a King's Road nel 1970, cambia vari nomi, assecondando le provocazioni dei suoi ideatori: l'originario «Let it rock» diventa, due anni dopo, «Too fast to live, too young to die», quando «Viv» lancia la prima collezione dedicata ai Rockers che conquista Ringo Starr. Nel '74, con il boom dei Sex Pistols - proprio in questi giorni incoronati dal mensile musicale britannico Q come il gruppo che più di tutti ha inciso su gusti e costumi e trasformato il mondo, più dei Beatles e dei Nirvana - l'insegna diventa «Seditionaries», fusione di sedizione e seduzione. A servire i clienti, i punk che suonano al Roxy di Londra, ma anche voyeurs e prostitute, c'è un'incredibile commessa, Jordan, sigillata in abiti di pelle, con gli occhi bistrati e una pettinatura-alveare da fare invidia a Marge Simpson. Nel suo viaggio giornaliero dal Sussex, le ferrovie britanniche le riservano uno scompartimento in prima classe, per paura che qualcuno le salti addosso.


 
Vivienne Westwood a "Let it rock" nel 1971 (Vivienne Westwood Archive)



Jordan nel 1976 nel negozio "Sex" (foto Sheila Rock)
 
 

 L'apice della sovversione, «Viv» e Malcolm, la «coppia maledetta», lo toccano nel '77, quando, per i 25 anni sul trono di Elisabetta II, i Sex Pistol incidono «God Save the Queen», gratificando la sovrana dell'aggettivo «moron», deficiente. Il brano scala le vette della hit parade e diventa l'inno del movimento punk, ormai internazionale.
Negli anni Ottanta, mentre il fenomeno si va esaurendo, Vivienne Westwood comincia per la prima volta a pensare a se stessa come a una stilista e sente il bisogno di uscire da quello che avverte ormai come un tunnel. «Fa qualcosa di romantico. Ispirati alla storia» le suggerisce Malcolm. Nasce così una collezione che farà epoca, «Pirati», trionfo di colori e di tessuti, di tagli e riesumazioni dal XVII secolo, che diventa il manifesto dello stile «new-romantic». Per la prima volta Vivienne guarda e pesca dal passato e, per la prima volta, le si aprono sia le sale del Victoria & Albert sia il calendario delle sfilate parigine. Un'impresa, quella di approdare sulle snobistiche passerelle francesi, che prima di lei era riuscita solo a Mary Quant.
Nell'83 sfila «Witches», la collezione, tutta ispirata all'etnico, che segna anche la fine del turbolento rapporto tra Vivienne e Malcolm McLaren. Tredici anni di provocazioni, private e pubbliche, che lasciano in eredità un linguaggio della moda rinnovato dalle fondamenta e ancora oggi influente. Due anni dopo «Viv» si ritira dai defilé parigini, apparentemente dando ragione a quanti vedevano in McLaren l'autentica anima della loro rivoluzione estetica.
Non è così. Nell'85 la sua «Crini Collection», rivisitazione della crinolina, conquista di nuovo il successo. Da allora tutte le sfilate Westwood sono eventi e veri e propri spettacoli teatrali: la collezione «Harris Tweed» dell'87, ispirata alla moda dell'epoca in cui la regina era bambina, poi «Viaggio a Cythera» dell'89, suggerita dai dipinti di Watteau, e ancora la «Portrait collection», con l'esaltazione del corsetto, e «Anglomania», del 93, rimasta famosa non solo per gli splendidi accostamenti di tartan e velluto, ma per le vertiginose zeppe di legno, con cui Vivienne vuole «issare la bellezza femminile su un piedistallo».


 
Le zeppe che hanno tradito Naomi Campbell



 
Le zeppe si rivelano un'arma micidiale, come ha modo di scoprire di persona la statuaria Naomi Campbell, che cade rovinosamente sulla passerella durante la sfilata, le gambe chilometriche incapaci di reggersi sulle impalcature bluette. La foto fa il giro del mondo e quando il Victoria & Albert espone un paio di quelle scarpe, la gente fa la fila per vederle, al punto che il museo deve piazzarle in una teca davanti all'ingresso. Un altro «coup de theatre».
Ormai Vivienne è all'apice del successo, celebrata da John Fairchild di Wwd, nel volume «Chic Savages», come una (e unica donna) dei sei stilisti migliori al mondo.

E' allora che sua maestà Elisabetta II la invita a corte perconferirle l'Order of British Empire, dimenticando l'affronto di quel «moron» di vent'anni prima. 




Ma lei, con buona pace dell'armistizio, si dimentica le mutande.
twitter@boria_a

venerdì 16 gennaio 2004

 IL LIBRO

 Il duce parla ancora dai muri del Friuli



Con un nome così, occuparsi di storia e del Ventennio in particolare, era pressochè un destino obbligato. Gianni Adolfo Bellinetti, classe 1942, all'anagrafe è registrato Adolfo Gianni Gianni, e deve il comunissimo secondo nome (proprio come il gemello Felicino, in realtà battezzato Benito Felicino), a una lungimirante prudenza delle donne della famiglia, che colsero nell'aria i primi sintomi della disfatta del regime e pensarono di dare ai neonati un secondo nome decisamente meno
compromettente.
Comincia dunque con una breve digressione personale, la curiosa avventura di questo docente di lettere di San Giorgio di Nogaro, appassionato di storia locale, che ha gironzolato per tutta la regione, letteralmente con il naso all'insù, alla ricerca di alcune, particolari, testimonianze del fascismo. Tutto prende le mosse dal caso di Palmanova, dove un paio di anni fa scoppiò una polemica rovente per il restauro della scritta «Credere, obbedire, combattere» nel cortile interno della scuola elementare Dante. Ma quanti di questi celebri «slogan», su cui il fascismo, soprattutto nella prima fase, costruì la sua immagine e la sua forza persuasiva, ancora resistono sulle facciate di edifici pubblici e case private della regione?
Nasce da questa ricerca «Governare per slogan - Scritte fasciste sulle strade del Friuli» (pagg. 140, euro 13, Editreg di Trieste), il volumetto in cui Bellinetti ha cominciato a raccogliere e documentare fotograficamente frasi, massime, slogan mussoliniani ancora, almeno in parte, leggibili.






Quest'operazione ha un precedente, «I muri del Duce» di Ariberto Segala, per venticinque anni inviato di Epoca, autore di un'identica indagine in Piemonte, nel corso della quale ha ritrovato ben 112 testimonianze seguendo il percorso della visita fatta da Mussolini in provincia di Vercelli nel maggio 1939.

Bellinetti, da parte sua, non solo ha catalogato le scritte, ma le ha anche ricostruite al computer laddove erano rovinate o illeggibili: un impegno certosino che, dopo l'uscita del volume, si sta giorno per giorno arricchendo di nuove «scoperte», segnalate all'autore dagli stessi lettori. Nel libro, oltre allo slogan, viene documentata la «fonte», discorsi pronunciati dal Duce o messaggi indirizzati a particolari categorie sociali. Il motto pubblico, da immortalare a imperitura memoria, non nasce in modo fulmineo. All'inizio i discorsi di Mussolini venivano letti solo nelle sedi del Partito e delle varie organizzazioni fasciste. In un secondo momento era la segreteria del Pnf a scegliere le frasi ritenute più efficaci e a invitare i segretari federali a esporle nelle sale e nelle bacheche. La «slogan-mania» esplose nel 1936, quando segretario del partito era Achille Starace. Fu allora che ogni superficie disponibile venne tappezzata di parole, sia nei centri urbani che nei paesi più sperduti, spesso accettate dai privati dietro pagamento di un contributo in denaro, che variava dalle trenta alle cento lire.
In Friuli, a dispetto delle trasformazioni urbanistiche e della distruzione del terremoto del '76, gli slogan mussoliniani sono ancora tanti e resistono, seppure in condizioni di conservazione piuttosto precarie. Bellinetti ha scoperto gustose curiosità, come il caso di Sutrio, dove si leggono ancora ben quattro scritte, nonostante il paese carnico sia fuori dalle strade di passaggio, solitamente preferite per la veicolazione dei messaggi di maggiore impatto. All'ingresso del piccolo centro troviano lo slogan «Anche con l'opera quotidiana minuta ed oscura si fa grande la patria», pronunciata a Vercelli il 28 settembre '25, dove il Duce era arrivato dopo aver assistito alle grandi manovre dell'esercito nel Canavese; più in su, verso il centro, sulla casa Del Moro-Selenati, «Camminare, costruire e, se necessario, combattere e vincere», frase pronunciata il 23 ottobre '32 a Torino e definita da
Mussolini «la parola d'ordine per il nuovo decennio»; ancora in centro, «Ricordare e prepararsi», del '37, primo anniversario della fondazione dei Fasci, e, infine, «Coloro che io preferisco sono quelli che lavorano duro secco sodo in obbedienza e possibilmente in silenzio».

Originale anche il caso di Clauiano di Trivignano, via San Marco, dove all'esterno di una casa colonica si trovano ben due scritte sovrapposte, «Riscattare la terra e con la terra gli uomini e con gli uomini la razza» e «La vera fonte la vera origine di tutta l'attività umana è la terra», quest'ultima inclusa nel Foglio di disposizioni n. 40 di Ettore Muti, all'epoca segretario nazionale del partito. E i celebri e rari «crapun» del Duce? Ce ne sono solo due rintracciabili in Friuli, e, singolarmente, nello stesso paese: Turrida di Sedegliano.
Il percorso attraverso i reperti propagandistici del fascismo tocca la Carnia, Udine, San Giorgio di Nogaro, Palmanova, Santo Stefano Udinese, Porpetto, Palazzolo dello Stella («Noi tireremo dritto», dal balcone di piazza Venezia, 8 settembre 1935), Villaorba di Basiliano, Mortegliano, Gagliano,
Cividale, Clauiano, Castions di Strada, Lucinico
(«I popoli che non amano portare le proprie armi finiscono col portare quelle degli altri»), Pordenone (sulla casa del Mutilato in piazza XX
Settembre) Cordovado, Monfalcone, con alcuni sconfinamenti nel Veneto.
L'ultimo capitolo è dedicato a Torviscosa, la città dell'autarchia, simbolo dell'avveniristica politica industriale dell'Italia fascista. Qui le scritte sui muri esterni sono abbastanza rare, sia perchè si era in parte esaurita la spinta propagandistica del Ventennio, sia perchè la città stessa era una glorificazione del regime. Le scritte interne sono ricostruite attraverso le foto fatte nel complesso «il Ristoro», ormai abbandonato: nella mensa si leggeva «Adoriamo il lavoro che dà la bellezza e l'armonia alla vita», nel bar «Lavorare per essere liberi e grandi».