domenica 18 luglio 2010

E' ITS NINE A TRIESTE
Il giapponese Takashi Nishiyama e il suo cacciatore di mostri vincono la nona edizione del fashion contest


TRIESTE L'ultima uscita sulla passerella di ITS Nine ci riconcilia con la moda e con i suoi capricci, anche se non vince nulla. Sfila la collezione femminile di Sideral(Es), gruppo di creativi nato proprio per partecipare al concorso triestino con un progetto originale, che parla in parte italiano, una vera rarità tra i nuovi talenti, e in parte anche friulano, merito dei gioielli del lignanese Francesco Sbaiz, in arte "Dna 79".


Sideral(Es)
Le donne vestite da questi giovani designer vivono in simbiosi con gli abiti, il loro corpo è accarezzato, valorizzato e non maltrattato, dalle tecniche più innovative nella lavorazione dei materiali.

La colonna sonora si addolcisce e le indossatrici scivolano sulla pista con il numero del modello in mano, come nei defilé silenziosi e sacrali degli atelier "vintage". Indossano abiti di pelle stampata, trattata nei solarium per modificarne il pigmento e poi aerografata, tailleur con crine di cavallo decolorato e piume "pettinate" con l'arricciacapelli del parrucchiere, camicie di chiffon che si arrotolano in plissè di fiori sul petto, completi di paillettes color stagnola come star d'altri tempi.
Li hanno pensati, disegnati e cuciti la brasiliana Roberta Weiand con gli italianiLinda Calugi Fabrizio Talia, finalista della prima edizione. Poi hanno convocato il cappellaio matto inglese Justin Smith, pluripremiato a ITS Six, che li ha arricchiti con costruzioni spericolate e leggerissime, una sfida alla forza di gravità da portare in testa, e il designer Francesco Sbaiz, ideatore di monili che attraversano complesse fasi di lavorazione prima di diventare ornamenti primordiali, tracce di forme impresse nel rame e nell'argento e trattenute da stoffa e neoprene. «Abbiamo voluto dar vita a una vera e propria "factory" creativa - spiegano Linda e Roberta - ma speriamo di poter continuare insieme anche dopo ITS». E, in previsione della sfilata di ieri sera hanno tappezzato la città del numero "22", il loro simbolo, applicato un po' ovunque sui lampioni in glitter che si scioglie con l'acqua. Promozione originale e messaggio involontario: i giovani del concorso hanno voglia di uscire dal recinto artificiale dell'evento di moda, farsi conoscere al di fuori dei suoi addetti ai lavori, incontrare la città che li ospita ogni anno, prima perplessa ora incuriosita.



Ieri sera i "viaggiatori" di  ITS Nine, i finalisti della sezione moda, hanno proposto a pubblico e giuria il frutto delle loro esplorazioni, dedicate soprattutto al maschio, il cui guardaroba è evidentemente un territorio ancora in parte inesplorato per la creatività giovane. Otto delle dodici collezioni scese in passerella nell'ex Pescheria, ai ritmi indie e rock miscelati dagli Electrosacher, sono state dedicate a "lui", se così si può chiamare l'uomo che dovremmo rintracciare, e a cercarlo ci si deve mettere una certa dedizione, sotto questi involucri.

Un transgender, perlomeno, a giudicare dalle tunichette bianche con gilet di pelliccia, in cui lo infila il belga Niels Peeraer, che non a caso ha dovuto arruolare per la sua sfilata indossatori "speciali", quasi degli efebi, e un pre-adolescente autoctono, col petto striminzito e la vita di sessanta centimetri. Esseri - cui è andato uno dei premi minori - che il loro ideatore chiama "geishe", dotandoli anche di sandali col tacco, ci fosse mai qualche dubbio sulla loro bidimensionalità.
Aggiungi didascaliaGli efebi firmati Nils Peeraer

O un maschio disorientato nei colori e confuso tra le stagioni, che abbina bermuda leopardati a un montone fuxia, per una collezione intitolata dalla danese Astrid Andersen, con involontaria lungimiranza visto la calura, "Death in the afternoon". Un maschio che riscopre il colore, in una vitaminica tuta-smoking da sera arancione firmata dal sudcoreano Juho Song, uno dei designer meno arrabbiati col suo sesso, ma che preferisce comunque rintanarsi in una sorta di guscio da pulcino, com'è il soprabito inventato dal tedesco Michael Kampe. E rendersi respingente ai propri simili indossando, dello stesso stilista che ha vinto il prestigioso "Diesel Award" di 25 mila euro, una giacca con lunghi aculei di metallo sulle spalle, una sorta di installazione di antenne che ha richiesto una preparazione anticipata di un'ora rispetto all'uscita del modello in passerella.
 La collezione di Michael Kampe
È piaciuto così tanto ai giurati il "cacciatore di mostri" inventato dal giapponeseTakashi Nishiyama che gli hanno attribuito il "Fashion collection of the year", primo premio da quindicimila euro e ritorno assicurato a Trieste il prossimo anno.
Takashi Nishiyama, Fashion collection of the Year ITS Nine
Il giovane designer dice di essere stato colpito da un impiegato che giocava con questo videogioco, famosissimo nel suo paese, aspettando il treno dei pendolari e di aver pensato uno stile per il lavoratore contemporaneo del Sol Levante. Lavoratore con futuro incerto anche a quelle lontane latitudini, visto che Takashi gli fornisce un cappotto con strascico che può diventare una tenda canadese o un piumone gigante, paradiso dell'homeless, sotto cui si può anche svernare, difendendosi dal freddo e dagli importuni col gigantesco cappuccio a forma di rostro.
Takashi Nishiyama, Fashion collection of the Year ITS Nine

Commenta Elisa Palomino, braccio destro della stilista Diane von Fürstenberg a New York e componente della giuria: «C'è stata una grandissima evoluzione nelle creazioni per l'uomo, che forse hanno "rubato" un po' a quelle femminili il ruolo principale. La scelta è stata difficile perché non mancano i progetti interessanti. Per quanto riguarda gli accessori, quest'anno sono davvero impressionata, anche grazie all'arrivo in forze dei designer del Royal College di Londra. Mi piace che ci sia uno spettro completo di creazioni; bijoux, scarpe, cappelli, borse...».
Silfidi e mostri non scompongono il sindaco Dipiazza, seduto in prima fila e ormai un habitué di  ITS, che negli ultimi mesi si è dato davvero da fare per aiutare Barbara Franchin & Co. a convincere Regione e Fondazione CrT a contribuire al salvataggio del concorso, seppure ridimensionato negli ospiti e negli allestimenti. Tra il divertito e l'attonito il parterre politico, il vice sindaco Lippi, il modaiolo Rovis e il sempre ingiacchettato Greco, il consigliere regionale Bucci e il segretario del Pd Cosolini, che avranno qualche problema, se mai lo volessero, a trovare spunti e idee per rinfrescare l'armadio della campagna elettorale del prossimo anno. Certo molti di più che Renzo Rosso, il re del denim, perfettamente a suo agio tra i sogni e gli incubi di questi studenti, molti dei quali, scoperti a Trieste, lavorano oggi nel quartier generale della Diesel a Molvena, a intercettare gusti e interessi delle nuove generazioni del pianeta. Tra gli ospiti, la stilista Alessandra Facchinetti, già ai vertici di Gucci e poi, per una stagione succeduta a Valentino nella linea donna, ieri per la prima volta a Trieste tra gli "osservatori" a caccia di talenti.
Questa nona edizione di ITS ci lascerà dunque in eredità solo uomini da scenario post-atomico, al di fuori di qualsiasi tentazione, o gli "elephant men" di Takashi? A riscattare le sorti del "genere", prima del gran finale affidato come sempre alla grinta di Victoria Cabello, con i premi e la passerella invasa da tutti i vincitori, arriva l'impeccabile collezione del vincitore dell'anno scorso, Mason Jung, altro sudcoreano, che si è inventato maschi finalmente in camicia, bianca e sartoriale, sotto lunghe giacche e pantaloni smilzi: una raffinata normalità fatta di impercettibili dettagli come il microsparato, uomini finalmente guardabili e abbordabili, in carne ed ossa e senza una tenda come strascico da sposa.

Mason Jung e la sua sartoriale collezione uomo

Quando ancora la voce di Elisa da piazza Unità invade le Rive, l'astronave dei "fantastic voyagers" decolla da Trieste. Riatterrerà il prossimo anno? Al termine della sfilata Barbara Franchin ha chiamato in pista i principali supporter di ITS, Renzo Rosso con il sindaco Dipiazza e i rappresentanti delle istituzioni che hanno finanziato l'evento. Un video presenta il progetto del decennale, "un evento per la città", con mostre di stilisti e fotografi, retrospettive, laboratori sulla moda e il design, coinvolgimento di università e scuole, gallerie e negozi. Un sogno da un milione e mezzo di euro. Nell'anno delle elezioni, delle promesse, dei tanti da accontentare, meglio che gli esploratori, potrebbe essere questo il tema per il 2011, lascino il posto ai guerrieri.

@boria_a

sabato 17 luglio 2010

ITS TEN a Trieste, ripartire da #

ITS
. Un’anima triestina nell’acronimo inglese. International talent support ma anche la sigla della città. Ricordo la prima conversazione con Barbara Franchin, registrata sul Piccolo del 24 gennaio 2002. Mi spiegava l’idea di nome e logo che già immaginavo poco orecchiabile dal territorio. Un cancelletto color argento per rappresentare la spinta al cambiamento, ma anche l’antica esperienza artigianale della trama e dell’ordito e la piazza planetaria della rete, dove si allacciano contatti, si creano sinergie, volano gli scambi. 


In quell'ITS il suono di Trieste e la rivendicazione di un legame non casuale con il luogo fisico, l’intenzione di non essere un corpo estraneo, calato da fuori, ma di mettere radici nella città di mare e all’epoca ancora di confine, permeabile agli incontri, agli scambi commerciali, alla contaminazione di culture.

Sfida non da poco  e non solo per l’estraneità di Trieste da ogni geografia possibile della moda di oggi. La città, per meteorologia e orografia, non se ne cura, non produce nulla che sia attinente al settore. Sfida su una contraddizione, forse, una delle tante: qui, dove sulle strade tutto è impersonalmente casual-sportivo, dove le griffe ritirano i monomarca e le uniche che si vendono sono quelle facili e urlate, sono nati, fisicamente o per adozione, grandi del made in Italy: Mila Schön, Ottavio Missoni, Raffaella Curiel, Renato Balestra

C’era di che recuperare dal passato, per quegli strani incroci non infrequenti a questa latitudine, su cui, sarà per un perverso coccolarsi nel passato, pare quasi impopolare costruire.
ITS non ha fatto eccezione. Il rapporto con Trieste non è mai nato.  Per dieci anni, la città e il suo acronimo,  si sono guardati con indifferenza, a volte con fastidio. Non chiedere, non aver chiesto a lungo alle casse pubbliche, ha reso il concorso inservibile ai protagonismi. L'intervento di sponsor internazionali ha preteso in cambio un alto tasso di selettività, chiudendo le porte alla partecipazione libera. L’indipendenza economica, nella città dove all’amministrazione si bussa sempre, ha generato sospetto, l’esclusività dell’evento l’ha isolato. 

Ricordo la location sbagliata di ITS Two, in una piazza Unità “suggerita” dallo stesso Comune, che suscitò proteste e surreali raccolte  di firme, a pensarci adesso quasi naif nel salotto buono perennemente ostaggio di palchi e gazebo. Dal Portovecchio all’ex Pescheria la cittadella della moda è “calata” ogni anno sulla città, corpo estraneo, proprio quello che non aveva intenzione di essere.

E oggi? I tagli nei budget dei privati, una volta tanto, sono serviti ad accorciare distanze: ITS cerca appoggi e agganci a Trieste, Trieste e le sue amministrazioni intervengono, sebbene non quanto gli organizzatori si aspettano.
C’è molto da recuperare. Partendo da una domanda: cos'è mancato perchè un evento internazionale, l'unico che la città ha creato ed è riuscita a conservare, scivoli via senza lasciare traccia? Forse bisogna ricominciare da trama e ordito, le parole chiave dell'inizio, per comporre un tessuto dove scuole, università, gallerie, commercianti si sentano parte viva della manifestazione, non spettatori. Aprirsi alla città può aprire altre porte e soprattutto casse.
Trieste non può perdere ITS, ITS non può lasciare Trieste. Questa città così poco di moda è uno dei segreti del suo fascino.
 
@boria_a

giovedì 1 luglio 2010

LA MOSTRA

Trieste rende omaggio a Roberta di Camerino, la "sua" signora Giuliana

La prima retrospettiva sulla "signora Giuliana" e la sua moda sarà a Trieste. Ad appena cinque mesi dalla morte di Roberta di Camerino, al secolo Giuliana Coen, stilista veneziana amatissima in tutto il mondo per le sue borse e i suoi abiti trompe l'oeil, il Museo Revoltella ospita una mostra dedicata ai rapporti tra lo stile di Roberta e l'arte, organizzata dall'assessorato alla Cultura del Comune in collaborazione con il Sixty group, oggi proprietario del marchio e custode del suo archivio storico.


"Roberta di Camerino, la rivoluzione del colore", verrà inaugurata oggi alle 18, alla presenza dell'attuale direttore creativo Wicky Hassan, e resterà aperta fino al 12 dicembre, al quinto piano del museo, negli spazi dedicati alla galleria del Novecento.

Roberta di Camerino a Venezia

Venti abiti, oltre trenta tra ombrelli e foulard, molte immagini, ma soprattutto una sessantina di borse dal 1949 al 1974, tra cui la celeberrima "Bagonghi", ispirata da un nano di circo e passata alle cronache mondane come la "borsa della principessa" Grace Kelly:
è questo il percorso che racconta il segno inconfondibile della "dogaressa", i suoi gusti, le sue intuizioni e rievoca quella stagione della moda in cui il "total look", il vestirsi da capo a piedi affidandosi a una griffe, era segno di distinzione e cultura, non di soldi recenti e spesi in fretta.

Grace Kelly con la "bagonghi"
Un omaggio, quello del Revoltella, che ha un doppio primato: è il primo dalla morte della stilista, avvenuta il 12 maggio scorso all'età di 90 anni ed è il primo in un museo pubblico italiano. Ma la mostra vuole anche sottolineare un particolare e poco conosciuto legame tra Roberta e Trieste.


All'inizio degli anni '70, infatti, nel magazzino Sessanta del Portonuovo, nello stabilimento della "Mearo" (anagramma di "amore", che darà il nome anche alla boutique "R" di piazza della Borsa,) venivano confezionati gli abiti "di Camerino" destinati alla produzione industriale e all'esportazione in tutto il mondo, che si avvantaggiava delle particolari agevolazioni doganali del punto franco.

E proprio qui, grazie alla maestria di un modellista triestino, Amedeo Martinolli, la "signora Giuliana", come voleva essere chiamata dai suoi dipendenti, riuscì a far realizzare l'abito "senza pinces", lo chemisier perfetto che assecondava le forme femminili, seno e fianchi, solo grazie alla tecnica del cartamodello.

Una rivoluzione, come lo era stata quella del trompe l'oeil, il vestito "illustrato", su cui la stilista collocava fantasiosamente tutti i capi che una donna poteva desiderare, con relativi dettagli e accessori, dal bolerino alla cintura, dalla cravatta al taschino. Perfino l'orologio con la catenella, come sulla giacca "L'orologiaio", prodotta a Trieste e dedicata da Giuliana a un amico artigiano che aveva bottega vicino all'atelier di Venezia.


Così, lei stessa, nel 1973, spiegava l'idea del trompe l'oeil: «I tempi erano cambiati, non c'erano più le pazienti fantesche ad abbottonare file di gancetti sul dietro. Il mio vestito sarebbe bastato infilarlo, come una lunga maglia. E ci avrei disegnato sopra tutto quanto, persino l'asola slacciata sulla manica, come usano gli uomini più raffinati».


Far diventare gli abiti tele d'arte e confezionare borsette originali per tinte, assemblaggi e forme, contenitori pieni di personalità, a cominciare dal nome diciascun modello (Bagonghi, certo, ma anche Oklahoma, Marmittone, Aspide, Hyde Park, Brigitte, la preferita da Camilla Cederna per quel borsellino dorato applicato 

all'esterno , che diventa il tema di un "Lato debole", la sua famosa rubrica dicostume) sono intuizioni scritte nel destino e nel gusto di Giuliana Coen, facoltosa signora veneziana costretta ventenne a scappare in Svizzera, insieme al marito e al figlio Ugo neonato, durante le persecuzioni contro gli ebrei.

 La borsa "cicisbeo", a forma di tabacchiera
 

È a Lugano che compra pelle, spago e aghi ricurvi e confeziona per sé il primo secchiello, che piace ed è subito richiesto nella cerchia delle conoscenti. Nel 1945, tornata a Venezia, apre un piccolo laboratorio e sceglie di lanciare le sue creazioni come "Roberta di Camerino", griffe nata dal cognome del marito e dalla canzone preferita "Smoke gets in your eyes" dall'operetta "Roberta", allacciati dal vezzo aristocratico del "di". Quando la giornalista Elsa Robiola su "Bellezza" le dedica due pagine, il successo è conquistato. A striscioline di pelle intrecciate e lavorate a telaio, più tardi nei velluti soprarizzo che Bevilacqua, manifattura esclusiva dei pontefici, tesse alla sola luce di una lampada e al ritmo di quaranta centimetri al giorno, le borse firmate "R" non sono più accessori, anonimi e standardizzati, ma pezzi unici, che calamitano l'attenzione per la loro raffinatezza e originalità.



Giuliana è sconfortata perchè gliele imitano, ma l'amica Coco Chanel, già "taroccatissima", la rincuora: «Ma è meraviglioso! È la prova che vali. Lasciali fare. Comincia a piangere soltanto il giorno in cui non ti copiano più...».

La Bagonghi gira gli Stati Uniti al braccio di una giornalista-arpia come Elsa Maxwell (e che scena quando, alla Mostra del cinema di Venezia, nel 1952, la potente cronista mondana si accorge che l'attrice Eleonora Rossi Drago sfoggia pure lei il "nanetto" e che c'è anche un'altra, anonima signora che ha fatto la stessa scelta...) lo stile della "signora Giuliana" conquista prima il mercato americano, poi quello giapponese. Dallo stabilimento triestino della "Mearo" escono ogni giorno dai quaranta ai sessanta capi: il "Kayuki", il "Ducale", il "College" fanno da battistrada tra i modelli di punta. E, prima che l'avventura imprenditoriale finisca, nel 1975, l'azienda triestina fornirà tutti i capi "R" realizzati industrialmente, quelli di maggior successo in almeno venti varianti di colore.


Nel 1956, per ricevere il Neiman Marcus Award, l'Oscar della moda, Roberta vola a New York e conosce Cecil Beaton, anche lui vincitore per i costumi di "My fair lady", e diventa amica della sua testimonial più famosa, Grace Kelly, che porta la Bagonghi rosa e vinaccia sulla copertina dell'Europeo, nel 1959. Un rapporto, quello con la principessa di Monaco, che la stilista non sfrutta mai dal punto divista mediatico, come quello con Farah Fawcett, "charlie's angel" e fidanzata d'America, che a Venezia viene a rifarsi il guardaroba ed è sua ospite.


La sensibilità per i colori e le loro combinazioni è la cifra dello stile firmato "R", «una vera forma d'arte» secondo Salvador Dalì, che apprezza molto la "signora", al pari di Cecil Beaton e De Chirico, ed è probabilmente quello che la spinge a tentare l'avventura degli abiti. Nel 1980 il Whitney Museum di New York le rende omaggio con la mostra, curata da Vittorio Sgarbi, dei disegni delle sue creazioni tirati in litografie, mentre dieci anni dopo, la galleria Mancini di Pesaro, dedica al cinquantenario della griffe una retrospettiva che è, al tempo stesso, un "manifesto" delle invenzioni di Roberta nelle borse: le forme, che prendono spunto dai bauletti ottocenteschi e dalle valigette di fabbri e dottori, poi le cerniere, diventate brevetti, (una - la vediamo in mostra - ricorda quella delle tabacchiere dei cicisbei), le maniglie e le chiusure ispirate alle decorazioni degli antichi cassettoni e agli ornamenti per le gondole. Preziosismi, ma sempre funzionali, mai inutili.


Il Museo Revoltella s'inserisce dunque nella cerchia ristrettissima di enti che hanno cercato di approfondire la ricerca artistica della "signora Giuliana". E chissà che proprio da Trieste parta una riscoperta "critica" del suo lavoro, in particolare per quanto riguarda le influenze e le citazioni della pittura surrealista, l'esplosione dei colori, gli assemblaggi arditi che richiamano la pop-art. Una riscoperta che, per quanto riguarda il vintage, è in atto da tempo su internet, dove le "stagionate" Caravel, Bagonghi, Micowber fanno ancora le primedonne.


@boria_a

Le altre sono tutte foto della mostra al Museo Revoltella di Trieste del luglio 2010, prima retrospettiva dopo la morte della stilista, il 10 maggio 2010 (foto di Francesco Bruni)