lunedì 29 dicembre 2014


MODA & MODI

La camicia di Stella


Gillian Anderson è il detective Stella Gibson nella serie tv "The Fall"

Rosa polvere, argento, tortora. Classicamente bianca, maschile, o più morbida, col collo a scialle. Di seta, lascia intuire il pizzo del reggiseno, spesso disegna il contorno del capezzolo. Le camicie di Gillian Anderson in The Fall (Sky Atlantic Hd, prima stagione appena conclusa) sono un tratto distintivo della serie, non meno dell'ambientazione a Belfast (l'ha prodotta la BBC Two). Una detective in pencil skirt nera e décolleté col tacco sottile, avvolta in una palette di colori delicati, che si muove dentro una città livida e bagnata, sulle orme di un serial killer dalla doppia vita.
Pochi pezzi di guardaroba per disegnare un personaggio lontano un decennio dalla Dana Scully di X-Files, eppure stranamente in sintonia, come se questa più matura detective Stella Gibson fosse l'evoluzione naturale della lontana collega, agente Fbi e medico patologo, scettica e vulnerabile. Dana e Stella si richiamano, senza che l'una si sovrapponga all'altra e ci faccia dire: “dopo tutto questo tempo, è rimasta lei”.
Camicie, dunque. Camicie tinta unita come quelle che indossa Claire Underwood (Robin Wright) in un'altra serie tv di successo, “House of Cards”. Armi per entrambe, anche se diverse.
Per Claire, l'aspirante, poi diventata first lady d'America, sono corazze dietro cui nascondere e nascondersi, sono rigide e inviolabili, tengono a distanza, segnano una distanza, un'intoccabilità. Stella non ha paura di quel bottone slacciato durante la conferenza stampa, nè di prendere e lasciare, uomini e occasioni.
Questo dicono le sue camicie, o i piccoli pull di mohair dal collo a V, i cappotti morbidi, neri e moka: non ho timidezze a espormi, se lo decido io, non mi imbarazza appendere i miei abiti di ricambio, concederli alla curiosità di tutti dentro il cellophane, nelle spartane e gelide toilette femminili del dipartimento di polizia. Sono come le vittime degli omicidi su cui indago: bella, libera, in carriera, con un passato e un presente, impermeabile a sguardi e illazioni, almeno fino a quando non scelgo di curarmene.
Non c'è seduzione esibita. Bye bye Carrie e le allegre ragazzone di Sex&TheCity, dall'armadio griffato, colorato, esplicito, inequivocabile.
Per Stella Gibson come per Claire Underwood, qui si tratta di potere. Che si esercita con i modi, la discrezione l'imperscrutabilità. E i vestiti.
www.bbc.co.uk
@boria_a

Gillian Anderson in "The Fall", serie tv della BBC Two ambientata a Belfast



lunedì 22 dicembre 2014

MODA & MODI

Impariamo a fare Natale


Uno dei kit da regalare a Natale. La modella è Mariaondina


Fare Natale con cose da fare. Se il mantra del regalo “utile” a tutti i costi mette rassegnazione piuttosto che allegria, proviamo a cambiare prospettiva. Perchè non shakerare insieme concetti un po' abusati ai tempi della crisi, come recupero, riutilizzo, manualità, personalizzazione, do it yourself, e, perchè no, anche divertimento e rilassatezza? Il risultato è un kit da regalare, che, alla fine, è un po' un regalo che chi riceve fa a se stessa, dedicandosi ritagli – di stoffa ma soprattutto di tempo - per riscoprire il piacere di confezionare, di veder nascere un oggetto, di farselo su misura. Con pochi elementi, poca spesa, recuperando qualcosa di prezioso che spesso sperperiamo: un'occasione per prendersi una pausa, con intelligenza.
Paola Fontana e Roberta Debernardi di Studiocinque e altro (in viale D'Annunzio a Trieste,  www.studiocinqueealtro.com ) la chiamano “esperienza del fare”. Una collana, una borsa, un gioco per i bambini, ma anche un voucer speciale per una domenica mattina da passare insieme, nel loro negozio-laboratorio, dove – con la guida di un'esperta - si confezionano carta da regalo-design con stampi di legno, decori “verdi” con rami, bacche e fiorescenze di stagione, contenitori all'uncinetto, o si impara il furoshiki, l'arte di piegare e annodare un pezzo di tessuto per trasformarlo in una borsa o in un contenitore per qualsiasi oggetto, bottiglie comprese.

La carta da regalo realizzata con i timbri di materiali da recupero

Partiamo dal kit, che è unico a cominciare dal “packaging”. La busta, ritagliata a mano, ha un inconfondibile sapore vintage: è un vecchio cartamodello di Burda. Dentro ci sono le istruzioni e i disegni, passo passo, per “costruirsi” una borsa o una collana con perle ovali. In abbinamento, per un totale di dieci euro, si possono scegliere il tessuto, la carta da parati e il filo per completare l'accessorio. Nel kit bambini, dal prezzo di poco superiore, è compreso il pannolenci per realizzare piccole maschere di Carnevale, dal pulcino al super-eroe, e c'è la variante con una barba e tre diversi tipi di baffi.
Le domeniche, già in calendario per gennaio, includono il “tutoraggio” di un'esperta – Laura di Fiorificio per le decorazioni verdi, Giusy DB di Bubiknits per l'uncinetto e Chiara Nordio di CND Textile Project per il timbrificio - i materiali e il brunch. Laboratori “leggeri”, che piacciono molto alle giovanissime, dove il filo conduttore è la voglia di stare insieme (si prenotano anche online sul sito). Paola e Roberta assicurano che anche chi non ha mai toccato un uncinetto in vita sua, alla fine della mattinata lascia il negozio con il suo perfetto porta-oggetti o porta-piante. E lo stesso vale per il centro tavola “naturale” assemblato con rami e frasche. O per la carta da regalo “disegnata” con timbri ricavati da guarnizioni di moke, gommini e materiali di recupero, non piazzati a caso ma secondo lo schema suggerito dall'insegnante, in modo da realizzare una texture perfetta, architettonica.
Sono piccoli pensieri non copiati, non comprati in serie, non ispirati da nessuno, che uniscono chi fa e chi li riceve. Regali da fare, per fare. 
twitter@boria_a

Quando il crochet  non è kitsch

domenica 21 dicembre 2014

MODA & MODI


Christmas mood sloveno

Stilisti sloveni “ospiti” a Trieste, nel negozio-laboratorio di moda e fotografia Combiné di piazzetta Barbacan, dove, fino alla vigilia di Natale, propongono un “assaggio” delle passerelle della Lubiana Fashion Week. Filo conduttore tra gli “headpieces” di Ana Lazovski (analazovski@gmail.com), gli accessori di Tanja Zorn (www.tanjazorn.si) e la moda di Sofia Nogard (www.sofianogard.si, brand disegnato da Boštjan Mljac e Mija Curk), è l’occasione della festa, da indossare o da regalare. Molto nero, un po’ di polvere d’oro e di pietre colorate, pezzi facili ma con personalità.
I cerchietti per capelli di Ana con decorazioni di seta, pizzo di cotone, pelle, una spruzzata di svarowski o di paillettes, danno un po’ di vita anche al più tradizionale e monacale abito nero. Sono fiori, piccoli papillon, forme geometriche, che scorrono lungo il supporto (leggerissimo, a prova di mal di testa, assicura la designer) per essere fissati dove meglio valorizzano l’acconciatura, con discrezione.


Headpiece di Ana Lazovski


Anche Tanja si presenta con una selezione di accessori, soprattutto sciarpe di diverse lunghezze, (alcune da infilare come collane, che servono da scaldacollo-design), borse e pochette “pelose” e una micro-cappa da sera dall’effetto scenografico, che scende sulle spalle nude in un tourbillon di dischi di garza.

Microcappa di Tanja Zorn

La griffe Sofia Nogard, già in vetrina da Combiné la scorsa primavera, prosegue nell’ispirazione “territoriale”: spunti, colori e suggestioni vengono dal paesaggio carsico intorno a Corgnale, dove i due stilisti hanno il laboratorio. Questa volta propongono t-shirt con civette e volpi stampate a mano, ton sur ton, e la schiena lavorata in 3d, shopper di ecopelle in tinta unita o decorate con il motivo del sommaco e una curiosa linea di ciabatte da casa, per lui e per lei, in pelle e spugna.
A far da cornice agli ospiti, le creazioni delle padrone di casa, Lodovica Fusco, che firma gli accessori COLLANEvrosi, e la fotografa Nika Furlani, con il suo ultimo progetto di immagini, Terrarum. Per collane, bracciali e anelli della nuova linea, Ikebana, Lodovica utilizza sughero naturale, espanso in pvc opaco e tessuto in fibra grezza di pelle. Un mix di elementi, dove il design industriale, grazie al materiale “leggero”, diventa arioso, si ingentilisce.


Collezioni Ikebana, collanevrosi di Lodovica Fusco
Le foto di Terrarum sono in sintonia con questo spirito “naturale”. Nika ha raccolto lungo il Tagliamento sassi, sabbia, rami secchi, conchiglie e, attraverso un proiettore analogico, ha “spalmato” i materiali sul corpo dei soggetti ritratti. Sopra, la fotografia, in cui il corpo umano diventa tela. Sotto, un piccolo contenitore con il “frammento” di natura proiettato sull’epidermide: «Così - spiega la fotografa - l’anima del luogo entra in contatto con l’uomo». (www.combine-trieste.com)


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Nika Furlani, un'immagine del progetto Terrarum

sabato 13 dicembre 2014

MODA & MODI

Scarpe killer

Scarpe assassine su suole “siamesi”. La linea si chiama “Conjoined illusion” (www.notjustalabel.com) ed è firmata dalla giovane designer Carolin Holzhuber, tra i finalisti dell'edizione 2014 nella sezione Accessories al concorso per fashion designer ITS, a Trieste. Nell'anno che celebra le calzature più temerarie, aggressive, feticistiche, pericolose, quelle che ispirano soggezione mista a desiderio, in una carrellata attraverso i secoli, dalle “ciopine” veneziane agli stiletto d'acciaio di Louboutin, le sue sono al top, degne di essere messe in mostra, insieme ad altre, già notissime, di queste armi improprie, dal fascino perverso.

Conjoined illusion di Carolin Holzhuber

Il Brooklyn Museum (fino al 15 febbraio) la definisce una sorta di “arte di uccidere”. La mostra si intitola infatti “Killer heels” (the art of the high-heeled shoe”) e propone, fino al 15 febbraio, anche le straviste scarpe stringate bluette, dal tacco e plateau impressionanti, che fecero precipitare Naomi Campbell in passerella nel 1993, consegnandola agli annali della storia delle calzature da concupire ed evitare.
Naomi Campbell precipita sulla passerella di Vivienne Westwood

Oggi, guardando l'evoluzione di design e tecnologia proposta da Carolin, ci sembrano quasi scarpette per bambini ed anziani, chiuse col velcro.
Le rivedremo, comunque, nel giugno 2015, al Victoria & Albert di Londra, che ha messo in cartellone, senza troppa fantasia, “Shoes: pleasure and pain”, scarpe croce e delizia, presentando, un po' sulla stessa falsariga dei colleghi newyorkesi, 200 modelli, che comprendono le platform assassine di Vivienne Westwood, Alexander McQueen e le sue scarpe “armadillo” (pericolose e, diciamolo, altrettanto sgraziate, fanno un piede goffo e simil-ingessato), le ballerine rosse disegnate per Moira Shearer nell'omonimo film del 1948, e poi le calzature delle dive, dalla Monroe a Sarah Jessica Parker, che ha consegnato all'immaginario televisivo di molte le “Manolo” e le Jimmy Choo.
Ma torniamo a Carolin Holzhuber e alle sue “illusioni siamesi”, architetture gemelle da piede. Cambia la lettera dell'alfabeto per identificare una sorta di scala Richter della suola - I (carbonio), H (cuoio color limone, peeptoe, piattaforma geometrica), F (si allungano alla caviglia con dettagli metallici, peeptoe e piattaforma), A (double face, blu o bianca, dipende dall'umore), C (anche qui carbonio, una sorta di calzari futuribili in azzurro polvere), con un prezzo che è killer almeno quanto il design: da 2.800 a 3.400 sterline più o meno. Al confronto, quelle di un'altra giovane designer, Chau Har Lee (www.chauharlee.co.uk), che a Trieste vinse ITS Accessories nel 2009 e nello stesso anno l'award di Manolo Blahnik, e che ora sono esposte nella rassegna del Brooklyn Museum, anch'esse costruzioni ardite, architettoniche e iper-techno di metalli, legni, plastica, pelle, sembrano quasi facili da infilare, da sostituire alle scarpe da ginnastica prima di entrare in ufficio.

La scarpa di  Chau Har Lee


Siamo ormai al confine con l'oggetto da arredo puro, su cui investire come su una scultura. L'Eamz disegnata dieci anni fa da Rem Koolhaas (pur comodissima e indossabilissima) ha segnato la strada: scarpe fungibili con pezzi di design. In una delle più recenti e godibili serie tv, The Fall, una delle giovani donne, single e in carriera, che sono sulla lista nera dell'insospettabile killer, tiene le sue scarpe in camera da letto, custodite in un vetrina in stile, come una collezione di cristalli, di ovetti di Limoges.
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Le "ciopine"veneziane in mostra al Brooklyn Museum

mercoledì 10 dicembre 2014

IL LIBRO

Vivere a Trieste, esterni e interni segreti di una città



studiocinque e altro di Ines Paola Fontana e Roberta Debernardi


Trieste vista dai suoi interni. La città del prefisso “multi” per eccellenza svela i suoi eleganti, un po’ narcisistici individualismi, il suo “particulare”, gli angoli più intimi. Guidati da una giornalista e stimolati dall’obbiettivo di una fotografa, entriamo nelle stanze di case private, ville, appartamenti, sottotetti, e lasciamo scorrere gli occhi con curiosità su pezzi di design, su preziosi oggetti di famiglia, su colpi cromatici o, all’opposto, su ambienti “greige”, mix di grigio e beige, su bizzarre collezioni, timbri, carnet da ballo, porta-bouquet...
Micaela Zucconi Fonseca, per dieci anni alla vice direzione di Marie Claire Maison e Francesca Moscheni, fotografa, hanno scatenato il gioco di società più divertente, che sicuramente gli autoctoni compulseranno, il who is who di Trieste, o meglio, il whose is whose.
Di chi è la mansarda dove la ceramica di una vecchia stufa incornicia un caminetto e la padrona di casa dorme nel letto che fu di sua nonna guardando un disegno di Bueno? 




Chi è la famiglia italoamericana che abita nella casa rurale ottocentesca in pietra del Carso, sul colle di Scorcola, filo conduttore il colore rosso e firme di designer come Patricia Urquiola e Tomita Kazuhiko che convivono con i vetri di Venini, il paravento balinese e una porta acquistata in Rajasthan, in un “crossover” stilistico sorvegliato dal gusto della padrona di casa? Chi si muove nei solenni ambienti stile Impero, dove ogni modernità è bandita e il tempo si concentra in due secoli, Seicento e Settecento, e la selezione di oggetti d’antiquariato, curata personalmente dai proprietari “battendo” mostre e gallerie («le aste no, non emozionano...»), è aperta idealmente dal dipinto di un noto francese del ’700, François Bouquet, che la padrona di casa acquistò a rate, per fiuto, senza conoscerne l’autore?
Chi è il Lorenzo collezionista compulsivo di accendini Zippo, di lampade, di giocattoli di legno? Chi è riuscito a trasformare una delle tantissime pietre con corda della, smontata, installazione di Kounellis in Pescheria, in un oggetto d’arredo, collocandola sopra un mobile cinese rosso denso?



Questi “interni” d’autore sono una delle sezioni, la più curiosa, del patinato  “Vivere a Trieste” (Idea Libri, pagg. 239, euro 49,00, edizione bilingue italiano e inglese) firmato da Micaela Zucconi Fonseca, triestina nel cuore trasferita a Milano, e Francesca Moscheni, milanese di padre triestino, da venticinque anni fotografa per importanti testate internazionali.

Un omaggio-strenna a una città fascinosa ma per tanti versi indecifrabile, al suo grande passato dietro le spalle e al suo futuro ancora da scrivere, alla sua architettura urbana d’autore e al design discreto e autorevole degli spazi privati, ai suoi artisti e intellettuali, ai creativi spesso più noti nel mondo che a casa, ai “miti” ormai entrati nell’immaginario collettivo nazionale: il bagno di “genere” Pedocin, il Leone alato delle Generali, Miramar, il Caffè San Marco dove Magris distilla parole, il “monumento” polveroso della libreria di Saba, maliziosamente (per vezzo o filo di perfidia?) accostato a quella dell’indaffarato e rampante libraio editore Volpato, la Drogheria 28.
Un biglietto da visita ricco di splendide foto (una sola, il golfo picchiettato dalle vele della Barcolana, è firmata da Marino Sterle) destinato a veicolare l’immagine di una città che ha tanto da offrire al turista e da riscoprire - o addirittura scoprire - per l’autoctono annoiato e distratto: cultura, arte, edifici e libri, ma anche attrattive da golosi e gourmand, atelier, botteghe d’artigianato d’autore, un archivio della moda che, grazie al concorso ITS trasforma una soffitta di piazza Venezia in una miniera inesplorata di giovani talenti internazionali.
Ma torniamo alle case perchè, forse a dispetto delle stesse intenzioni delle autrici, non potranno non catalizzare l’attenzione dei lettori. Nella spunta del “chi c’è chi non c’è” tra le più prestigiose e sfiziose, per due delle dimore selezionate gli indizi celati negli “scatti” mettono il curioso sulla buona strada. La ragguardevole “E” sull’asciugamano nel bagno impreziosito da una cascatella di piatti di fini porcellane azzurre, come una spruzzata di gocce sospesa sulla vasca, non potrebbe stare per Etta, la signora di villa Carignani? La collezione di borse di bachelite americane degli anni Quaranta, trait d’union tra zona giorno e zona notte nell’appartamento di un palazzo nobiliare, dove convivono antico e moderno, sia mai quella di un’altra signora che ama ricevere e raccogliere preziosità, Tina Campailla?
Nessun dubbio invece per villa Tripcovich, immaginificamente teatrale come la volle il barone de Banfield e la mano del pittore e decoratore Emilio Carcano, già “firma” delle dimore di Nureyev a Parigi e delle scenografie di Giulietta e Romeo per Zeffirelli, magione oggi di Luca Farina, patròn della “Orion”, che, forse anche per l’«intoccabilità» del regno di Falello, la riserva a residenza estiva, come un signore ottocentesco. E dubbio non c’è, naturalmente, dove sono gli stessi padroni di casa a fare gli onori: lo scrittore e regista Giorgio Pressburger nella casa-studio, zona “extraterritoriale”, in stile Secessione viennese, diversa da quella dove abita, lo scrittore Veit Heinichen nel buen retiro di Santa Croce, a picco su un mare mozzafiato, il pittore Serse Roma nell’ex serra ristrutturata dove dipinge e il collega Paolo Cervi Kervischer nell’abitazione-studio nella casa disegnata da Max Fabiani, disseminata da indizi che tradiscono la passione per l’Oriente.


il mare di Grignano dall' hotel Riviera
foto di Francesca Moscheni



Ancora, David Dalla Venezia, che ha scelto Trieste per lavorare alla sua pittura figurativa nutrita di fumetti e cinema, e Alice Psacharopulo, che svela all’osservatore solo uno scorcio della sua stupenda casa di via Commerciale. E c’è anche Fabio de Visentini, ex manager pubblico ma qui in veste di padrone di casa “aromatiere”, intento a setacciare, dalla sua lontana formazione farmaceutica, una cioccolata senza latte nè grassi, godimento per salutisti.
Il viaggio in questa Trieste-boutique si chiude con un pugno di ferro, il design industriale della Wärtsilä. E l’auspicio, in chi sfoglia, che cultura, turismo e pure industria permettano a nuove generazioni di lavorare, crescere e far crescere la città. Poi, magari, anche collezionare, qualcos’altro che sogni.

@boria_a

martedì 9 dicembre 2014

IL PERSONAGGIO

Roberto Citran: Il nostro amore fatto solo di @

Roberto Citran in "Le ho mai raccontato del Vento del Nord"
Una “e” di troppo digitata sulla tastiera del computer e la mail con cui Emmi vuol disdire una rivista finisce all’indirizzo mail di Leo. Lei è “felicemente sposata” e mamma dei due figli che il marito ha avuto da un precedente matrimonio, lui è uno psicolinguista appena uscito da una relazione tormentata. Uno scambio di battute “virtuali” sull’errore di indirizzo e tra i due inizia un rapporto epistolare nell’era di Internet, che a poco a poco si fa gioco, complicità, confidenza, sentimento e forse qualcosa di più dirompente. Senza che Leo ed Emmi si incontrino mai.
Il libro dell’austriaco Daniel Glattauer, uscito nel 2006 (da noi per Feltrinelli) è tutto qui. Una storia d’amore, forse solo una storia tra due persone al tempo della rete, quando dietro un “invia” o un “cancella”, schiacciando un tasto, scegliamo di condividere con perfetti sconosciuti bisogni e solitudini, o di escluderli per sempre dalla nostra vita, rimanendo nell’anonimato di un monitor.
"Le ho mai raccontato del vento del Nord" è diventato un best seller, tradotto in 37 paesi, e una piéce teatrale di grande successo. Perchè la domanda che pone è semplice, ma inquieta: l’amore in rete è vero, può esistere, o è finto come tanti amici virtuali?

Ne parliamo con il protagonista, Roberto Citran, in scena accanto a Chiara Caselli, Emmi.

Come vi siete avvicinati a questa storia che nasce e cresce solo via mail?
«Tutto inizia come un gioco, come accade nei rapporti normali tra un uomo e una donna. Spesso il motivo scatenante è l’ironia, il riconoscere in un’altra persona il nostro stesso modo di ridere, di scherzare. Anche tra Leo ed Emmi il contatto avviene attraverso un equivoco e da lì inizia lo scambio ironico su questo incontro particolare. Poi cominciano a conoscersi, a capire che tra loro ci sono affinità, convergenze di opinioni, di pensieri, di punti di vista. L’aspetto interessante, su cui abbiamo concordato con il regista Valerio, è che il testo esige una recitazione scandita, ma senza enfasi. In una mail è raro rispondere di getto, quindi la scommessa è stata rendere “parlato” un dialogo epistolare, che induce una riflessione in chi scrive. Le parole prendono peso, sono “scandite” perchè il pubblico deve immaginarsele come una mail. E comunque ci saranno anche dialoghi scritti su uno schermo, per richiamare sempre il senso della corrispondenza».
Secondo lei è possibile innamorarsi attraverso le e-mail?
«Io ho bisogno di una persona di fronte. Però è vero che a volte quando parli con qualcuno al telefono senti un calore, un timbro nella voce, e ti immagini com’è l’interlocutore. Può accadere lo stesso con una mail: riconosci uno stile, un modo di pensare che ti avvicina all’altro. “Ah guarda - dici - è come me...”. E l’intesa magari scatta. Poi però credo ci debba essere una curiosità di incontro “fisico” oltre che “virtuale”, altrimenti è malata...».
Il suo personaggio, Leo, come lo vede fisicamente e caratterialmente?
«L’autore del libro è austriaco e io mi immagino proprio un’ambientazione a Vienna, con i suoi parchi, i suoi caffè, dove gente elegante legge, mangia cioccolata, lavora al computer. Vienna è davvero una capitale europea, le nostre città sono meno aperte al mondo esterno. Leo è il personaggio di un film di Wim Wenders, un cinquantenne colto, ben vestito, elegante, non per dandismo fine a se stesso, ma per il desiderio di affascinare attraverso il modo di porsi. Non è un piacione, ha il gusto del bello e ama il confronto con le persone, cercando di conquistarle con il suo tratto interiore, non con ipocrisia e falsità».


Ed Emmi?
Chiara Caselli in una scena della piéce

«Emmi ha “adottato” un’altra famiglia, ha sposato un uomo che ha due figli, e vive una sorta di doppia vita, quella in casa e quella della donna che vorrebbe essere. Leo è più autonomo, Emmi ha una sua fragilità e sente il bisogno di esprimere qualcosa di sè che passa attraverso di lui».
Il web, in questa storia d’amore, difende o mette a rischio?
«Emmi e Leo non si fanno influenzare dal mondo esterno, si scrivono di notte, vivono in modo intimo la loro relazione, il web è quasi un rifugio dove non vengono intaccati. Si sono creati un universo rassicurante che potrebbe essere messo in discussione dall’incontro. Per questo viene sempre rimandato, perchè c’è il rischio di rompere il meccanismo, di infrangere l’incantesimo. Forse Glattauer vuol dirci questo: l’amore perfetto, senza difetti, non esiste».
Però ci dice anche che l’anonimato ci aiuta a svelarci.
«È una contraddizione: sei coperto dietro un monitor e ti scopri con persone che non conosci, ti metti senza veli».
Poi finisce che nelle storie virtuali si riproducono le stesse dinamiche di quelle reali: le schermaglie, le gelosie, il ricatto psicologico...
«Sì, ma alleggerite, perchè cerchi di sdrammatizzare e di non dare troppo peso alle cose dette o non dette. Si riproducono perchè i due entrano in uno stato confidenziale e quindi si creano aspettative. Leo ed Emmi sono gelosi come un uomo e una donna che si conoscono. È curioso, ma hanno vere e proprie crisi».
Quando però nel rapporto epistolare si inserisce il marito di Emmi, scopriamo un Leo diverso, duro, che non ci aspettavamo. Lei cosa ne pensa?
«Il marito in pratica gli dice: passi una notte con mia moglie così la finiamo. Fino a quel momento Leo ha vissuto se stesso e tutta la storia in mail come un qualcosa di pulito, mentre quest’affermazione la considera una caduta di stile, non solo una mortificazione ma proprio un’uscita volgare che lo allontana anche da lei. Forse capisce che in Emmi c’è qualcosa che poi non gli è così affine e che nella realtà niente sarebbe possibile. La curiosità è rimasta, infatti c’è il desiderio di un’”ultima volta”, dell’incontro, ma è da lì che comincia l’allontanamento. Sarà poi vero che Leo deve partire per Boston? Io credo di no, ma l’importante è che ha deciso di troncare».
Lei pensa di potersi innamorare in mail?
«Lo evito accuratamente».
La rete ci ha resi più soli?
«Personalmente ho un rapporto difficile con i social, un giorno sì e un giorno no voglio togliermi da Facebook, che è una specie di bar dove ogni sparata diventa reale, dove dietro al computer si possono menare mazzate a tutti. Lo trovo animalesco. Appena poi mi ritrovo in un gruppo, cerco di uscirne il prima possibile. È bello pensare che molta gente possa seguire il tuo lavoro, ma i vincoli sono troppi. Ormai non si chiacchiera più. Sento una grande tristezza quando nei luoghi di attesa vedi tutti attaccati al telefonino, su twitter, su facebook, alle mail, con un bisogno nevrotico di essere in contatto col mondo, nell’illusione di riempire un vuoto che non si riempie mai».
Glattauer ha scritto un seguito alla storia. Lei lo avrebbe fatto?
«Nel mio mestiere la regola è lasciare sempre la voglia di vedere qualcos’altro. Quando fai il comico, lo spettatore deve desiderare altri tre, quattro minuti. Ma tu devi frenare prima. È la “sospensione” che ti fa affezionare ai personaggi e se viene meno si perde il gioco».
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MODA & MODI

Brindisi con marsala al 2015


Dall'orchidea al marsalaLasciamo i fiori, usciamo da un voluttuoso e voluttuario giardino incantato, e troviamo rifugio in un bicchiere di vino da distillare a fine pasto. Parliamo di colori: bye bye “radiant orchid”, mix di fucsia, viola e rosa, sognante e alchemico, vibrante ed energetico, la tinta che ha firmato e caratterizzato il 2014. Nel 2015 la nuance sarà quella del vino siciliano: pastoso, denso, ambrato. Ma chi è Pantone, l'autorità mondiale che ogni anno decreta quale sarà la nuance di riferimento? Dietro questo nome, quasi da fumetto, opera “scientificamente” l'azienda americana che, dopo aver analizzato e comparato le preferenze espresse da passerelle, design, arte, lancia il colore dell'anno. Nel 2014 i creativi di vari campi si erano orientati verso quel rosa carico e impositivo. Un anno dopo sentono il bisogno di una sfumatura meno urlata, più dimessa e “stabile”.
Un'autorità della tinta? Un diktat mondiale sulla palette? Sono indicazioni che lasciano un po' interdetti nella loro perentorietà, che strappano anche un sorriso, se non fosse che dietro la scelta si nascondono numeri, indici, osservazioni. E che il mercato, trasversalmente, e rapidamente, vi si adegua, facendoci sentire senza grande sforzo parte di una planetaria democrazia cromatica. Dalle boutique delle griffe al grande magazzino delle catene low cost, già troviamo capi e accessori percorsi da una venatura di rosso, estesa dal bordeaux alle sfumature della terra vicine al marrone. Viene in mente la celebre scena de “Il diavolo veste Prada” quando Miranda fa notare alla povera assistente Andy, che quel suo golfino celestino infeltrito, probabilmente trovato nel cesto delle occasioni, è solo l'ultimo anello di una catena che arriva all'olimpo, al ceruleo inventato da Oscar de La Renta e ripreso da Yves Saint Laurent e poi da molti altri stilisti, tutt'altro quindi che una scelta controcorrente e contestataria nei confronti degli imperativi della moda. Dunque: anche i guanti o il berrettone rosso sapido che recupereremo a breve nei negozi cheap fanno parte della filiera che passa per Pantone e per le preferenze di tanti “creativi”, muovendo ancora, fortunatamente, soldi e posti di lavoro. Secondo Pantone, il “radiant orchid” avrebbe dovuto stimolare creatività e innovazione. Un anno dopo, Leatrice Eiseman, direttore della società, parla del “marsala” come del colore che ci regalerà “sicurezza e stabilità”. In effetti è versatile, si abbina facilmente, non “buca”, galvanizza nero, grigio, creme, trasmette l'idea di un'eleganza quieta e soppesata. E' il colore della maturità, che non ha niente a che fare con gli anni.
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lunedì 8 dicembre 2014


MODA & MODI: Chloè e Claire




Chloé & Claire

C e C, Claire e Chloé. L'una astuta manipolatrice, l'altra vulnerabile folletto technicolor. Le serie televisive di punta curano nei dettagli l'armadio delle protagoniste, studiano per loro uno stile lontanissimo dalle photogallery delle riviste, giudiziosamente banali, assemblate per piacere a tutte, il cui solo scopo è trascinare i clic per inerzia e trattenerci il più possibile sui rispettivi siti.
Più che giornali e web, il guardaroba di alcuni telefilm finisce così per diventare "inspirational". Di Clare, la Robin Wright di "House of Cards", sappiamo tanto: Lady Macbeth in tre colori soltanto, nero, bianco e mou, sheath dress o gonne pencil con camicia maschile, décolleté, nessun gioiello, mai mezzo centimetro di ginocchio esposto. Tutta da scoprire è Chloè, protagonista di un'altra serie cult, la francese Profiling, da noi in onda con la terza stagione su Fox (www.foxcrime.it). Il suo guardaroba non contempla il nero, niente baschi, scarpe basse, giacche da uomo e calze spesse, nessun vago retrogusto "esistenzialista", nessun twin set mohair che rende inconfondibile l'algida allure francese.
Chloé è una criminologa, una profiler, quanto di professionalmente più lontano dalla figurina colorata come zucchero filato e un filino svagata, che zampetta in scarpette simil-tango e calze a rete tra colleghe muscolari in chiodo e parka.

L'attrice, Odile Vuillemin, magra senza essere segaligna e scolpita, ha scelto personalmente gli abiti vintage che indossa nella serie, pezzi minuti dai colori del marzapane, abbinati senza alcuna apparente logica cromatica, fino a comporre una palette da libro di favole. Il suo stile è diventato tutt'uno col personaggio: la borsa gialla che le ondeggia sul braccio, i soprabiti tagliati in vita e con le spalle strette, gli scamiciati color zucca o rosa caramella e con grandi bottoni anni ’60, le gonnelline a corolla su collant a contrasto, viola, ocra, avio, gli accessori cosparsi di fiocchi, stelle, cuori, le spille di cellulosa, la catenina con i ciondoli d’oro della nonna. Il power dress di Claire è in qualche modo prevedibile, ci aspettiamo che sia vestita per tramare e uccidere. Il bello di Chloé è che si aggira sulla scena del crimine come un bon bon da scartare ma è altrettanto difficile non prenderla sul serio. Da imitare.
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Odile Vuillemin




IL PERSONAGGIO
Drusilla Foer al castello di Susans

Drusilla Foer in una delle sue performance

Dopo aver recitato per Ozpetek in "Magnifica presenza", dopo aver fatto l'opinionista nel salotto di Serena Dandini in "The show must go off", Drusilla Foer, nobildonna fiorentina, attrice hollywoodiana e "socialite" anni '70,  sarà a Susans protagonista della performance "Clausuris. Elogio dell'immobilità": un maestoso tableaux-vivant che anticipa la mostra "Corpi abitati", dove la signora, dai modi aristocratici e la lingua saettante, è immortalata da uno dei fotografi ospiti di "Maravee", Mustafa Sabbagh. Drusilla, al secolo, è l'artista toscano Gianluca Gori, più che mai in sintonia con il tema della rassegna di quest'anno, gli sdoppiamenti e le trasformazioni identitarie. Sentiamolo/a.
Il castello di Susans è abbastanza confortevole per lei?
«È un luogo molto bello, la performance che farò non è affatto confortevole»
Che outfit sceglierà per l'inaugurazione?
«Un abito di crepe nero con uno strascico di due metri. Ma non ingombrerò… sarò immobile, seduta e finalmente zitta».
Imita Marina Abramovic?
«I contenuti sono diversi, direi… il mio lavoro è sul tema della visibilità con cui ho un rapporto conflittuale… Ammiro la Abramovic ma ho visto una sua foto recente in cui è gonfia di botox. Vorrei capire perchè una donna intensa come lei si sia ridotta così…».
Che cosa ne pensa dello stile del premier Renzi?
«Lo stile non è fatto solo da ciò che si indossa ma anche dai gesti, dalla voce, da ciò che si dice e soprattutto da quello che si pensa. Renzi si veste in modo noioso ma tranquillizzante, anche se a me Matteino non tranquillizza affatto».
Qual è la politica più chic?
«Amo molto Anna Finocchiaro ed Emma Bonino, detesto la Santanchè. Mi diverte Rosi Bindi, sembra Tata Lucia…».
Nei suoi progetti prossimi cosa c'è: ancora cinema o tv?
Escluderei la televisione, tempi troppo fagocitanti ed io comincio ad avere una certa età. Mi piacerebbe fare ancora cinema, ma chi lo sa…sicuramente se Tarantino mi chiamasse per interpretare, che so, una badessa assassina, o una maîtresse vampira… beh accetterei subito».
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IL PERSONAGGIO
Nicolai Lilin, tatuaggi per iniziati






  Il corpo che cambia, che si trasforma. Che diventa fondale su cui incidere e dipingere, involucro da vestire e da fotografare, mezzo per esprimere identità diverse. Da domani, alle 19, al Castello di Susans di Majano, la tredicesima edizione di "Maravee", rassegna di arte e linguaggi contemporanei ideata e diretta da Sabrina Zannier, si concentra sul "Corpus" e ne propone le tante identità e mutazioni attraverso immagini, dipinti, video, costumi, performance, tatuaggi.
Tra i protagonisti di quest'anno c'è Nicolai Lilin, autore del romanzo "Educazione siberiana" da cui Gabriele Salvatores ha tratto l'omonimo film, personaggio discusso e controverso, che a Susans si presenta nella sua più recente e inedita versione, quella di fashion designer. Al piano terra del castello, nell'allestimento curato da Belinda De Vito, saranno esposti i disegni di Lilin accanto alle t-shirt e al poncho del brand Happiness, su cui sono stampati. Il messaggio della mostra è diretto: dall'epidermide, il "segno" del tatuaggio contamina altre superfici legate alla corporeità, come i tessuti, attraverso i quali il corpo si estende, si copre, si trasforma. .
Parliamo di questa "incursione" friulana con Nicolai Lilin.
Dai tatoo alle magliette: com'è avvenuto il passaggio?
«Diversi brand di moda in passato mi hanno contattato, interessati ai miei disegni e alla tradizione del tatuaggio siberiano. Recentemente il tema del tatuaggio pare che sia diventato una moda. A me fa sorridere perché là dove altri vedono teschi, coltelli, pistole e simboli considerati forti, io vedo tutto un mondo di storie, di persone, di vissuti. La collaborazione con Happiness è nata dall'incontro con Yuri Scarpellini, fondatore del brand, affascinato dal mondo che rappresento attraverso i miei disegni mi ha lasciato completamente libero di interpretare la mia linea di abbigliamento cercando di tenere sempre saldo il rapporto con il significato profondo dei simboli».
Nei disegni ci sono differenze rispetto al "materiale" su cui li esegue?
«Ogni disegno racconta una storia. Se si tratta di un disegno destinato ad essere tatuato sulla pelle, mi lascio guidare dal racconto personale di chi lo porterà poi per la vita. In altri casi i disegni, come molte delle opere che sono in mostra al Castello di Susans, nascono dalla vita personale dei miei avi, ogni disegno è come un piccolo romanzo. Per me è un modo per ricordare e celebrare le vite di persone che ho amato e che ora non ci sono più, che hanno combattuto tutta la vita per i loro ideali. Infine i disegni destinati alle magliette, proprio perché sono indossati da tante persone diverse, si rifanno a degli ideali universali: l'amore, il viaggio, la ribellione, la libertà, la fugacità del tempo».
Crocifissi, madonne che impugnano armi, angeli e scheletri. Qual è il significato del suo messaggio?
«Nella mia tradizione non viene mai svelato il significato dei simboli».
Diventa "di moda" una pratica che in "Educazione siberiana", lei carica di significati rituali, di appartenenza a una comunità, quasi iniziatici. Che cosa l'ha convinta?
«Non sono io che l'ho fatta diventare una moda, quello che ho potuto osservare è che il tatuaggio, che si è diffuso fino a diventare una moda per imitazione, adesso sta vivendo un cambiamento. Sempre più persone stanno diventando più sensibili nei confronti di questo tema, e invece di voler copiare i tatuaggi dei personaggi più alla moda per essere come loro, cercano un simbolo di appartenenza, vogliono riconoscersi nella propria pelle».
Non si preoccupa di essere definito anche "commerciale"?
«No. Perché è un termine offensivo?»
Collabora anche con un'azienda che produce coltelli di Maniago? E che cosa fa?
«Ho disegnato un coltello da caccia ispirandomi a quello che aveva mio nonno. Mi piacerebbe disegnare anche dei coltelli tattici in futuro. Sono un grande appassionato di coltelli, tra gli uomini della mia famiglia era considerato un accessorio indispensabile nella vita di tutti i giorni e nella mia vita mi è capitato di poterne osservare e utilizzare tanti, sono oggetti affascinanti, ogni forma, ogni curva, ogni impugnatura è studiata e pensata per essere ottimale nelle diverse situazioni in cui verrà utilizzato».
Le piace più incidere la pelle o la carta?
«La mia arte non si concentra nell'incisione di materiale, l'incisione della pelle o la preparazione di un disegno sulla carta, tela o altri supporti è soltanto la conclusione logica di un processo etico e tradizionale, molto profondo e difficile, legato alla creazione, alla composizione dell'opera. Conoscere le persone, ascoltare le loro storie, anche più intime, trasformare queste storie in simboli, elaborarli artisticamente - questa è la parte in assoluto più importante della mia attività. Il resto sono solo processi tecnici per me di minore rilevanza».
Come tatuatore, accetta qualsiasi richiesta del cliente?«Nella mia arte non esistono termini come "cliente" o "richiesta". Tra me e le persone che decidono aprirsi con me per trasformare le proprie esperienze in simboli si crea il rapporto paragonabile a quello di un confessionale. Nessuno decide cosa tatuare, io interpreto semplicemente le storie delle persone, trasformando le loro parole in simboli seguendo una tradizione che ha delle regole molto precise».
Il suo spazio a Maravee si intitola "Scritto sulla pelle". Che cosa vorrebbe scrivere sulla pelle di chi verrà a conoscerla?
«Per avere sulla propria pelle almeno una mia opera non basta semplicemente passare alla mia mostra e conoscermi. Bisogna comprendere il senso della tradizione del tatuaggio siberiano ed essere pronti a confessarsi onestamente. E avere molta pazienza. Un tatuaggio siberiano va meritato, non è per tutti, si tratta di una tradizione iniziatica che si apre a pochi».
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sabato 6 dicembre 2014

MODA & MODI

Glamour sì, ma contenitivo





La sola definizione evoca subito l'immagine di gambe gonfie e nodose e di negozi sanitari per donne e uomini nella quarta età o future mamme alle prese con gli aspetti più spiacevoli della gravidanza. Fino a qualche stagione fa - stagione della moda, ovvero un lasso di tempo straordinariamente breve - calze e calzettoni a compressione graduata o "contenitivi", parevano avere un unico target: clienti con problemi circolatori, a rischio trombosi. Color brodo o scuri, spessi e opachi, di cotone o nylon, si associavano all'idea di qualcosa di malato da tenere sotto controllo o di potenzialmente letale da prevenire. Insomma, un accessorio al quale per definizione sembrava negata ogni oncia di seduttività.
E invece. Sono state, tra le prime, le professioniste della moda a "scoprirli" e "sdoganarli", costrette a frequenti viaggi da un continente all'altro e a quei gonfiori dovuti alla prolungata sedentarietà che impedivano di infilarsi in gonna e stiletto appena atterrate a destinazione.
Una ricerca in rete ha presto rivelato che, mentre le fashion week si succedevano frenetiche, anche calze e calzettoni elastici non restavano immobili e immutabili. Ecco la tedesca Item m6 (www.item-m6.com), che combina tecnologia e materiali utilizzati nell'abbigliamento sportivo, come fibre di poliammide ed elastane, con una vasta selezione di modelli, colori, misure. Lo slogan è confortevolezza e moda, salute e design, un mix che si sviluppa in un'intera collezione di calzettini e calzettoni, leggings e autoreggenti, fino a una sorta di super collant che arriva a sfiorare il reggiseno, appiattendo la pancia e modellando i glutei. Il tutto presentato on-line con un taglio più sexy che sanitario. Anche l’americana Vim & Vigr, (vimvigr.com) specializzata in calze mediche, impiega oggi designer che hanno lavorato da Ralph Lauren o Tommy Hilfinger, lanciando nella home page il binomio perfetto: therapeutic and stylish.
I calzetti Item m6 sono saliti di recente in passerella a Londra, nella collezione proposta da Mark Fast, il designer inglese che ha cominciato la carriera a Trieste. Ma anche brand più noti al grande pubblico hanno presentato calzettoni al ginocchio in pizzo, pelle o stampati, da portare con sandali e maxi-zeppe. Per l’aereo e i viaggi lunghi da sedute, sono un’alternativa piacevole e dilettevole. Nel contesto urbano, oltre che i polpacci dobbiamo ancora abituarci l’occhio.
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IL PERSONAGGIO

Luisa Casati, infinita varietà della marchesa

(ritratta da Augustus Edwin John nel 1919 e in una foto di Mariano Fortuny; come Elisabetta d'Austria fotografata da Man Ray nel 1935)





Bella non era, almeno non nel senso classico del termine, filiforme, il naso marcato e un pallore poco sano, gli occhi sgranati che sembravano risucchiare nel loro interno smeraldino tutto il viso. Era, invece, straordinariamente ricca, figlia dei conti Amman, magnati dell'industria della filatura del cotone (e, tra l'altro, fondatori e padroni del cotonificio veneziano di Pordenone), che la lasciarono orfana, insieme alla sorella maggiore Francesca, quando non era ancora ventenne. Da allora brucerà tutte le tappe di un'esistenza votata a un unico scopo, al quale immolerà un patrimonio sterminato e sacrificherà ogni sentimento: fare di se stessa "un'opera d'arte vivente".
"Lei" era "la Casati", al secolo Luisa Amman, nata a Milano nel 1881 e andata sposa giovanissima, nel giugno del '900, al marchese Camillo Stampa di Soncino. Durante una battuta di caccia conobbe Gabriele D'Annunzio, con cui visse per dieci anni una pubblica e scandalosa liaison. Il Vate la iniziò ai travestimenti, con lui condivise la passione per l'occultismo, le pratiche magiche, i serpenti. Dal marchese Camillo divorziò nel '24, dopo un decennio di separazione, prima cattolica italiana a rompere il vincolo.
Magnetica e sulfurea, superba negli eccessi, grandiosa nelle stravaganze, insaziabile divoratrice di artisti, Luisa fu musa, modella, collezionista, a volte amante, tiranna. Intrigò i contemporanei da viva e da morta, tant'è che John Galliano, all'epoca da Dior, le dedicò nel '98 un'intera collezione, riproducendo il ballo che la marchesa diede al Palais Rose di Parigi il 30 giugno 1927, l'ultima sua grande messinscena teatrale, in cui impersonava Cagliostro, con abito maschile oro e argento e maschera d'oro. Anche Karl Lagerfeld, nel 2000, disegnò un abito di lamè per la collezione "cruise" di Chanel che è un inequivocabile omaggio.
Luisa Casati, Palazzo Fortuny di Venezia, uno dei luoghi più amati dalla "Divina Marchesa", dedica una grande mostra, la prima tutta su di lei, ideata da Daniela Ferretti e curata da Fabio Benzi e Gioia Mori, visitabile dal 4 ottobre all'8 marzo 2015. "Arte e vita di Luisa Casati tra Simbolismo e Futurismo" raccoglie oltre un centinaio di opere tra dipinti, disegni, gioielli, sculture, fotografie, abiti, firmati da grandi artisti in suo onore o da lei commissionati, che provengono da musei internazionali e collezioni private. Ci sono i ritratti di Giovanni Boldini, di Augustus Edwin John, due opere a grandezza naturale di Alberto Martini, le "Linee di forza di paesaggio maiolicato" di Giacomo Balla, le collane-rettile di Cartier. Pezzi di raccolte private sono la testa di ceramica policroma di Renato Bertelli, il nudo di Romaine Brooks e la scultura con levriero di Paolo Troubetzkoy. In mostra anche le molte sue foto firmate da Adolphe Gayne de Meyer, Man Ray e Mariano Fortuny e quelle "rubate" da Cecil Beaton, quando, ormai ridotta in misera e con sessanta miliardi di lire di debiti sulle spalle, viveva a Londra, tenuta alla larga dall'unica figlia, Cristina, andata in sposa al visconte Hastings. Una terza sezione della mostra è dedicata ai futuristi, di cui fu grande promotrice e collezionista, cominciando da Filippo Tommaso Marinetti, uno dei suoi amanti.
Ma chi era Luisa Casati, da alcuni considerata la donna più stravagante del XX secolo, la quintessenza della femme fatale, da altri un'icona della cultura camp? «Non una folle, ma una donna in anticipo sui tempi, che sapeva manipolare e stravolgere il corpo. Una body-artist, una performer, molto prima di Marina Abramovic», racconta Gioia Mori. Eccentrica, dunque, ma non solo. «Come emerge dalle nostre ricerche - prosegue la curatrice - Luisa Casati non faceva "feste", ma veri e propri spettacoli, di cui era produttrice, regista, attrice. In due di essi calcò le scene, con i costumi di Bakst».
I suoi mascheramenti "artistici", infatti, iniziati nel 1904 con una toilette "alla Pompadour" per una festa della principessa Stephanie del Belgio, divennero presto arte totale. Stregata, come d'Annunzio, dai Ballets Russes a Parigi, la marchesa interpretò nell'estate 1912, a St. Morizt, una scena de "L'Oiseau de Feu" con musiche di Stravinskij durante un pranzo seguito da danze, quindi la "danse persanne" di Musorgskij.
Con Bakst, scenografo e costumista, Luisa era in sintonia, entrambi trattavano il corpo da elemento "scenico": lui tingeva i danzatori, lei i suoi animali e i servitori neri, che rivestiva di un pigmento tossico d'oro. Ma fu se stessa il suo più avanzato esperimento. Attraverso l'uso di droghe, dilatava gli occhi fino a trasformarli in fanali, sbiancava il viso con polvere pesante come calce, disegnava sulla bocca una ferita sanguinante, tingeva i capelli di quel rosso fuoco che la superstizione attribuiva ai malvagi.
La vita di Luisa Casati trascorse tutta in dimore sontuose, a Roma, a Parigi, sul Canal Grande, a Capri. Su questi fondali si muoveva, perennemente e pesantemente bistrata, vestendo le creazioni esclusive di Poiret, Madame Vionnet, Fortuny (i superbi "Delphos" in mostra), attorniata da un caravanserraglio di muscolosi domestici. Aveva il vezzo di portare serpenti vivi al collo, intontiti dalle droghe, che si srotolavano nei momenti meno canonici, o di fare shopping in Rue Royale con un piccolo coccodrillo al guinzaglio e un paio di scimmiette sulle spalle. Nei suoi parchi allevava un esotico e decadente zoo, fatto di ghepardi, leopardi, levrieri, merli albini tinti per capriccio di blu, pappagalli, uccellini meccanici, e alla sua corte prosperavano chiromanti, fattucchiere, cultori dell'occultismo.
Nelle sue feste una fortuna incalcolabile bruciò in champagne, arredi, vestiti. Per una di esse affittò per una notte l'intera piazza San Marco, dove, nelle serate «normali», amava passeggiare nuda, coperta da un mantello di pelliccia, mentre il servitore d'ordinanza reggeva una torcia in modo che i passanti l'ammirassero. «L'unica donna che sia mai riuscita a stupirmi» disse di lei D'Annunzio. La ribattezzò Kore, nome greco di Persefone, lei lo corresse in Corè, addolcendolo e regalandogli una nuance francese, a significare la natura del loro rapporto: per la prima volta davanti alla marchesa, l'immaginifico si sentiva sfidato, inadeguato. Il Vate soffriva per la sua lontananza, la possedette per sempre solo nella scrittura, facendone la protagonista nascosta di "Forse che sì, forse che no".
Luisa era l'essenza stessa di un'epoca: spregiudicata, individualista, colta, ossessionata dall'occulto, enigmatica e ambigua come nella foto in cui Man Ray, per errore, la ritrasse con quattro occhi sovrapposti. Nel 1930 arrivò al tracollo finanziario, proprietà e gioielli venduti, gli animali dispersi, costretta a farsi ciglia finte artigianali con i crini di cavallo.

Morì nel 1957, di emorragia cerebrale, dopo una seduta spiritica. Vive in eterno nel ritratto di Boldini, giovane e inquieta, in un turbine di penne di pavone.
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