martedì 23 febbraio 2021

MODA & MODI

 

 Una Barbie e un libro, le collezioni vogliono bucare il display

 


La Barbie vestita da Richard Quinn


 

 

Le sfilate virtuali di questi giorni, da New York a Milano, sintetizzano l’annus horribilis della moda. Anzi, gli anni, due per l’esattezza. Perchè mentre dappertutto si commemora l’anniversario dell’inizio della pandemia, il fashion system, che ha sempre anticipato le stagioni meteorologiche, e ne ha create di nuove in una crescita parossistica della produzione, celebra mestamente il secondo anno di passaggio all’online. Instagram, Facebook, Snapchat sono gli strumenti democratici con cui i brand propongono le novità a una platea che si allarga potenzialmente all’infinito. 

L’esclusività, con cui per anni hanno coccolato le ristrette platee ammesse alla passerella, con il famoso e temuto “sitting” che sanciva il tasso di importanza e di influenza di ciascun invitato (una divisione castale oggi completamente azzerata), è stata la prima a sparire. Ai social si sono affiancati i film di moda, piccoli goielli firmati da registi importanti, in cui condensare la filosofia del brand sostituendo il passaggio in passerella con fotogrammi da sogno, in molti casi ancora più incisivi per alimentare il desiderio e l’aspettativa. Tra i più belli “Le mythe Dior” firmato da Matteo Garrone, poi lo stile Gucci raccontato in tre puntate dai fratelli d’Innocenzo, e ancora la prossima primavera-estate Ferragamo affidata allo sguardo rarefatto di Luca Guadagnino nel suo “Suspense, Intrigue e Beauty”, girato a Milano.


Streaming, film, schermi. Hanno aiutato tutti a sopravvivere, ma ora disorientano, stancano. C’è dunque chi ha scelto una strada diversa, più coraggiosa. È il brand Palm Angels, per definizione stessa del suo fondatore, Francesco Ragazzi, “figlio di uno smartphone, di Instagram e dei social network”, che ha deciso di proporre la nuova collezione nell’oggetto più desueto nel mondo dell’etere: un libro, in edizione limitata, da sfogliare, da tenere in mano, su cui soffermarsi, anche “fisicamente”, una risposta alla finzione del digitale che ha travolto tutti, come il virus.


Poetica anche l’idea del giovane designer britannico Richard Quinn, esploso in pochi anni col suo mondo inconfondibile di stampe floreali. Prima di lanciare in digitale la sua nuova collezione autunno-inverno 2021 alla London Fashion Week, ha affidato a una Barbie-testimonial, nera, un assaggio del progetto, uno splendido abito haute-couture a cono, con fiori bianchi e foglie che si rincorrono su un fondo nero certosinamente ricamato. 


Un libro, una bambola. Dopo tanta virtualità la moda ha bisogno di “toccare” oggetti, di tornare a farsi vedere senza il filtro di un display. Dallo streaming difficilmente si tornerà del tutto indietro, non solo per la sicurezza sanitaria ma anche per i risparmi e la sostenibilità ambientale. La sfida è conciliare i due mondi senza perdere la magia del reale.

giovedì 18 febbraio 2021

MODA & MODI

 

Col videoshopping il negozio dialoga col cliente in Rete 




 

Come cambierà nel 2021 il nostro modo di acquistare? La pandemia che ha stravolto e rimpicciolito il mondo, ha determinato un’impennata delle vendite online, trascinando anche i più riottosi davanti alle sconfinate vetrine dell’e-commerce. Il negozio fisico, irraggiungibile, è diventato virtuale, e dovrà esserlo sempre di più, senza però perdere il contatto diretto col cliente, anzi personalizzando l’offerta seppure a distanza.


La prima parola che segna il 2021 è proprio questa, videoshopping, una sorta di ponte tra il compratore nascosto nella rete e i suoi interlocutori in negozio. Il consiglio e l’assistenza nel momento della scelta di un capo o di un accessorio sono un valore aggiunto, quindi i grandi brand - la tendenza è partita dalla Cina ma Stati Uniti ed Europa si stanno rapidamente orientando verso questa linea - attraverso Instagram, Facebook, Snapchat offrono contenuti video a un pubblico allargato, che poi viene reindirizzato ai siti per l’acquisto, o anche consulenze a misura del singolo.


La seconda parola è consapevolezza, il trait d’union più forte, una sorta di patto tra chi compra e chi vende. Studi (per esempio il report di Trustpilot condotto a livello internazionale con London Research su 2800 consumatori, di cui 200 in Italia) hanno dimostrato che i compratori, soprattutto i più giovani, premiano i brand che esprimono chiaramente i temi di cui si preoccupano e che trasmettono nei contenuti online: rispetto per l’ambiente e per tutti i lavoratori della filiera della moda, politiche anti-spreco, attenzione per i marchi creati da designer neri sulla scorta del #blacklivesmatter.


Ma se i negozi diventano sempre più virtuali, si svuoteranno del personale? La trasformazione del ruolo è un’altra parola con cui dovremo familiarizzare. Chat, video, whatsapp permettono agli addetti alle vendite nei grandi store, boutique, monomarca, o ai gestori e titolari dei negozi più piccoli di dialogare con i consumatori, tenersi in contatto e diventare consulenti di stile ben al di là delle pareti fisiche dove finora hanno lavorato. Saranno proprio loro, mettendoci faccia e personalità, a diventare micro-influencer, fidelizzando il cliente.


La pandemia ha portato tutti a riflettere su alcuni valori come qualità, fedeltà, sostenibilità, durata, che investono potentemente la moda. Conta sempre più il passaparola, il riscontro positivo che vola in rete su una marca e le sue scelte di responsabilità. I fashionisti sono in dialogo e nutrono fiducia sulle reciproche recensioni, più che sulle riviste, sulle pubblicità e sui siti stessi dei brand. Fortunatamente, e anche questo lo dimostrano le analisi di mercato, c’è una parola, e soprattutto una figura, che perde terreno, quella delle celebrità influencer, ormai considerate spot parlanti più o meno ingannevoli.

domenica 14 febbraio 2021

IL LIBRO

 

Petra Delicado finisce in cella

e si confessa in un'autobiografia

 


 

 Chi era Petra Delicado prima di diventare l’ispettrice determinata, indipendente, libera e femminista della polizia di Barcellona? Il tredicesimo libro di Alicia Giménez-Bartlett s’intitola in originale “Sin muertos”, senza cadaveri, anche se di vera investigazione ancora una volta si tratta. Un lungo e dettagliato viaggio che la protagonista dei gialli dell’autrice spagnola, amatissima in Italia, dove puntualmente scala le classifiche, fa dentro se stessa, per disseppellire non corpi ma ricordi, scelte, svolte, decisioni, amori e dolori, dalla prima infanzia fino alla cella in un convento di suore della Galizia dove si è presa una settimana di pausa. Complice la pioggia, Petra si inoltra nella sua investigazione più intima e sincera, quella che lungo oltre quattrocento pagine fa scoprire al lettore quale percorso l’ha portata fin lì.


Giménez-Bartlett ha raccontato che è stata una lettrice, durante una presentazione, dicendosi sicura che dopo due fallimenti la “vera” poliziotta non sarebbe ricaduta in un terzo matrimonio, a suggerirle l’espediente letterario per l’“Autobiografia di Petra Delicado” (Sellerio, euro 15). Chi è davvero la mia Petra? si è chiesta allora la scrittrice. E ha ripreso in mano il personaggio, fingendo che su un quaderno a quadretti, nel silenzio della cella monacale, Petra ripercorra la sua vita: la prima infanzia in una famiglia repubblicana, il padre anticlericale e socialista professore di liceo, la madre femminista ma al tempo stesso rigida e invasiva nei confronti delle tre figlie, l’incontro con l’autorità ottusa nel collegio di suore dove comincia la scuola, che la allena subito alla contestazione e alla ribellione. E da cui naturalmente verrà espulsa per non aver celebrato il mese mariano sul giornalino scolastico, puntando piuttosto alla gioia pagana della primavera. Sullo sfondo la Spagna clericale e soffocante di Franco al tramonto.

 

Alicia Giménez-Bartlett

 


Proprio durante una manifestazione di protesta studentesca, la futura ispettrice conosce il primo dei suoi mariti, Hugo, che la convince a lasciare gli studi umanistici per la giurisprudenza e a diventare avvocato come lui, cucendole addosso un progetto di vita in cui si sente subito prigioniera (e da cui comincerà a pianificare la fuga concedendosi un paio di amanti).
Un dispetto, postumo, nei confronti di Hugo, farà però svoltare la sua vita. È la scelta di lasciare l’avvocatura per entrare alla scuola di polizia di Avila, dove, tra studi e allenamenti, Petra incontra un ragazzo molto più giovane, Pepe, futuro secondo marito, con cui, bruciata la passione, si ritrova confinata in un’altra relazione sbilanciata, quasi di accudimento materno.


E Fermín Garzón, il compagno di tante investigazioni, il partner per la birra a fine giornata e il destinatario delle punte di spillo sulla parità di genere, che al primo impatto descrive “grosso, vestito come un bifolco, con i capelli praticamente bianchi”? Petra confessa: “Non c’è stata tra noi la minima attrazione fisica, mai un accenno di galanteria e men che meno di seduzione. Eppure la sua figura emerge come quella di un gigante quando penso agli uomini che sono stati importanti per me”.


E ce ne sono di uomini, parecchi, durante le varie indagini (incluso il russo Aleksandr con cui copulerà nel mausoleo di Lenin), perchè a Petra piace l’arte del flirt: “Avvistamento, calcolo dell’indice di probabilità, prima incursione, lancio dei segnali, interpretazione dei segnali corrispondenti della controparte. Azione”. Almeno fino a quando abbandona il mordi e fuggi e si sistema col terzo marito, l’architetto Marcos, che le porta in dote (a lei, renitente a qualsiasi idea di maternità) quattro figli.


I lettori non si preoccupino. La settimana di Petra passa presto e Giménez-Bartlett sta già lavorando a “Food trucks”, l’omicidio di due ragazzi che gestivano un camion di cibo da strada. «L’idea di dover affrontare due morti ammazzati mi parve di colpo la cosa più innaturale del mondo». Dopo l’autoanalisi, sarà di nuovo la stessa Petra?

giovedì 11 febbraio 2021

L'ANNIVERSARIO

 

Ottavio Missoni, cent'anni fa nasceva

il velocista della vita

 

 Ottavio Missoni alle Olimpiadi di Londra del 1948 finalista nei 400 metri a ostacoli

 

 

“Caleidoscopio Missoni”, s’intitolava la mostra che nel 2006 i Musei provinciali di Gorizia dedicarono a “Tai”, omaggio che avrebbe dovuto fare Trieste a uno dei suoi figli, per quanto “adottivo”, più celebri nel mondo. Caleidoscopio, e mai parola fu più azzeccata, perchè nelle sale di Palazzo Attems non c’erano soltanto i quaranta arazzi realizzati da Ottavio, l’intera sua produzione, ma una straniante immersione nel suo mondo, anzi nel mondo “dei” Missoni, un viaggio cromatico da stordire. Righe, zig zag, grafismi, geometrie, patchwork, si rincorrevano su ogni centimetro a disposizione, soffitti e pareti comprese, raccontando l’avventura di una coppia, di un’azienda, di una grande famiglia. I loro colori, che sono un brand e una filosofia. “Te vedi come va la vita: a zig zag” aveva scritto Tai sotto uno dei suoi fulminanti ghirigori, il 22 febbraio 2008, nel libro d’oro del Comune di Trieste, il giorno del conferimento della cittadinanza onoraria.

 

Ottavio Missoni, 1989, davanti a uno dei suoi arazzi. Foto Silvano Maggi

 


“A Trieste iera più facile varar una nave che far una màja”. Lo diceva sempre quando raccontava gli inizi, faticosi, del marchio e il trasferimento a Gallarate, casa e bottega, lui che giocava con i colori e girava col campionario e Rosita a studiare i modelli. E ancora: «Avevamo macchine che le podeva far solo le righe, verticali, orizzontali, diagonali. Poi si sono evolute e facevamo righe orizzontali e verticali contemporaneamente. E abbiamo creato lo “scozzese”. E quando sono arrivate quelle che si muovevano su e zo, su e zo, siamo diventati i Missoni dei zig zag. Insoma, andavimo drio a quel che podeva far le machine...».

 

Ottavio e Rosita Missoni nel 2003, cinquantenario del brand

 


Le straze, come le chiamano i parenti triestini, partono alla conquista del mondo. Quando, nella stagione ’68-’69 mandano in passerella tutto insieme, righe, scozzesi, pois, il caleidoscopio è già nel dna del marchio, il suo segno inconfondibile. È il “Put together”, un intreccio di fili, nella moda e nella vita. Balthus li definisce “maestri del colore”, la nasuta Diana Vreeland, potentissima direttrice di Vogue America, davanti ai loro maglioni scopre che esistono i toni, oltre ai colori. Eppure lui, Ottavio, l’artista dei pupoli, che in tutto il mondo ha sempre parlato triestino, delle giornaliste se la ride. «Ho imparato la lezione a memoria. Quando gli americani mi chiedono “Come sono i colori di Missoni quest’anno?”, io gli rispondo: “Ahh, very exciting”. E quando mi dicono “La linea, la linea?”, io gli faccio: “Ahh, very impressive”. E gò finì. Do parole, sempre quele».

 

Ottavio e Rosita Missoni nel 1982, foto Giuseppe Pino

 


Do parole, sempre quele, le diceva anche per “la mia sposa”, come l’ha sempre chiamata, e l’accostamento non poteva essere che perfetto. «Te sa cossa? Quando me domanda, mi digo: mi son el “creator”. Ma ela, la Rosita, me gà creado mi”.

martedì 9 febbraio 2021

 L'INTERVISTA

 

Diego Marani e Trieste, la sua città celeste

 

 

Diego Marani

 

 

“Non pensavo che si potesse piangere per una città. Ma allora non sapevo che le città sono donne e che anche di loro ci si può innamorare e non dimenticarle mai”. Sono righe dalle prime pagine del nuovo libro di Diego Marani, pluripremiato scrittore ferrarese, direttore dell’Istituto di cultura italiana di Parigi, che oggi si occupa di diplomazia culturale per l’Unione europea. La città di cui parla è Trieste, dove Marani studiò e si laureò alla Scuola interpreti tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, quando l’istituto si trovava in via d’Alviano e agli studenti fuori sede, che per la prima volta mettevano piede sul confine, si schiudeva un mondo sconosciuto, solo vagamente sfiorato dai libri di storia del liceo: l’avamposto italiano così poco italiano, dove convivevano esuli e sciavi, prima della sconfinata e incombente landa comunista.


Marani la chiama “La città celeste” (La nave di Teseo, pagg. 199, euro 17, in libreria dall'11 febbraio), titolo di questo luminoso, lieve e malinconico diario degli anni universitari a Trieste, un passaggio all’età adulta segnato da tante scoperte, da amicizie inossidabili, e dall’amore travagliato e smisurato dei vent’anni per una donna, che finisce per identificarsi con la città stessa e con le sue tante anime. La città che è sempre in bilico su un confine che non esiste più ma che continua a inventarsi, la città-passaggio, con la sua eterna promessa di altrove.

 


 


«Venivo da Ferrara, piccola, semplice, lontano dai confini. Era facilissimo essere italiani a Ferrara - racconta Marani -. A Trieste ho scoperto un groviglio di confini. Quello politico, perchè allora c’era il comunismo dall’altra parte, poi quello linguistico e quello geografico. Per me Trieste è stata questo: il risveglio alla complessità del mondo. E l’incontro con la ricchezza, la diversità, la varietà. È vero che la città allora era in sospeso: c’era la chiesa serba ma non c’erano i serbi, c’era la chiesa greca ma non i greci. Però queste presenze ti facevano riflettere su un mondo che non esisteva più, ma di cui si conservavano ricordi e una tradizione».


Lei arriva nel ’78. Qual è stata la prima impressione? «L’Oriente. Scendendo in stazione Trieste mi sembrò una città levantina. Non sapevo che tre quarti della gente che vedevo era jugoslava. Fuori era pieno di bancarelle, di donne con i sottanoni, e io pensavo che quella fosse Trieste, che quelli fossero i triestini. Due cose mi colpirono. Era novembre e c’era il sole, da noi invece avevamo la nebbia già da un mese. E i colori, gli odori».


Lo scrive nel libro: il confine è un luogo, un odore, un’inquietudine... «I primi tempi mi sembrava quasi di sentirlo. Mi dicevo: deve essere là, appena dietro quella cresta di monti, la carta geografica parla chiaro. E provavo la sensazione di essere stretto da questo confine impellente, allora lo si avvertiva, di là c’era la guerra fredda. Non avevo mai sperimentato niente di simile, venivo da un posto lontanissimo da qualsiasi frontiera. Poi ho scoperto che in realtà era un confine aperto, che si andava di qua e di là».


Le “due città” le incontra nella sua prima casa, da affittuario dai signori Cotiga... «Anche questo mi confondeva. Non sapevo della presenza slovena in città, degli italiani sloveni. E i profughi non riuscivo a distinguerli, mentre i triestini capivano subito se avevano a che fare con un istriano. Nella mia prima casa in via Maiolica sentivo il risentimento che pesava sull’animo dei due anziani proprietari, che era molto di più del dolore della guerra. Era come un astio, un’ombra che incombeva su di loro, perchè oltre alla guerra c’era stato l’esilio, un figlio morto. Trieste era tutto un contrasto, ovunque mi muovessi ne incontravo uno. A Ferrara all’epoca la società era molto positiva, si respirava uno spirito di fiducia nel futuro, di crescita. A Trieste questo non esisteva, era tutto fermo, la sfiducia e lo scoraggiamento stagnavano sulla città, che si sentiva abbandonata dall’Italia e da Roma. Per me era inconcepibile, non capivo perchè non ci si scuotesse, non si andasse avanti».


Si pentì della scelta? «Mai, perchè solo a Trieste esisteva una Scuola interpreti che dava la laurea. Le altre erano scuole private, carissime e molto meno quotate. Poi ero incuriosito, mi sembrava un altro pianeta e mi sono appassionato a cercare la chiave per entrarci».
Lei viene a studiare lingue e scopre il bilinguismo.
«Il concetto mi era del tutto estraneo, non capivo neanche come potesse funzionare, che ne so, uno dice una parola in una lingua poi in un’altra... Da noi si parlava il dialetto, ma c’era un gradino sociale, uno scarto, tra chi lo usava e chi si esprimeva in italiano. E oltreconfine non sapevo che le sei repubbliche avessero lingue molto diverse, pensavo parlassero tutti serbo-croato, e facevo arrabbiare i miei amici sloveni. Poi un’assurdità: alla Scuola interpreti studiavo inglese e francese e ho tentato l’olandese, che non c’entravano niente con Trieste, non mi servivano per capire la sua realtà. Erano pochissimi a studiare sloveno o serbo-croato, sembravano un clan, si intendevano fra di loro, si preparavano a lavorare nel mercato locale».


Lei dice: le case segnano le nostre esistenze. Ci racconti quella di via San Nicolò 10... «Mi ha segnato profondamente. Era una specie di comune, in un posto meraviglioso della città, anche se allora il centro era cupo, buio, lì vicino c’era la Sip e centinaia di militari la sera venivano a telefonare. Non era la Trieste gioiosa e ridente di adesso. Però la casa era una parentesi di libertà assoluta, da noi dipendeva tutta l’organizzazione, dallo studio alla vita domestica, e invece di piombare nell’anarchia e nel disordine siamo riusciti a mettere in piedi, pur nella confusione della gioventù, un qualcosa che funzionava. Ci sentiamo ancora con quei quattro, cinque che hanno vissuto in via San Nicolò, abbiamo una chat e parliamo ogni giorno, siamo rimasti amici. La nostra scuola aveva questa particolarità, a parte gli sloveni tutti venivano da fuori ed eravamo molto legati perchè avevamo gli stessi problemi».


Arriva anche l’amore, prima Vesna, poi sua sorella Jasna. «Mi innamorai di loro e di questa città segreta, questa gente che si nascondeva, che era lì ma non si vedeva. E più avanzavo nella mia scoperta della componente slovena, più conoscevo nuove cose, il teatro, la Glasbena Matica. Mi sembrava una chiave per entrare nell’altro mondo oltreconfine, in quell’oriente che mi si affacciava e mi pareva arrivasse a Vladivostok nel giro di uno svincolo di autostrada. Lo sloveno, però, non l’ho mai imparato».


Lei ha cambiato i nomi di tutti ma Jasna e Vesna si riconosceranno di sicuro... «Sono rimasto in contatto anche con loro, sanno del libro. Tutti i personaggi si riconosceranno e saranno riconosciuti. Era inevitabile. La nostra squadra di calcio, i Barbarians, se la ricordano tutti a Trieste».


Le è servita questa esperienza per la sua carriera? «Certo. Il passare da una lingua all’altra, il non essere se stessi solo in una lingua, è la chiave di tutta la mia scrittura. È l’inizio del mio libro più importante, “Nuova grammatica finlandese”, e continuo a tirarmelo dietro. Questa è la chiave dello spirito europeo. Quando riusciremo ad abbandonare l’idea che apparteniamo a una sola lingua e a una sola cultura, e a pensare che possiamo passare da una lingua a un’altra e appartenere a lingue diverse, allora avremo creato l’identità europea. Saremo maturi come cittadini europei quando capiremo che le lingue non appartengono a un governo, a uno stato, a un’accademia. Io parlo benissimo francese e rivendico la mia “francesità”, la lingua dei francesi per il semplice fatto che la parlo diventa anche mia e, parlandola, ho diritti su questa lingua. Lo stesso vale per tutti i triestini che non sono sloveni ma si mettono a studiarlo e così diventa loro tutto il modo legato a quella lingua. È un atteggiamento reciproco, ognuno deve essere pronto ad aprirsi a un’altra lingua, ma anche il mondo che quella lingua la parla deve abituarsi ad accettare questa diversità».


Perchè Trieste è la sua città celeste?
«Per tante cose. Per il sole d’inverno, per la bora che rende il cielo azzurro ed è stata la prima scoperta. La città celeste è Gerusalemme, ma per me è Trieste la città sacra della mia giovinezza, dei miei vent’anni che io immagino siano ancora lì, intrappolati come un fossile nelle dolomie. Cerco di tornarci sempre in treno, mi affaccio dal lato costiera, poi dal lato monte dove c’è la casa di Vesna e Jasna. Ho tutti i miei ricordi, intatti, sparsi in quel tragitto. E mi commuovo». 

@boria_a