domenica 26 agosto 2018

IL LIBRO

I figli dell'estate di Monika Held e il peso della memoria





«Che colore, che odore ha la sua infanzia?». Rania, psicologa, rivolge questa domanda centinaia di volte, a tanti interlocutori diversi. L’obiettivo del suo studio è capire perchè oltre la metà delle persone che per decenni ha lavorato e vissuto lontano dal luogo di nascita, nella vecchiaia torni ai paesaggi dei primi anni di vita o ne senta una nostalgia struggente.

Anche l’infanzia di Rania ha avuto colori e odori: il bianco e il grigio dell’acqua e del cielo, che si toccano in un fondale unico, e il puzzo della fabbrica della farina di pesce. È il paesaggio tagliente del Wattenmeer, nella Germania del Nord, dove la donna ha deciso di tornare, dopo la scoperta del tradimento del compagno. Due stanze in affitto affacciate su una natura familiare, per curare la sua ferita senza bisogno di parole, lasciandosi invadere dall’aria di casa. In una geografia che riconosce, come un cieco gli spazi in cui è abituato a muoversi da sempre.


Rannicchiata nella grande poltrona sul balcone, Rania guarda i bagnanti concludere la giornata in spiaggia. Improvvisamente, davanti ai suoi occhi, lo scenario sbiadisce e lascia il posto ad altre immagini, che si sovrappongono a quelle reali, come in un’allucinazione: una piscina, una bambina che ci cade dentro, un ragazzino impietrito e immobile su una panchina davanti al mare. Ed ecco lei, Rania quindicenne, correre, tuffarsi, ripescare quel corpicino dal fondo, con i capelli fluttuanti come alghe.


Da quel giorno lontano, la piccola è diventata uno dei tanti “Figli dell’estate”, titolo dell’intenso romanzo della scrittrice tedesca Monika Held, il secondo edito da Neri Pozza (www.neripozza.it). Bambini strappati all’acqua e alla morte, ma condannati al coma vigile, menti assenti e annichilite, in corpi che continuano a crescere e a trasformarsi. Che cosa è successo alla bimba salvata e al ragazzino biondo con cui quel pomeriggio Rania condivideva la panchina e il contatto breve di una coscia? Perchè lei non li ricorda? E perchè non ricorda la fine di quella giornata, probabilmente una sequenza di urla, autoambulanze, luci, polizia, domande, genitori? Solo i nomi riaffiorano, a fatica: Malu la bambina, Kolja il fratello biondo.
Nella sua memoria dell’infanzia, Rania adulta scopre un buco, un’arbitrarietà incomprensibile, un’interruzione che la inquieta e la spinge a muoversi. Chi decide che cosa i ricordi trattengono e cosa lasciano andare? Comincia così il suo viaggio all’indietro nel tempo, sulle tracce di frammenti e di volti, di nomi e di circostanze, per riallacciare i fili della trama là dove si sono lacerati.



Monika Held, scrittrice  e giornalista


Con grande raffinatezza, mentre Rania avanza nella sua ricerca a ritroso - gli incontri con un vecchio compagno di scuola di Kolja, una dottoressa, la madre, l’amico Mark - la scrittrice ne precede i passi e ci racconta la vita del ragazzo dopo la tragedia. I genitori che si fronteggiano in un dolore che ognuno custodisce a modo suo, il trasloco della famiglia nella città della clinica specializzata dove la sorella cresce, l’implosione della coppia, le giornate anomale di un adolescente a contatto con bambini-vegetali, in cui si immedesima al punto da trasferire la sua vita nella loro. Nemmeno l’amicizia con Mark, un coetaneo che ama gli animali e d’istinto capisce come stimolare i sensi dei piccoli ricoverati, riesce ad aiutare Kolja, che insegue l’idea della morte, nelle orecchie la voce della madre che lo spinge a visitare la sorella, alla quale non riesce ad accostarsi: «Vai a vedere cos’hai combinato». Davanti agli occhi un’immagine affiora dal passato, l’unica che lo riscalda: Rania, i capelli al vento, piantata in mezzo alla strada, che cerca di bloccare il camion del trasloco.


Monika Held firma un racconto duro e raffinato sul senso di colpa (perchè mi sono distratto?, Kolja. Potevo salvarla?, è il pensiero che si aggira nel subconscio di Rania, cercando un modo per riaffiorare...) e sul mistero della memoria, delle sue scansioni e rimozioni. Sul dolore e sull’amore, senza leziosità. Sostenuti da una scrittura evocativa e insieme asciutta, che non scivola mai nel registro della commozione, i due livelli narrativi confluiscono in un finale sospeso. La terapia è affrontare, insieme, il peso di un’assenza, fisica o mentale. Il buco nero dove tutto è cominciato. —
@boria_a

domenica 19 agosto 2018

IL LIBRO

Rimpatriata di quattro amiche
le nonne di Sex&TheCity


Le ragazze di Rona Jaffe sono diventate grandi e per loro è arrivato il momento del bilancio. 1977, raduno annuale delle ex studentesse di Radcliffe, prestigiosa università femminile americana dove rampolle di ottima famiglia prendono la laurea giusta per un auspicabile matrimonio con qualcuno dei “cugini” di Harvard. Niente di troppo impegnativo, inglese o relazioni sociali, tanto per saper stare in società. Vent’anni prima, era il destino obbligato delle matricole Annabel, Chris, Daphne ed Emily: non “fare” il medico, ma “la moglie del medico”, ricca, annoiata, mediamente tradita e depressa, impeccabile nell’arte di organizzare ricevimenti e nascondere la propensione alla bottiglia. È andata davvero così a queste quattro donne, che si incontrano dopo due decenni nei loro vecchi dormitori universitari? O anche loro, come le protagoniste del primo romanzo e best seller di Rona Jaffe, “Il meglio della vita”, hanno cercato di affrancarsi dalla deriva della casalinghitudine, per quanto patinata?




Rona Jaffe - scomparsa nel 2005 a 74 anni - torna in libreria con “Riunione di classe”, uscito negli Usa nel 1979 e ora riedito da Neri Pozza. La stessa casa editrice nel 2007 aveva riscoperto “Il meglio della vita”, scritto a 27 anni e pubblicato nel 1958, ventun anni prima di questo romanzo, che è la sua continuazione ideale. Jaffe è stata una delle “sue” ragazze: laureata a Radcliffe, impiegata diventata in quattro anni editor della casa editrice Fawcett Pubblications di New York, lasciò il lavoro per dedicarsi alla scrittura. Per il primo libro aveva intervistato una cinquantina di donne e ricevuto la conferma che c’erano temi di cui volevano parlare: sesso, verginità, rapporti prematrimoniali, aborto, carriera, mobbing. In una delle ultime interviste, ha detto di aver scritto ”un Sex&TheCity senza il vibratore”, richiamando un parallelo che non le rende giustizia. Siamo negli anni ’50, il decennio della “lotteria genetica” (cattura l’uomo migliore, metti al mondo bambini perfetti...), dove non c’è spazio per l’insuccesso. Rompere le convenzioni sociali e il muro della morale accettata è l’inizio di una rivoluzione, sia per le signorine wasp, bianche e protestanti che sposano gli "Svedesi" di Philip Roth, sia per le segretarie che facilmente li inducono in tentazione.

Carrie e amiche ne godranno solo i frutti. 

A Radcliffe c’erano “regole” scritte e non scritte. Le prime vietavano i pantaloni a cena, le altre di calarli più di quanto necessario ad agganciare i pretendenti migliori. Comincia da qui il lungo flashback nei destini delle protagoniste della rimpatriata. Che non sono le dattilografe in cerca di indipendenza de “Il meglio della vita”, ma ricche debuttanti da cui ci si aspetta di essere pilastri del successo dei mariti. Entrambe hanno fatto delle scelte e spesso pagano un prezzo di tradimenti e solitudine. Annabel, bella e disponibile, è una madre single di ritorno dopo il matrimonio con un miliardario idiota e una lunga parentesi alcolica. Daphne, la più intelligente, deve liberarsi da un segreto e confrontarsi finalmente con un marito blasonato, che nella sua progenie non tollera difetti. Emily, ebrea e di ricchezza recente, non si è mai liberata dal senso di inadeguatezza, al fianco di un uomo di successo, innamorato ma insofferente. Infine Chris, la più moderna e inquieta, che per amore accetta l’omosessualità del compagno, a costo di continui patimenti.


Sullo sfondo la New York della “decadenza”, come sintitola la seconda parte del romanzo, che tra le strade di Manhattan si scopre omofoba, violenta, classista, razzista. Dietro l’angolo del perbenismo dorato, si prepara il decennio della paura: gli eccessi, poi la peste dell’Aids. Gli uomini ne escono male, forse troppo. Splendidi e opachi comprimari, accanto a donne acciaccate e ferite, ma sempre in lotta contro un ruolo assegnato. Così, tra pagine leggere, frettolosamente definite chick lit, letteratura da gallinelle, l’autrice racconta un momento cruciale per l’emancipazione, l’uguaglianza, il rispetto e la parità tra i sessi. E ha ragione lei, senza scomodare #metoo: non ci siamo ancora prese il meglio. 

@boria_a

martedì 14 agosto 2018

IL LIBRO

 David Litt: Così ho insegnato a Obama a far ridere



David Litt con Obama e il capo degli speechwriter Cody Keenan





David Litt


Prima di House of Cards e Scandal, è stata la serie televisiva West Wing a portarci nelle stanze del potere vicine allo Studio Ovale, nell’ala ovest della Casa Bianca, dove lavorano i più stretti collaboratori dell’uomo più potente del mondo, il presidente degli Stati Uniti. David Litt, per sua stessa ammissione, non è Rob Lowe, l’attore che sul piccolo schermo interpretava il vice capo della comunicazione: aitante, carrierista, sciupafemmine, sempre capace di escogitare la strategia vincente per scongiurare una crisi. Ma Litt, ad appena ventiquattro anni, in quelle stanze del potere ci è entrato davvero, non solo nella fiction. E per Obama, dal 2011 al 2016, ha trovato e scritto molte parole, magari non solo quelle alte e alate che avrebbe sognato, su infrastrutture e giustizia penale, ma le battute, le frasi ironiche, i sottintesi divertenti che hanno fatto ridere e sorridere gli americani. E se non entreranno nella Storia con la s maiuscola, hanno restituito un presidente meno ingessato nel suo perfezionismo e nella sua preparazione, rendendolo in qualche modo umano. Perfino insicuro o disarmato.

Immaginatevi un Obama che non riesce a pronunciare “buona festa” in ebraico e continua a inciampare sul gutturale suono ch di chag sameach. Ha percorso migliaia di chilometri attraverso il pianeta, è distrutto dal jet lag, ma ci prova fino a quando il risultato non è accettabile, consapevole di quanto possa contare una frase, per quanto semplice. «Perché non avevo scritto buone feste in inglese, anziché usare una parola così difficile da pronunciare?» si rammarica Litt, autore del discorso per la Pasqua ebraica. Il problema, spiega, è l’invisibile “polvere magica” che aleggia alla Casa Bianca, il granello sempre in agguato per inceppare la macchina più sofisticata. «Quando sul tuo biglietto da visita c’è lo stemma del presidente, errori altrimenti insignificanti rischiano in un batter d’occhio di trasformarsi in una catastrofe».





È stata un’esperienza entusiasmante, con qualche risvolto surreale, per un neolaureato di Yale diventare uno dei più giovani speechwriter di Potus, President of The United States, secondo l’acronimo ormai familiare anche ai non addetti ai lavori. Tant’è che i veri uomini del presidente, lo chiamano semplicemente P, a marcare una differenza di consuetudine e vicinanza, l’appartenenza a un gruppo ristretto. Arruolato subito dopo l’università tra gli “Obamabot”, gli attivisti e supporter delle campagne elettorali, Litt entra in poco tempo a far parte dello staff superspecializzato delle “penne”. I ghost writer di indirizzi di saluto, commemorazioni, elogi, discorsi sui più diversi temi, gli estensori di quelle “minute” che poi saranno passate palmo a palmo dai fact checker. Un’inesattezza o il rischio di un’interpretazione equivoca possono scatenare tensioni internazionali, crisi politiche, attacchi mediatici, l’ironia degli avversari. Su ogni parola l’ultima parola spetta naturalmente allo stesso P.

“Tuttofare retorico” si definisce Litt, con una specializzazione particolare: entrare in campo quando Obama non deve fare il “grande consolatore” del paese, ma il “grande comico”. È il caso delle cene con i giornalisti, o con i potenti e miliardari, quando serve la battuta fulminante per un titolo che l’indomani conquisti l’opinione pubblica. Litt ha dovuto fare anche qualcosa di meno piacevole: trovare il coraggio per dire al presidente che una sua foto accanto al primo ministro israeliano andava tolta di mezzo prima che sorgesse un incidente diplomatico spiacevole. Il motivo? Da un’angolatura ricordava Hitler.
 

“Grazie, Obama” (HarperCollins, pagg. 375, euro 18,00), le memorie semiserie di un giovane scrittore di discorsi, sono la cronaca brillante di un temporaneo insider della Casa Bianca. Lo stesso Litt lo presenterà a pordenonelegge (www.pordenonelegge.it), nella giornata conclusiva della kermesse, domenica 23 settembre 2018 (all'istituto Vendramini, ore 17).

Aneddoti, curiosità, personaggi. I collaboratori, i portavoce, la sicurezza. Il ritratto del presidente, nei suoi tratti umani e nella sua inumana capacità di lavoro e concentrazione. La sua abilità di andare subito al punto, e il suo gusto di punzecchiare, il suo annunciarsi fischiettando. Il sogno del primo uomo nero a guidare gli Stati Uniti, delle sue riforme a volte difficili, osteggiate, dall’avvio farraginoso, che sono riuscite a migliorare la vita di milioni di americani. L’Obamaworld, con le sue regole, la sua agenda, i retroscena che paiono incredibili in un sistema sottoposto a un controllo maniacale.


Solo chi ha il badge blu può muoversi liberamente e percorrere la West executive Avenue, la strada che separa il generico campus, familiarmente chiamato “palazzo”, dalle autentiche stanze dei bottoni, senza rischiare di essere bloccato dalla sicurezza. Con un’unica eccezione: il gatto Smokey, alimentato in segreto da qualche agente con un debole felino. Il “first randagio” è dotato di uno straordinario senso dell’opportunità politica, che lo spinge a mostrare gli artigli e a far la guardia al sancta sanctorum del presidente quando l’economia dà segni di debolezza o una crisi è all’orizzonte.


In una toilette, quella stessa probabilmente usata da Nixon O Johnson quando erano vice, cui si accede da una scala a spirale che forse anche Roosevelt percorse prima della poliomielite, l’episodio più sconcertante: un filetto di salmone alla griglia, quel giorno nel menù di Ike’s, il deplorevole self service interno, rinvenuto da Litt a galla nel water, intonso. Possibile che fosse stato l’unico altro occupante del bagno, un agente del Secret service, uno degli X-Men che vigilano a vista il presidente, a essersi liberato così platealmente di un piatto sgradito? Cosa c’era dietro? Ed ecco, avverte Litt, ancora una volta l’effetto della polvere bianca, dell’influenza perversa del potere: nè una toilette, nè una scala e nemmeno un filetto di salmone a galla in un water sono semplicemente quello che sono.



E l’Air Force One? Lo chiamono così i neofiti del potere, per gli iniziati è solo “The Plane”. E dentro è tutt’altro che mitico, come nel film con Harrison Ford: i posti sono assegnati in base all’importanza di chi li occupa, con il “cuore” in testa dove il presidente ha l’ufficio privato, quindi il corridoio centrale può essere percorso solo all’indietro, mai avanzando. C’è di più: è rumoroso, fa freddo, una luce stordente sale da terra, si mangia cibo spazzatura ed è impossibile dormire senza i sonniferi che il medico di bordo distribuisce generosamente prima di decollare. Solo un novellino li rifiuterebbe. Un’avvertenza: mai abbuffarsi a colazione prima dell’atterraggio, se non volete trovare una fila interminabile per la toilette e rischiare di scendere in pigiama. In entrambi i casi, Litt ne sa qualcosa.


Spiritoso, autoironico, imprevedibile, sempre affettuosamente partecipe, questo diario ci racconta dall’interno il grande sogno dell’I Care e di quanti, anche solo mettendo in fila le parole più appropriate, hanno contribuito a costruirlo. Compreso un neolaureato che esordì nella West Wing rischiando di pestare un paio di lucide scarpe nere e di scoprire cosa fa il Secret Service agli sprovveduti che danno una testata nel petto di Potus. Anzi, di P.

@boria_a
MODA & MODI

Muccata versus Panterata

Il muccato di Calcaterra
 

Sarà un altro inverno bestiale. Come ogni anno degli ultimi dieci a questa parte, le anticipazioni per i prossimi mesi ci propongono una pelle maculata. Ma non l’avevamo già provata a sazietà? Fidatevi, rassicurano i guru delle tendenze: l’effetto savana urbana non va mai fuori moda, è uno dei filoni più coriacei. L’animalier, insomma, ha la pelle dura. E, a dispetto dei suoi tanti e violenti detrattori, la vende cara. Leopardi, ghepardi, zebre.

Ma quest’anno c’è una novità. Tra gli animali esotici, s’insinua una placida e rassicurante pezzata, col suo mantello a larghe macchie bianche e nere. Se non vi sentite a vostro agio nella parte, e nella pelle, di una specie ferina, forse avete un’anima più bovina. Ti va un muccato? Non è una variante del cappuccino, ma uno dei cappotti sfilati in passerella e firmati da griffe di punta. Lunghi fino ai piedi, con cintura, a metà polpaccio, tutti con l’inconfondibile manto bicolore, alla mucca Carolina dei formaggini Susanna, che alle signore negli anta evocano l’immagine di Caroselli spensierati.

Che poi non di vera mucca si tratta, ma come per i più graffianti leopardati e zebrati, di una semplice stampa su pelle di vitello, il cosiddetto “cavallino”, che ha anche una versione tutta ecologica. Se l’animalier bordeggia sempre il kitsch, non fidatevi troppo della pelle di mucca. Sarà pure un pattern semplice, ma dall’impatto forte, tutt’altro che addomesticabile. La signora country, allevatrice metropolitana, deve accettare il rischio di essere eccessiva. Non ci si può rivestire di pelo bicolore, coprirsi di macchie dalla testa ai piedi, e poi, tolto l’involucro, rifugiarsi in indecisi colori pastello. La guerra a colpi di stile richiede coraggio fino in fondo.
La mucca è la nuova pantera. 
@boria_a