martedì 12 dicembre 2006

MODA & MODI


Bottoni d'autore


Anelli con i bottoni (www.studiocinqueealtro.com)


L'anno scorso erano i bottoni. Il provvidenziale fondo di magazzino di una vecchia merceria - bottoni grandi, piccoli, di madreperla ma anche di insulsissima plastica, fibbie e centinaia di paillettes - si sono trasformate in collane, collier, anelli, decorazioni per borsette... Quest'anno è invece il tessuto a caratterizzare il Natale di «e altro», il marchio creato da Paola Fontana e Roberta Debernardi, due artigiane-artiste triestine che firmano piccole collezioni di bijoux e di accessori, per la persona e per la casa.

Da quando fanno base a Studiocinque, storico negozio di tendaggi di viale D'Annunzio a Trieste, Paola e Roberta hanno cominciato a frugare tra i vecchi campionari di una ditta tedesca, recuperando - e manipolando - minuscole pezze risalenti agli anni Ottanta e ormai uscite dalla produzione. A guardarli così, accatastati uno sull'altro, questi scampoli di tappezzeria dai colori zuccherosi o dalle fantasie minute, tragicamente fuori moda, sembrano un pugno nell'occhio, inutilizzabili e soprattutto inaccostabili.


Ma è bastato trovare un filo conduttore alla collezione, perché i campionari prendessero la forma di bracciali, collane, pendenti, spille, realizzati da Paola, e di borse e cinture cucite da Roberta. Tutti pezzi unici, perché le dimensioni dei ritagli - a parte l'idiosincrasia a ripetersi delle dirette interessate - non consentono di confezionare nemmeno due micro-borsette uguali.
Ma com'è possibile che un pezzo «legnoso» di velluto diventi una collana così delicata che sembra fatta di corolle intrecciate? O che da un quadratino di tappezzeria escano una borsa-design o una cintura obi, dove gli accostamenti di fantasie, sulla carta improbabili, trovano un loro miracoloso equilibrio di gusto?


Per i gioielli tessili il segreto è nella lavorazione: le strisce di velluto, passate a zig-zag, assumono una consistenza diversa a seconda del doppiaggio. Per le borse chiedere a Roberta che, mischiando le pezze come carte, riesce a creare assemblaggi impensabili. E, restando tra i bijoux, si possono trovare ancora pezzi ispirati alla felice eredità della merceria: una collana decò che intervalla bottoni neri a dischi bianchi di feltro, un'altra, di bottoni dalle diverse sfumature di marron, quasi ispirata all'arte africana, oltre agli «anelloni», che ton sur ton si portano (se abbastanza spiritose...) anche di sera col vestito elegante. Una chicca (sempre per chi ha la giusta dose di humour) sono le spille di celluloide: quadratini in apparenza innocui, che si illuminano a tradimento al suono dei cellulari...

Ma gli spazi di Studiocinque hanno ispirato a Paola e Roberta anche un'altra collezione, tutta dedicata alla casa e nata dal recupero delle serigrafie «storiche» del negozio. Per la tavola delle feste ci sono tovagliette, runner, portabottiglie, portatovaglioli (a forma di fiore, o anche di carta, dal gusto molto «giapponese), e poi ancora cuscini e pannelli con grandi tasche dove nascondere oggetti e giornali, tutto in colori pastosi: melanzana, senape, rosso spento, torba, glicine.


A volte i pezzi non sono «facilissimi», ma chi se ne innamora non li molla e viene a cercarli anno dopo anno, piccoli oggetti di un discorso di stile coerente eppure sempre un po' imprevedibile. I prezzi? Salgono a partire dai venti euro (www.studiocinqueealtro.com)
twitter@boria_a

martedì 28 novembre 2006

MODA & MODI

Di rigore il nero
 
Delphine Seyrig in "L'anno scorso a Marienbad" di Alain Resnais

Per gli appassionati di moda, le «prime» teatrali sono una miniera: ci si possono scoprire deliziosi pezzi vintage che neppure le legittime proprietarie sapevano di conservare in casa (e quest'anno, in pieno ritorno dei terribili Ottanta, anche i reperti da museo sono diventati super-fashion), si può avvistare qualche anticipo di tendenza o qualche - magari involontaria - «celebrazione» di capi storici. Martedì scorso, all'apertura della stagione lirica del Teatro Verdi di Trieste, scelta azzeccata di due signore, l'una amministratrice pubblica in carica, l'altra ex amministratrice, che, con intuito felicemente bipartisan, nel tripudio caleidoscopico che compensava i fiori sacrificati all'austerity finanziaria del teatro, hanno deciso di indossare il sobrio, rigoroso, insuperabile abito nero. Che festeggia appunto ottant'anni, senza aver perso nemmeno unbriciolo del suo magico glamour.
Correva infatti l'anno 1926 quando Coco Chanel inventò «la petite robe noire», liberando il nero dall'idea delle gramaglie e inventando il «pauvre chic». La regina della moda era capricciosa, ma anche pratica: abito nero perchè non mostrava le macchie e si poteva indossare in qualsiasi occasione. E nero perchè doveva star bene a tutte: non a caso Vogue lo soprannominò il «Ford-dress», l'abito Ford, un successo immediato e accessibile, proprio come le automobili di Henry Ford lanciate negli stessi anni.
L'abito nero ha attraversato la storia della moda è ha vestito le icone di stile dello scorso Millennio, prima fra tutte Jacqueline, che ne indossava uno minimale e perfetto in quel famoso viaggio in Francia quando John Kennedy, presidente degli Stati Uniti, disse a voce alta quello che tutti i francesi pensavano: «Sono l'uomo che accompagna Jackie».
Chi non ha un ricordo cinematografico legato a un abito nero? Audrey Hepburn in «Sabrina» e «Colazione da Tiffany», Delphine Seyrig in «L'anno scorso a Marienbad», la Monica Vitti de «La notte». O, per la generazione dei serial televisivi, le quattro amiche modaiole di Sex&TheCity che, pur saccheggiando, in sei stagioni di successi tv, quanto di più variopinto e stravagante abbiano creato gli stilisti di oggi, per la copertina della raccolta dei dvd hanno scelto il «little black dress», corto e sensuale come loro.
L'abito nero è potente: non servono accessori, basta una borsa gioiello, un sandalo dorato o, se proprio non se ne può fare a meno, le perle finte che metteva Chanel. E, oltre a essere bipartisan, è democratico: difficile che faccia sembrare qualcuna ridicola. Prima della «prima», fa bene ricordarlo.
twitter@boria_a



Monica Vitti ne "La notte" di Michelangelo Antonioni

martedì 14 novembre 2006

MODA & MODI

La zampata animalier

 Christian Dior, 1947

Il riscatto della «leopardata». Si muove nella sua giungla metropolitana ricoperta da stampe animalier sempre più sfrontate. Il maculato non accetta mezze misure, o si ama o si odia. Eppure, anche chi lo considera da sempre un po' trash, più adatto ai divanetti delle discoteche di quart'ordine o alle veline con le labbra a parabordo, quest'anno non può che lasciarsi intrigare dalla sua insistenza. Sugli orli di guanti e delle sciarpe, quasi sfuggente, sui cappellini in cavallino a stampa giaguaro, come accessorio che fa il protagonista, su scarpe col tacco vertiginoso ma anche su mocassini, ballerine e galosce, infine su cappottini altrimenti bon-ton, camicie di seta da sera chiccosissima, e un'intera, inesauribile collezione di borse e pochette, l'animalier diventa ironico, giocoso, divertente o seducente, senza mai perdere quella sua vena un po' dozzinale e volgaruccia. Da lui si sono fatti tentare non solo stilisti decisamente a loro agio con le stampe da novella Jane (il solito Cavalli che ama la decorazione-provocazione, Dolce & Gabbana e il ludico Moschino), ma pure sacerdoti della sobrietà, improvvisamente folgorati da questo grido ferino in un inverno di ripensamenti e di austerity.
Il leopardato è in bilico tra orrido e provocatorio, tra indulgenza e debordanza. E' questo il suo fascino, il rischio costante di strafare, di  andare oltre il consentito, di passare la misura, quello sfacelo estetico sempre in agguato che lo rende fantasia da centellinare, poco e per poche.
C'era un tempo in cui zebrato e tigrato erano glamour. Icone riconosciute di stile come Coco Chanel e Jackie Kennedy sceglievano cappottini e cappelli animalier, sfidando l'impatto del total look, e in un cappotto a macchie si è avvolta anche la torbida Anne Bancroft del «Laureato». Nel 1947, nella collezione «new look» che cambia la storia della moda, Christian Dior manda in passerella abiti ferini e pure Valentino, negli anni Settanta, lancia le pellicce di zibellino foderate in maculato.
L'animalier piace anche al mondo della musica, al rock anni '70 di Rod Stewart e Keith Richards, poi ai punk più arrabbiati e al popolo della disco-music, ma il suo incontro con le culture giovanili invece di trasformarlo nell'arma estrema dell'eccesso, lo relega a tappezzeria di serie b, sprofondandolo nel trash. Ci vorranno Alaia, poi Prada e Dolce & Gabbana, negli anni '80, perché l'animalier torni a collimare con un'eleganza meno ingessata, ma le sue fortune non si risolleveranno più tanto.
Sarà questo l'inverno del riscatto bestiale? Molti segnali dicono di sì. Persino le catene dell'intimo a buon mercato, attentissime ai gusti delle ragazzine, propongono reggiseni e slip da ballerina di lap-dance.

Contaminazione e riabilitazione? Chissà. Uno spruzzo africano qua e là spiazza e scombina, ma il pericolo di evocare una savana selvaggia rimane alto.
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martedì 31 ottobre 2006

 MODA & MODI

Effetto cardigan

Il presidente Jimmy Carter parla alla nazione della crisi energetica, 1977

Fino a qualche anno fa la sola parola era legata a una catena di aggettivi scoraggianti: informe, goffo, polveroso, datato. Nessun uomo si sarebbe mai sognato di metterselo, se non davanti alla televisione, con le ciabatte e purchè prossimo alla terza età. Per i ragazzi era semplicemente un non-capo, inesistente. Il cardigan? Quel golfone con i bottoni grandi? In pratica l'equivalente del pigiama di flanella femminile: domestico, confortevole, innocuo in tutti i sensi. Quando, nel freddo inverno 1977, il presidente Carter parlò alla nazione seduto vicino al caminetto e con un bel cardigan beige, per dire agli americani di abbassare il termostato e di attrezzarsi a fronteggiare la crisi energetica, il suo mezzobusto inoffensivo decretò uno dei più grandi flop della moda dell'ultimo mezzo secolo. Le sue parole erano quelle che nessuno voleva sentire e il suo cardigan ci rimase mestamente appiccicato, l'indumento dell'austerity, il capo giusto per rovinare la festa. C'è voluto oltre un decennio perché il golf maschile ritrovasse un guizzo di modernità: negli anni '90 affilò la silhouette, sostituì la cerniera ai bottoni, recuperò una certa aria, attraente, di «nouvelle vague». Quest'anno ritorna alla grande, proprio come le preoccupazioni per le riserve energetiche e la riscoperta della politica di Carter. Gli uomini lo adottano recuperando il fascino che aveva negli anni '50, quando era il capo d'abbigliamento preferito dei giocatori di golf.
Cary Grant
Nell'autunno dei terribili «secchioni» televisivi, il suo appeal sta anche in quell'aria da «bibliotecario» occhialuto, nell'immagine confidenziale, da antieroe alla Buster Keaton e alla Harold Lloyd, i cervelloni impacciati del grande cinema che alla fine spuntavano davvero la «pupa» più dolce, e in una certa confidenziale aristocraticità, alla Cary Grant. Tutte le griffe hanno proposto cardigan in passerella: spessi e dalla lavorazione evidente, da indossare nel weekend; di cachemere, impalpabili, preziosi come pizzi, adatti al mondo felpato dei manager; con lavorazioni a contrasto, ricami, paillettes, tasche applicate, per un effetto sportivo, kitsch, militaresco, raffinato...
Piace l'idea che la vecchia giacca di maglia, a differenza dello scontato girocollo, lasci intravedere e valorizzi la camicia, non soffochi la cravatta, si porti sia con i jeans che con i pantaloni sartoriali, regali quel piglio da dandy, che suscita voglia di tenerezza e non fastidio. Ha qualcosa di femminile senza essere effemminato. E manda in soffitta le legnose grisaglie, i tristi completini blu Ibm, quei grigetti opachi, da topo di città, che punteggiano i tavoli delle riunioni, deprimendo, insieme a tutti gli altri sensi, pure quello estetico. Il nome deriva dal suo primo estimatore, James Thomas Brudenell, conte di Cardigan, il generale inglese che guidò la disastrosa carica dei Seicento contro i russi, nella battaglia di Balaclava nel 1854. Era frivolo, il conte, dicono le cronache. Difetto che, se esibito con moderazione, può diventare una qualità. Proprio come nel cardigan.
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Woody Allen, "Ciao, Pussycat", 1966 (ph. Esquire)



martedì 17 ottobre 2006

MODA & MODI

Galosce di tendenza

Stivali di gomma griffati Burberry

E chi ha detto che sono brutti, anonimi, tristi, ingoffanti? L'anno scorso già spopolavano a New York. Un po' come alieni, spuntavano qua e là nelle vetrine più «fascioniste» di Soho, tra giacche dai cappucci di visone, pantaloni pitonati e tailleur gessati con gli inserti di pelle. Irriverenti, ironici, irrinunciabili, anche per chi considera un tradimento scendere dagli stiletto o calarsi comunque a meno di otto centimetri di tacco. Quest'anno è il loro anno, l'anno degli stivali di gomma.
Sì, proprio quelli delle mattinate piovose dell'infanzia scolastica, per lo più gialli e rossi e venduti a «pacchetto» con la mantellina di Gatto Silvestro, quelli che legioni di ragazzine accantonavano immediatamente non appena superato il decimo anno di età. Con il consueto ritardo con cui da noi arrivano le tendenze d'oltreoceano, eccoli invadere le vetrine dell'autunno-inverno 2006, collocati accanto ai «must have» di stagione. Gli stivali di gomma, i comodi, banali prevedibili antipioggia, da cui sembrava di non poter pretendere nulla di più se non una confortevole praticità, vanno di gran moda. E si sono montati la testa: hanno messo un po' ditacco, sagomato leggermente la silhuette, e sfoggiano la griffe bene in evidenza. Non immaginatevi, dunque, quei noiosi «wellington» color oliva con cui l'inimitabile Camilla sguazzava nel fango della campagna inglese quando era ancora signorina. Gli stivali di gomma di stagione sono rosa, zucca, melanzana, hanno fantasie multicolori o optical, osano perfino il maculato.
Le griffe, dopo un primo momento di perplessità, non se li sono lasciati sfuggire. Attrici e cantanti che saltellavano tra le pozzanghere della Grande mela (e pure tra i cumuli di neve dell'implacabile inverno 2005) calzando gli stivaloni di gomma con i calzerotti di lana rimboccati al ginocchio, erano un segnale incoraggiante dell'inversione del gusto. Mettete un paio di «Ugg (ricordate? quelle stivali informi simili alle pedule dei Puffi, per fortuna in declino) ai piedi di Britney Spears e a distanza di qualche mese li troverete, taroccati, in qualsiasi magazzino. E così ecco sfornate intere linee di «galoscioni» griffati per risvegliare la fashion-aholic che dorme in ognuna di noi. Perversione massima sono quelli di Burberry, per autentiche monomaniache. Ma quelli più «spartani» sono anche più in sintonia con lo spirito ludico.
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martedì 3 ottobre 2006

MODA & MODI

Il colore viola

Gucci, collezione autunno/inverno 2006-2007

Sarà l'inverno del colore viola, non c'è superstizione che tenga. Chiamatelo lilla, malva, pervinca, glicine trovategli tutti i quasi sinonimi disponibili nella palette, sforzatevi di minimizzarlo tra i più rassicuranti e consueti nero e grigio, ma lui rispunterà fuori più invasivo e pervasivo che mai. E'  il suo anno, non si scappa. Ha contagiato tutti i capi, dall'intimo agli accessori, spopola nelle vetrine dove mai gli era stato concesso di accamparsi a pieno diritto, da protagonista, come la tinta più modaiola della stagione. Non si combina, si impone: è viola la sciarpa che rinnova il cappotto, il cappello dalla foggia maschile, il top di pizzo che spunta dalla giacca di velluto nera, il reggiseno da intravedere sotto la camicia, la giacca damascata che si porta la sera ma anche durante il giorno, «addomesticata» dalla gonna di panno, dal tartan a contrasto, dal denim.
Fusione del blu e del rosso, ovvero del sacro e del profano, nelle nuance più accese il viola esprime spiritualità, in quelle più tenui sensualità. E' il colore del mistero, dell'ignoto, disegna personalità forti, che non hanno paura di mettersi al centro dell'attenzione, di catturare gli sguardi, di bucare l'anonimato del guardaroba.
Gli ortodossi del dress code sostengono che mai si porta prima delle sei del pomeriggio, ma i capi proposti dagli stilisti - dalle griffe inavvicinabili alle marche più popolari - ci mostrano l'esatto contrario: è viola la gonnellina a pieghe adatta alle calze grosse e al tacco squadrato di quest'inverno, il vestito di lana che fascia la figura, c'è del viola nel poncho e nella mantella, nei guanti, nel gilet, nei pull, in tutta una gamma di calze dalle stampe geometriche. Scarpe e borse ton sur ton, senza paura di esagerare. E ombretto in tinta, sfumato con il bianco argentato. Anche per lui camicie con righe lilla e maglioncini glicine scollati a vù.
Un viola è così pervasivo da cancellare secoli di nefaste credenze. Nel Medioevo era il colore dei paramenti sacri in Quaresima, quando gli spettacoli teatrali erano banditi e gli attori facevano la fame. Ecco perché è tinta jettatoria tra la gente dello spettacolo. Ma l'inverno 2006-2007 sfida le superstizioni, è a prova di «prima». Gli stilisti hanno proposto stupendi abiti da sera, borsette mignon, scarpe paillettate, giacchine in broccato percorse da elettriche scariche viola.
Due accessori da scegliere, agli estremi opposti del portafoglio? La borsa viola di Gucci, in camoscio e pelle, total-colour, così imperativa da annullare tutto il resto, e il cappello borsalino di Stefanel, spiritoso senza strafare.
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martedì 19 settembre 2006

MODA & MODI

Signori, più gambe!

John Bartlett, primavera 2007

E se avessimo sbagliato tutto? E se i tanto dibattuti bermuda maschili, che ormai punteggiano pimpanti anche le estati dei signori negli «anta», fossero pronti a entrare nel guardaroba ufficiale, sdoganati come capo per tutte le stagioni? Dall'America arrivano segnali poco incoraggianti. Sulle ultime passerelle newyorkesi, accanto a quelle di Kate, Gisele e Naomi, sono comparse «altre» gambe tornite, con caviglia elegante, ginocchio ben modellato, polpaccio lungo e opportunamente depilate. Gambe di uomo (uomo-modello, altra categoria comunque...) che, dalla prossima primavera, almeno secondo le ottimistiche previsioni degli stilisti, non avranno patemi a farsi ammirare da sotto i bermuda, abbinati con camicia, giacca e cravatta.
Incubo da ritorno delle vacanze? Non proprio, se perfino il Wall Street Journal, bibbia dell'alta finanza americana, sentenzia, lanciando il nuovo trend in prima pagina: «La moda detta che l'uomo ben vestito mostri più gambe», salvo poi insinuare un dubbio: «Attecchirà?».
Le collezioni (di Perry Ellis, Michael Kors e Phillip Lim) non hanno lasciato spazio alle mezze misure: shorts per l'ufficio e persino per la sera, addirittura combinati con camicia da smoking a maniche corte. Questo segmento di mercato non è stato ancora sufficientemente saccheggiato e l'obiettivo è quello di suscitare nell'uomo un'insana voglia di «corto» in situazioni formali, proponendogli una vasta gamma di bermuda più rifiniti e in materiali tecnici o preziosi, dal prezzo adeguato.
Difficile ipotizzare un boom repentino, anche se nelle ultime stagioni i calzoncini estivi hanno contagiato categorie insospettabili, abituandoci alla visione di paludati amministrativi che saltellano in giro con evidenti problemi di irsutismo (passi per i bermuda, la ceretta rimane ancora un tabù). Gli stessi compratori americani hanno manifestato un interesse tiepido. Per tutti, il commento di Colby McWilliams, direttore della moda maschile per la potente catena texana Neiman Marcus: «La gente di Dallas resterebbe scioccata a vedere un uomo che gira in giacca, cravatta e shorts. C'è un limite».
Da noi, in bermuda e giacca è già stato avvistato Armani, a una sfilata milanese, ma il suo stile personale stenta a fare scuola (quanti, con pettorali frananti e pancetta, hanno il coraggio di infilare una t-shirt aderente sotto il blazer?).
Per i bermuda, dunque, è prevedibile una strada tutta in salita. Gli uomini sono tradizionalmente renitenti alle provocazioni della moda. La gonna maschile, ormai quasi «noiosa» in passerella, continua a invecchiare solo addosso a Gaultier, proprio come la giacca alla Nehru, sublime temerarietà degli anni Sessanta snobbata alla grande dai consumatori. Calvin Klein, nel giugno scorso, ha presentato a Milano anche un tentativo di perizoma maschile, intravisto sotto pantaloni affusolati a vita bassissima.
Fantaguardaroba? Mica tanto. Se perfino la canottiera leghista, indumento da tamarri per eccellenza, è stata rivalutata ed esportata dalle lande padane alla spiagge chic, non ci sarà da stupirsi se sotto la giacca il manager oserà i, sartoriali, bermudoni da città. E, sotto sotto, magari anche un intimo meno protocollare.
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venerdì 8 settembre 2006

MODA & MODI

Un inverno a quadretti
 
Inconfondibile Alexander McQueen
E' incluso di diritto in tutte le classifiche di «must» per i prossimi mesi freddi. Il tartan, il tessuto a quadrettoni che periodicamente rispunta nelle collezioni invernali (l'ultima volta sulla passerella risale solo a un paio d'anni fa), anche quest'anno sarà uno dei pezzi forti del guardaroba, insieme ad altri nobili «ripescaggi» del passato, come cappe e mantelle, tailleur di tweed o di velluto, accessori di vernice.
La tentazione di scavare nell'armadio alla ricerca del tradizionale kilt che «non passa mai di moda», quello che generazioni di studentesse hanno portato col maglioncino di cachemire, la calza colorata e i mocassini lucidi (immortalato in molti film, dove spesso, per la verità, si scopre che la rassicurante gonnellina scozzese nasconde la doppia personalità di una ninfomane assatanata...), è da scoraggiare subito. Se anche un kilt fosse sopravvissuto ai periodici riassestamenti del guardaroba, non fa vintage, ma semplicemente vecchio. E si vede.
L'inverno 2007 si veste di quadri, in tutti i colori e le combinazioni possibili, ma in modi e fogge imprevedibili, irriverenti, sconcertanti. Nessuna nostalgia «british», piuttosto una sfida a reinventare i quadrettoni in capi meno convenzionali, senza aver paura di assemblare tartan su tartan, sempre che, guardandosi allo specchio, si verifichi accuratamente di possedere l'altezza e il peso adeguati ad evitare l'effetto clown.
I più hot sono i vestiti. Sopra il ginocchio e con il collo rotondo, quasi un grembiulino per la scuola, o più elaborati, con maniche leggermente a palloncino e la scollatura a triangolo, o, ancora, con la cintura in vita e le tasche ingombranti, vagamente «punitivi». Chi non teme di assomigliare a un plaid, può scegliere tra pantaloni da motociclista o alla zuava, cappottoni con cappuccio, micro-tailleur dalle gonnelle svolazzanti o lunghe camicie da portare (per temerarie dotate di lunghi e affusolati polpacci...)
sui panta-collant.
Con il tartan, ecco risorgere un altro capo da archeologia della moda, il cosiddetto «scamiciato», che si libera dalla sua connotazione un po' zitellesca e trionfa sulle passerelle negli assortimenti più originali. Lunghi dietro e più corti davanti, con gonne ampie (e talvolta sottogonne bianche che spuntano) e il busto segnato, grandi colli da rivoltare o scollature profonde, gli scamiciati sfoggiano quadri rossi, verdi e avio e si abbinano a stivali e dolcevita morbidi, anche con la mezza manica. Nessun problema di freddo, perchè le braccia saranno protette da un altro accessorio must: i guanti, che saranno però lunghissimi, colorati, hollywoodiani.
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martedì 22 agosto 2006

MODA & MODI

Coatto-traveller e glam-traveller

Borsette fake

C'è un posto dove il cattivo gusto perde ogni freno inibitorio e si lascia andare alle peggiori esternazioni: l'aeroporto. Precisiamo: l'aeroporto per chi è in viaggio di piacere, diretto alla sospirata meta delle vacanze. Pare che questo trasferimento scateni una vera smania di riciclaggio, resuscitando dal guardaroba capi e accessori obliati da tempo, o accantonati, appunto, con la promettente etichetta «me lo metto quando vado via».
Avete mai notato quegli entusiasti gitanti, nella vita reale presumibili colletti bianchi, che attraversano i terminali insalsicciati in tute da ginnastica di lycra con la griffe taroccata e il passaporto infilato nel marsupio che traballa ad altezza ombelico? O le signore che sfoggiano interi set di valigeria Vuitton comprati sulle spiagge di Riccione, short che nella vita reale non avrebbero nemmeno la dignità della palestra, spirali di braccialetti etnici riesumati dal viaggio precedente e da tempo finiti in fondo al comodino, magliette con la scritta «I love Seychelles», da turistainternazionale?
Il coatto-style delle vacanze è trasversale, abbraccia ogni ceto e ogni capo di abbigliamento, è in un certo senso «democratico», omogeneizza tutti in un'indistinguibile marmellata di sciattume.  Se in treno si mantiene una parvenza di urbanità, in aereo ci si camuffa.
Eppure non è sempre stato così. Esisteva, nel secondo dopoguerra, col balenare del nuovo mondo contrassegnato dalla velocità, un vero e proprio glamaeroportuale, con codici e regole precisi. Le classi sociali che viaggiavano e che potevano permettersi il prezzo del biglietto - il jet-set appunto - per volare si facevano un guardaroba a sè. Occhiali scuri, cappelli a tesa larga, tacchi alti, stivali, giacche o soprabiti di pelle e di montone, borse griffate, abitini bon ton e foulard. Basta sfogliare una vecchia rivista dei Sixties per vedere signore di sangue blu e attrici che agli sbarchi e imbarchi si muovono impeccabili come su una passerella, con la stessa eleganza che le loro antenate sfoggiavano per affrontare una lunga traversata o un viaggio in treno. Chic puro, se pur mimetizzato.
Se la democratizzazione dei voli è stata una grande conquista, per la moda da viaggio ha rappresentato un tonfo. L'aeroporto è diventato la «zona grigia» del gusto, popolata da zombie col cappello messicano, la maglietta del villaggio e la finta Gucci del bazar turco piena di souvenir. 

Non resta che attendere i milioni di consumatori dei prossimi anni, quei cinesi e indiani che, affacciandosi al benessere della classe media, determineranno le oscillazioni del gusto. Saranno i loro spostamenti a ridisegnare il glam-traveller del futuro?
twitter@boria_a
MODA & MODI: all'aeroporto il cafo-traveller

Outfits da aeroporto
C'è un posto dove il cattivo gusto perde ogni freno inibitorio e si lascia andare alle peggiori esternazioni: l'aeroporto. Precisiamo: l'aeroporto per chi è in viaggio di piacere, diretto alla sospirata meta delle vacanze. Pare che questo trasferimento scateni una vera smania di riciclaggio, resuscitando dal guardaroba capi e accessori obliati da tempo, o accantonati, appunto, con la promettente etichetta «me lo metto quando vado via».
Avete mai notato quegli entusiasti gitanti, nella vita reale presumibili colletti bianchi, che attraversano i terminali insalsicciati in tute da ginnastica di lycra con la griffe taroccata e il passaporto infilato nel marsupio che traballa ad altezza ombelico? O le signore che sfoggiano interi set di valigeria Vuitton comprati sulle spiagge di Riccione, short che nella vita reale non avrebbero nemmeno la dignità della palestra, spirali di braccialetti etnici riesumati dal viaggio precedente e da tempo finiti in fondo al comodino, magliette con la scritta «I love Seychelles», da turista internazionale?
Il coatto-style delle vacanze è trasversale, abbraccia ogni ceto e ogni capo di abbigliamento, è in un certo senso «democratico», omogeneizza tutti in un'indistinguibile marmellata di sciattume. Se in treno si mantiene una parvenza di urbanità, in aereo ci si camuffa. Eppure non è sempre stato così. Esisteva, nel secondo dopoguerra, col balenare del nuovo mondo contrassegnato dalla velocità, un vero e proprio glam aeroportuale, con codici e regole precisi. Le classi sociali che viaggiavano e che potevano permettersi il prezzo del biglietto - il jet-set appunto - per volare si facevano un guardaroba a sè. Occhiali scuri, cappelli a tesa larga, tacchi alti, stivali, giacche o soprabiti di pelle e di montone, borse griffate, abitini bon ton e foulard. Basta sfogliare una vecchia rivista dei Sixties per vedere signore di sangue blu e attrici che agli sbarchi e imbarchi si muovono impeccabili come su una passerella, con la stessa eleganza che le loro antenate sfoggiavano per affrontare una lunga traversata o un viaggio in treno. Chic puro, se pur mimetizzato. Se la democratizzazione dei voli è stata una grande conquista, per la moda da viaggio ha rappresentato un tonfo. L'aeroporto è diventato la «zona grigia» del gusto, popolata da zombie col cappello messicano, la maglietta del villaggio e la finta Gucci del bazar turco piena di souvenir.
Non resta che attendere i milioni di consumatori dei prossimi anni, quei cinesi e indiani che, affacciandosi al benessere della classe media, determineranno le oscillazioni del gusto. Saranno i loro spostamenti a ridisegnare il glam-traveller del futuro?
@boria_a
La cantante Marianne Faithfull e l'attrice Anita Pallenberg all'aeroporto di Heathrow l'11 marzo 1967, in partenza per Tangeri  al seguito di Mick Jagger e Keith Richards dei Rolling Stones (foto Dove/Express/Getty Images)

martedì 8 agosto 2006

MODA & MODI
 
Se sale il fantasmino, cade tutto il resto
 

Una volta si diceva, senza esitazioni: le calze corte. Alla domanda «qual è il capo di abbigliamento maschile in grado di congelare qualsiasi intenzione (erotica e anche di altro tipo, dalla collezione di farfalle alla pizza)?»,
la risposta era pressoché scontata. I calzini.
Quelli, ormai quasi in via di estinzione, che si appoggiano giusti giusti sopra la caviglia e lasciano

intravvedere ciuffi di peli, polpacci frolli e incarnato bianchiccio a ogni increspatura dei pantaloni.


Ma i calzini e le loro terrificanti interpretazioni - tipo calzini bianchi con sandalo Birkenstock, prediletti dai tedeschi - hanno perso il primato nella lista degli orrori maschili. A usurparglielo un parente stretto, il cosiddetto fantasmino, ovvero quel calzetto mozzo, appena sopra il tallone, che agli esordi si utilizzava solo in palestra, con le scarpe da ginnastica, per evitare di dover poi scrostare l'epidermide del piede con la vanga.


Purtroppo, anche in questo caso, l'abbigliamento sportivo ha conquistato frotte di estimatori, felici di esportarlo e di sdoganarlo nel guardaroba di ogni giorno. Così i fantasmini, con quel loro inquietante diminutivo, si sono trasferiti allegramente nelle parti alte della scarpiera.


Vi è mai capitato di far scivolare l'occhio magari in fondo a un bel paio di pantaloni di lino, o a un paio di jeans ben disegnati, e scoprire, a filo della scarpa o del mocassino, quella strisciolina impercettibile di cotone, bianca o grigetta, che sembra proprio gridare «ehi, sono qui. Ci sono». Altro che fantasmini. Più ci si sforza di cacciarli in fondo alla suola, più loro risalgono con orgoglio, a rivendicare la loro inequivocabile presenza. E più salgono, più tutto il resto si abbatte.


Il popolo della rete si è scatenato e ne ha decretato la morte al grido di «Chi vuole i piedi nudi si assuma le sue responsabilità». I fantasmini vengono catalogati tra gli accessori maschili imperdonabili, accanto al borsello, al marsupio, alle calze corte, al telefono alla cintura, alle infradito che svolazzano dal motorino. E, siccome al peggio non c'è mai fine, i bloggers segnalano anche la versione taroccata, i fantasmini finto-Nike, effetto «tronista» assicurato.


Come ammazza-sesso, il loro equivalente al femminile sono i gambaletti. Quelli che in teoria dovrebbero regalare l'allure del velato anche con i tacchi a spillo e i jeans, ma hanno la controindicazione di lasciare, sempre, il segno dell'elastico sotto il ginocchio.
@boria_a

sabato 15 luglio 2006

E' ITS FIVE A TRIESTE
L'inglese Aitor Throup vince il fashion contest nel Salone degli Incanti, riaperta ex Pescheria


 A «battezzare» l'ex Pescheria è arrivato anche Maurizio Cattelan, il più quotato mostro dell'arte contemporanea. Quale migliore provocazione per il rinato spazio che aspira a diventare galleria? Confuso tra gli ospiti (come all'inaugurazione di giovedì notte, quando si è trovato a respingere, con un po' di sufficienza, l'entusiasmo di una fan triestina a caccia di autografi...), Cattelan scortava la compagna, «Very» Victoria Cabello, da sempre «voce» della sfilata finale di ITS, quest'anno Five.
Un po' di Milano, New York, Londra nel rinnovato Salone degli Incanti. Stessa atmosfera rutilante, ma l'incanto - questo sì, autentica ed esclusiva meraviglia - di una passerella a ridosso del golfo, che fa esclamare a Cathy Horyn, critico di moda del New York Times, una delle giornaliste specializzate più ascoltate del mondo: «Città meravigliosa, con un'aria che ha il sapore dell'Est Europa, città isolata, così diversa dall'Italia da cartolina. Mi piacerebbe tornarci». In prima fila c'è Renzo Rosso, il tycoon del jeans internazionale, che, un po' a malincuore (quasi tirato per la giacchetta dall'organizzatrice di ITS, Barbara Franchin), continua a scegliere Trieste (e a sganciare una cifra da capogiro) per uno dei concorsi di moda giovane più famosi del mondo.


Trieste è isolata, appunto. Fascino e maledizione. E ospiti, giornalisti, buyer, che per l'appuntamento di ITS arrivano da mezzo mondo, sono abituati ad aeroporti internazionali e, bontà loro, detestano i troppi scali. Accanto a Rosso, lo scanzonatoWilbert Das, direttore creativo di Diesel, che i ventidue concorrenti in passerella, e soprattutto i loro abiti, i loro disegni, i loro pensieri, li ha già da tempo scannerizzati, e ha scelto i migliori per portarli a Molvena, quartier generale dell'imperatore del casual.


 L'ex Pescheria di Trieste e la mini "limo" per gli invitati
Sara Marini, unica italiana in gara con le sue borse e i suoi stivali, «rugosi» di pieghe come mastini napoletani, è successo così: prima volta a ITS, finalista negli accessori, e un contratto di lavoro per disegnare le scarpe del futuro firmate Diesel. Trieste, per lei, originaria di Urbino, è tutto fuorchè isolata, è stata un trampolino su un mondo, affascinante ma esclusivissimo, al quale pochi accedono così in fretta.
Ieri notte, debutto su una passerella «internazionale» per le collezioni di ventidue aspiranti stilisti. A «osservarle», per la prima volta, è sbarcata a Trieste ancheFranca Sozzani, direttrice di Vogue Italia. Sulle gradinate grigie ci sono altri «cacciatori di teste» di celebri case di moda, Furla, Ferragamo, Max Mara, in giuria i direttori degli uffici stile di Margiela e Galliano, oltre a Raf Simons, lo stilista che firma Jil Sander, guru della moda maschile.
Sembra incredibile, ma qui, a Trieste, in una vecchia pescheria ascesa a «contenitore culturale», questi selezionatori di griffe vengono a pescare i talenti che daranno ossigeno alle loro linee nel prossimo futuro, che re-inventeranno il pret-à-porter, gli accessori, le linee giovani.
Cathy Horyn del New York Times alla sfilata in Pescheria a Trieste 
Ossigeno, appunto. Per una sera, anche se in uno spazio limitato, per pochi invitati (e interessati), Trieste ha respirato una boccata di ossigeno internazionale, al ritmo martellante della musica dei dj di Electrosacher, che hanno accompagnato le uscite di questi «abiti» (o costumi? o costruzioni? o incubi?). Chissà se l'idea è piaciuta agli assessori comunali Maurizio Bucci e Michele Lobianco, al consigliere forzista (e blandamente modaiolo) Paolo Rovis, al vice sindaco Paris Lippi, arrivati a sostituire l'assente Dipiazza, e soprattutto al nuovo assessore alla cultura, Massimo Greco, al quale, con i suoi consulenti, spetterà l'ingrato compito di disegnare l'agenda della Pescheria e impedire che diventi un guscio vuoto, o mal riempito. E alla presidente della Provincia, Maria Teresa Bassa Poropat, che dopo le uscite ufficiali nei «templi» della cultura triestina più paludata, ha fatto il suo primo bagno, trascinante, tra i giovani designer di tutto il mondo. Spetterà anche a loro, agli  amministratori pubblici, ciascuno per la sua piccola parte - che non significa solo contributi economici, ma agevolazioni burocratiche, supporti logistici, iniziative collaterali e «mirate» - decidere se Renzo Rosso e gli altri sponsor continueranno a spingersi all'estremo nordest d'Italia, fuori da qualsiasi latitudine della moda, per scovare talenti e lasciare un bel po' di soldi alle strutture ricettive della città. Chissà.
Ma per i ventidue stilisti in gara, ieri notte, è stata soprattutto una grande occasione di mostrare e mostrarsi.

Il vincitore di ITS Five, l'inglese Aitor Throup
Per l'inglese Aitor Throup, vincitore del premio più importante, che immagina hoolingan «pentiti», nascosti sotto giacche lunghe i cui cappucci si sollevano per regalare loro un'altra natura, quella di divinità indù. O per il giapponese Mikio Sakabe, premio speciale per la creatività, che disegna completi double-face ispirati ai paesaggi metropolitani, da una parte grigio ferro, dall'altra una festa di colori pastello, e dipinge lui stesso le stoffe... O per il francese Matthieu Blazy, che a Parigi avrà la vetrina di una boutique di grido, quella di Maria Luisa Poumaillou, dove mettere in mostra il suo incredibile soprabito nero e bianco, dai decori che richiamano sezioni di minerali, e dal taglio così perfetto da ricordare Balenciaga...
Matthieu Blazy sfila dopo la vittoria con il suo modello di punta a ITS Five Trieste
Tante le collezioni maschili, forse più interessanti di quelle da donna, spesso un po' spente. Hanno aperto i bikers fasciati di pelle dello svedese Daniel Ivarsson, premio Diesel, ha chiuso il bellissimo e crudelissimo marchese De Sade immaginato dal vincitore dell'anno scorso, il danese Marcus Lereng Wilmont, che ha investito i ventimila euro ottenuti l'anno scorso a Trieste in questa imponente e difficile collezione, ma che già vende nei negozi, con la sua etichetta...
Si dice spesso, riempiendosi la bocca, che Trieste è un'opportunità. Per tanti giovani, che di Trieste avevano forse una vaga idea geografica, lo è stata. Loro ci hanno creduto. Adesso tocca ad altri, soprattutto alla città.

 @boria_a

martedì 11 luglio 2006

MODA & MODI: mai dopo i vent'anni

Mary Quant nel 1967 con le sue modelle (Getty Images)

La frase della settimana la firma l'onorevole Dorina Bianchi della Margherita che, di certo sottraendo energie mentali ad altre più commendoli faccende governative, si è presa la briga di chiosare la dichiarazione rilasciata da Valentino a «Repubblica». Come prima di lui Stefano Pilati, direttore creativo di Yves Saint Laurent (che, prendendola alla larga, ha consigliato alle signore «rivestitevi»), Valentino punta il dito sulla minigonna, con inusitata intransigenza. «Mai dopo i vent'anni - dichiara - perchè dopo comincia la rovina e la donna diventa patetica».
L'onorevole Bianchi, infastidita dal rilievo, scomoda addirittura l'anniversario dei sessant'anni del voto alle donne, le conquiste femminili in campo professionale e culturale, per rispondere allo stilista, di recente insignito in Francia della Legion d'onore, che in materia di abbigliamento femminile l'ultima parola dovrebbe spettare alle donne. E insiste: «Quando si parla di seduzione, chi meglio di noi la conosce?».
Seduzione e gambe scoperte? Singolare che, dopo aver accampato i temi dell'emancipazione, si finisca per cadere in un abbinamento così trito e superato. Certo, si può discutere sulla grande imputata del momento, la mini, solo in parte responsabile degli orrori estivi. Ma il messaggio sotteso di Valentino è incontestabile: attenzione, i freni inibitori sono caduti. Pericolosamente. Il porto franco del gusto è una trappola per chi non ha sufficiente autostima da prendere la moda con leggerenza, senza farsi stritolare. La moda non è democratica, purtroppo. E' tirannica, selettiva, classista, infingarda.
Mini bandita dopo i vent'anni? Un estremismo più che mai salutare per l'ombelico-generation, che abbraccia figlie e mamme ugualmente pimpanti e smemorate dell'età (e, nel caso delle seconde, soprattutto dei suoi cedimenti).
Perchè castigarsi in una minigonna a una prima teatrale, quando si arriva al metro e sessanta, si hanno gambe color yogurt e un filo di pancetta? Perchè indossare al mare, a vent'anni e poco più, un orripilante slippino che recita: «se mira ma no se toca?» (esiste esiste, avvistato a Grignano).  Perchè, con vent'anni di consapevolezza in più, umiliarsi in un tanga che si fa strada tra strati di cellulite? Perchè ostinarsi ai bermuda implacabili su ginocchia e polpacci, al bianco-radiografia, all'intimo esposto, al vedo tutto, sempre, a ogni età e in qualsiasi ora?
Qui le conquiste delle donne c'entrano poco. Per dirla con la scrittrice Erica Jong, che fu la prima a liberare letterariamente le fantasie sessuali delle donne, è questione di «salvarsi la vita». E se non ci si riesce da sole, ben venga anche un uomo a ricordarlo.
@boria_a

martedì 27 giugno 2006

MODA & MODI: riprendiamoci il punto vita

Stefano Pilati per Yves Saint Laurent, primavera 2006

Riprendiamoci il punto vita. Uno slogan? Di più: una dichiarazione di guerra. Stefano Pilati, direttore creativo di Yves Saint Laurent, l'ha tradotto in un un imperativo: «Rivestitevi!». E sulla passerella, ormai da due stagioni, manda le sue donne-clessidra, con cinture alte mezza spanna che enfatizzano il punto vita. Ma non era scomparso? Appunto.
Chi se la ricorda più quella regione misteriosa, tra busto e fianchi, che una cinquantina di anni fa doveva puntare ai sessanta centimetri per aspirare alla perfezione? Quell'incavo magico che Christian Dior mise sull'altare quando, per reagire alle tristezze, psicologiche e soprattutto economiche della guerra appena finita, creò il «new look» e le gonne a corolla, da cui sgorgavano chilometri di tessuto?
Dolce&Gabbana, primavera 2006
Punto vita desaparecido, cancellato, piallato. Prima negli anni Ottanta, quelli delle città «da bere», con la loro invadenza e l'arroganza delle spalle imbottite, poi, una decina di anni fa, quando l'iconoclasta della moda ufficiale, Alexander McQueen, si inventò i pantaloni a vita bassa. Sembravano un capriccio di stagione, invece, con una durevolezza sorprendente e masochistica, i «bumsters» hanno resistito e resistono, reclutando non solo ragazzine informi, ma signore, per altro verso, ugualmente informi, e calando sempre più, fino a scoprire elastici, ombelichi, glutei. La porno-fashion è ormai invasiva e pervasiva, al punto che ci ha anestetizzati al peggio: dove ci si può voltare, dal supermercato alla scrivania più vicina, senza vedere una pancia all'aria?
Rivestiamoci, seguendo il consiglio di Pilati. Non solo. Tutte le griffe più importanti hanno rimesso il punto vita, Chanel segnandolo con un giro di perle nel costume da bagno intero, Dolce & Gabbana con fusciacche sui soprabitini couture o sulle camicie. Moschino disegna fiocchi rossi per togliere aggressività agli abiti maculati, Prada dissemina il suo prêt-à-porter di sottili cinture di pelle, l'irriducibile McQueen strizza tutto in un'alta cinta da gladiatore. Questa la couture, ma basta dare un'occhiata alle vetrine per scoprire che il punto vita si può coccolare anche con un delizioso golfino di cotone Stefanel, percorso da un nastro nero da annodare proprio lì.
Ma il punto è: abbiamo ancora un punto vita? Le statistiche dicono di no. Siamo la generazione tavola da surf, smussata dalle sedute di addominali, prosciugata dalla dieta, allungata e allargata rispetto alle nostre nonne, come ci documenta senza pietà uno studio dell'Università di Londra: il busto delle inglesi, in mezzo secolo, è cresciuto di sedici centimetri, da settanta a ottantasei.
Rimodellarsi a mandolino non sarà facile. Gli stilisti ci provano, ma la magica insenatura è andata irrimediabilmente assottigliandosi man mano che aumentava l'uguaglianza tra i sessi. E mentre noi lottiamo con i buchi della cintura, a sfoggiare il redivivo fisico da pin-up resta ormai solo la Barbie.
@boria_a
Prada, primavera 2006

martedì 13 giugno 2006

MODA & MODI: pericolo bianco

Alexander Mcqueen, primavera/estate 2006

L'estate alza bandiera bianca. Il colore più insidioso, problematico, narcisista, monopolizza le vetrine. Dalla borsa gigantesca, lucchettata, grondante ammenicoli da pigiare a terra una giraffa fino all'abitino svolazzante di sangallo, il biancos'insinua, invade, pervade.
Dopo i mesi invernali del nero, eccoci calamitate da questa irresistibile seduzione virginale. Perchè il bianco seduce, accalappia con la lusinga di un'apparente democrazia, un po' manipola. Sa di freschezza, di pulizia, di ingenuità, interpreta la nostra voglia di estate e di calore, il nostro bisogno di evadere dal tunnel del freddo e dalla crisi dell'abito, che aggiunge a strati piuttosto che inventare.
Ma il bianco di quest'estate 2006 è tutto fuorchè democratico, esattamente come la moda, che non è mai per tutti (ne abbiamo parlato: bermuda, stivali, colori). Intanto, non è un «unico» bianco, ma si moltiplica: quello mieloso, innocente e un po' ipocrita di pizzi e sangalli, alla country-girl di Dolce & Gabbana, quello energetico e sportivo delle canotte o delle t-shirt che corteggiano lo sport, quello abbacinante delle borse di finta pelle, pronte a raccogliere e trattenere nelle pieghe ogni granello di polvere, quello burroso e cerebrale delle giacchine alla «cinese», quello assoluto, imperativo, delle camicie importanti, tutte svolazzi e veli, trasparenze e plissè.
Questo bianco divide, seleziona, marca la differenza. E' un bianco "materiale", che pretende pelli curate, superfici levigate, imperfezioni trascurabili. Dicono gli esperti: colore sofisticato, pensato per valorizzare le sue trame, per portarle alla ribalta, fatto per corpi perfetti e un po' asettici. Un tempo perfezione e asetticità erano le prerogative del nero, oggi invece declassato a tinta «basic». Il bianco è da personalità decisa, da donna aggressiva che non teme giudizi o sguardi, paradossalmente quanto più lontana possibile dalle svenevolezze della
debuttante.
Bianco così angelico da diventare diabolico. A cominciare dai pantaloni, che rivelano proprio tutto, pelle a materasso, manigliette, cedevolezze, biancheria. Diventa volgare su chi ama l'abbronzatura brasiliana, il trucco accentuato, i gioielloni, su chi è negli «anta» ed espone ogni ruga al microscopio. Meglio miscelarlo col color sabbia, il grigio, moderatamente col nero per evitare gli accostamenti a pianoforte.
Il bianco preferisce le bionde, i colori diafani, neutri, i corpi androgini e un po' nervosi. E attenzione a volumi e proporzioni: sembrare una calla è un sogno, molto più facile finire per assomigliare a una meringa.
@boria_a

martedì 30 maggio 2006


MODA & MODI

Arrivano le cow-girl

Country-girl firmata Dsquared (ph. Marcio Madeira, vogue.it)

Che la moda abbia una vena di masochismo è cosa nota. Non a caso la fashion victim da manuale non è quella pronta a settare la carta di credito a ogni capriccio di stagione, ma soprattutto quella che lo fa con colpevolesmemoratezza, senza cioè aver dato una preventiva controllatina allospecchio. L'anno scorso l'incubo urbano era quel verde pisello-Findus incredibilmente preferito da signore e signorine con incarnato latteo e poco versate al make-up, col risultato di ottenere un domestico effetto «appena alzata dal letto» a tutte le ore.

Quest'anno la perfidia è duplice. Ricordate quando la saggezza della nonna ci ammoniva che l'estate è la stagione in cui i piedi vanno lasciati liberi, a respirare e rigenerare la pelle? Dimenticatevene. Ecco l'ultima trovata, che le nostalgiche del satirico «Cuore» candiderebbero subito per il primo posto nella rubrica «Mai più senza»: lo stivale da cow-boy. Dopo l'Ombelico-generation, il baccello-look, ecco le allegre gaucho-girl, che col primo caldo hanno pensato bene di intubare i piedi in traspiranti stivali di camoscio, a punta e col tacco squadrato, a volte percorsi davezzosi fiorellini o con la tendenza ad afflosciarsi sul polpaccio.
Vabbè che Jean Cocteau sosteneva che la moda, per continuare a vivere, deve suicidarsi ogni sei mesi, ma perché darle una mano? Eppure lo stivale da mandriana - disponibile anche nella versione tela - ha già conquistato pletore di fan, spesso in abbinamento con l'altro capo che non perdona: i bermuda.


Nel 2005 dilagavano nella versione larga e zavorrata da tasche, quest'anno sono quasi da «boutique», attillati, sartoriali, appena appoggiati sopra il ginocchio. Che li portino tutte le celebrities propinateci dai giornali è solo un'aggravante, anche perchè, tra i vari lifting, le signore si sono probabilmente fatte pure quello della rotula.


Inutile illudersi. I bermuda sono infidi. Fuori dalla spiaggia, sono consentiti solo a chi ha ginocchia toniche, polpacci affusolati, glutei alti e può permettersi di non portare tacchi. Numeri da specie protetta. Quanto agli stivali estivi, pur in presenza di tutti i predetti requisiti, è sufficiente un argomento inoppugnabile: fanno sembrare sciatte e zoccolanti anche le modelle.
twitter@boria_a

martedì 16 maggio 2006

MODA & MODI: l'estate retrò di Bettie

Bettie Page, la più popolare modella anni Cinquanta, playmate di Playboy

L'estate si riscopre pudica. Se l'intimo quotidiano rispolvera guepiere e corsetti, culotte e sottovesti, la moda mare asseconda la tendenza, mette al bando la troppa carne esposta e corteggia un'immagine da pin-up hollywoodiana. Sulle spiagge del 2006 si passeggerà nascoste da grandissimi occhiali scuri, con cappelli a falde o ampi foulard, caracollando sulle zeppe di paglia o di corda, in costumi castigati.
Parola d'ordine: «trasgressione ma con stile». Accessori vintage, occhialoni dalla montatura marcata, costumi interi ma ricercatissimi, con giochi di oblò sui fianchi o intrecci che svelano gli addominali (laddove, sperabilmente, ci sono). Sono out i micro-bikini, i perizoma, tutti quegli allegri triangolini da bagno di sole a Copacabana. I due pezzi hanno scollature profonde che «porgono» più che esporre, gli slip si allungano su natiche e fianchi, diventano calzoncini, gonnelline, boy-shorts. Il modello del revival è Bettie Page, la sensuale pin-up che fece salire la pressione alla bigottissima America anni Cinquanta.
Che questa sia un'estate in stato di «grazia» ce lo conferma, ancora una volta, uno studio più che esauriente condotto da Eta Meta Trend Lab, che ha monitorato oltre 200 testate internazionali, milleottocento siti e blog dedicati ai nuovi trend e intervistato almeno una novantina di «cool hunter», in pratica cacciatori di novità sguinzagliati in mezzo mondo. Il responso è confortante. Scende il tipo top-model, androgina e spigolosa, sale la femmina accogliente, dalle curve naturali. Le super-magre non piacciono, ma nemmeno le maggiorate al silicone, che non vengono indicate più come «icone della seduzione» (resiste solo un debole 8% degli intervistati) ma come autentici «fenomeni» (la pensa così il 65%, rafforzato dall'outing della pornostar Carmen Elektra, che gira il mondo ammonendo le giovani a non esagerare con ritocchi...).
La pin-up del nuovo millennio si esporrà al sole in costumi raffinati. Sgambati gli interi, con fenditure, inserimenti sui fianchi o lacci che disegnano e velano la pelle, applicazioni preziose. Evviva il colore, soprattutto i motivi floreali e lo stile optical, ispirati al sogno hippy e
alla psichedelia degli anni Settanta. In caduta libera le tinte acide o fluo.  Questa signora di sera sceglie la lingerie retrò, come i corsetti ricamati di pizzi, merletti e sangallo di Chantal Thomass, la stilista considerata «la poetessa della biancheria intima», le cui collezioni fanno furore in Francia e in America.
Superfluo avvisare che il topless è decaduto. E non merita nemmeno un accenno il terribile «Pastease», il copricapezzolo adesivo che pretende di aggirare i divieti di nudità con farfalline, stelle, cuori, manine a coprire l'areola. Agghiacciante, anche in pieno sole.
@boria_a
Chantal Thomass

lunedì 8 maggio 2006

 IL LIBRO

 Da Aspasia a Monica, storie di potenti o scomode "altre"


Eva Braun e Gloria Swanson, Maria Vetsera e Coco Chanel, Camilla Parker-Bowles e Livia Drusilla. Donne di tutte le epoche ed estrazioni sociali, di tutte le parti del mondo e di ogni razza. Intellettuali e popolane, signore e signorine, splendide e ordinarie. Alcune diventate leggende, altre restituite a un frammento di storia soltanto da epistolari, memorie, documenti della burocrazia.
Queste donne sono le «altre», quelle che genericamente vengono liquidate come «amanti», ma che nelle varie epoche e società hanno assunto contorni e connotazioni diverse, dalle concubine orientali alle mantenute dei sovrani, dalle compagne dei religiosi alle pupe dei gangster. Le donne «muse», come Catherine Walston per il drammaturgo e romanziere inglese Graham Greene, o le donne «trofeo»: la Callas lo fu per Onassis, Gloria Swanson per il patriarca Joe Kennedy (che, accortamente, riempiva di regali l'attrice addebitandoli sul conto della stessa, come la malcapitata ebbe modo di scoprire una volta rimasta in bolletta...), Marilyn per John Kennedy, figlio di Joe.



Gloria Swanson


Elizabeth Abbott, docente americana e da molti anni studiosa della condizione femminile, la chiama «amantità». Neologismo tradotto dall'inglese «mistressdom», che abbraccia tutti i modi di rapportarsi intimamente a un uomo, nel senso fisico e intellettuale, che non siano il matrimonio. 



 
Coco Chanel


L'amantità, spiega la Abbott, è inestricabilmente collegata al matrimonio. Anzi, il matrimonio è l'elemento in base al quale si stabilisce chi è un'amante e chi no. Quest'associazione quasi paradossale tra due condizioni femminili «opposte», almeno nel comune sentire, si estende attraverso il tempo e lo spazio ed è profondamente radicata in quasi tutte le principali culture. Il multimiliardario inglese sir Jimmy Goldsmith, che esalò l'ultimo respiro circondato da mogli, ex mogli, amanti in carica e passate, sintetizzò il problema con una battuta fulminante: «Quando un uomo sposa la propria amante crea ipso facto un nuovo posto di lavoro».

In «Storia delle altre» (pagg. 606, Mondadori) Elizabeth Abbott ha scelto di analizzare come l'«amantità» rifletta (e intacchi) la natura del matrimonio e del rapporto maschio-femmina nelle varie epoche e culture. Come la relazione tra un'amante e il suo uomo rispecchi la condizione e il ruolo delle donne nella società in cui vivono. E anche come hanno vissuto e giudicato la propria esperienza amanti così diverse tra loro come l'americana Virginia Hill, amichetta di gangster, o Jeanne Hébuterne, compagna del lunatico, impulsivo e indigente Amedeo Modigliani, che si gettò da una finestra, a ventun anni e incinta, cinque giorni dopo la morte del pittore. O ancora, Lola Montez, dilapidatrice di cuori e patrimoni maschili, la cui conquista più importante fu Ludwig di Baviera, re in crisi di mezza età, da cui fu separata per genuino e irrefrenabile odio popolare.



Lola Montez

Jeanne Hébuterne

 

 Dalla prima concubina nominata in un documento storico - Agar, la schiava egiziana che diede un figlio, Ismaele, al patriarca Abramo, la cui moglie legittima, Sara, era sterile - all'ultima e più celebre «altra», Camilla Parker-Bowles, oggi assurta al ruolo di consorte legittima di Carlo, erede al trono d'Inghilterra - l'autrice affronta l'argomento dal punto di vista di singole amanti e, attraverso le loro esperienze, racconta l'evoluzione del rapporto tra i sessi nelle rispettive società.

L'irregolarità dell'amore nell'antichità era originato soprattutto da differenze di casta, classe sociale, nazionalità, razza e religione. Le amanti erano donne che a tutti gli effetti facevano le mogli, ma che la società considerava indegne di diventare ufficialmente tali.
All'epoca di Sant'Agostino, vescovo di Ippona nel IV secolo, nella provincia nordafricana vigeva il divieto di contrarre matrimonio con persone di rango  inferiore. Così, il futuro Padre della Chiesa, non potè sposare la donna (rimasta senza nome e mai nominata nelle sue opere) con cui convisse quindici anni e che gli diede l'unico figlio, Adeodato. 


La povera Dolorosa, così la chiama la Abbott, non solo venne abbandonata quando Agostino decise di prendere in moglie una ragazza «onorata» e lasciare la concubina peccaminosa e di basso ceto, ma anche, negli anni del loro amore, dovette sopportare il disgusto del santo per la propria sessualità e gli estenuanti sensi di colpa che seguivano gli amplessi.

Sorte migliore non ebbe la colta e affascinante Aspasia, ragazza di Mileto, che amò Pericle, gli diede un erede, ma non potè mai sposarlo a causa delle leggi sulla cittadinanza volute proprio dallo statista ateniese. Considerata pericolosa per l'ordine costituito, perchè si era liberata del doppio handicap di essere donna (di più: donna intellettuale) e straniera in una società dominata dai maschi, Aspasia venne accusata di essere empia e ruffiana e trascinata in giudizio, dove la sua difesa fu assunta con successo dallo stesso Pericle. Non invecchiarono insieme: morto lui, Aspasia dovette trovarsi subito un altro protettore per non soccombere in una società che la odiava e la considerava una rivoluzionaria travestita da innocua seduttrice.

 
 
Aspasia di Mileto



Con un sottile gusto per lo humour, questa storia non solo delle «altre», ma soprattutto «dalla parte delle altre», ci accompagna negli harem delle concubine orientali (istituzione «integrativa» del matrimonio, dove le prescelte dal padrone avevano gli stessi obblighi sessuali della moglie, compresa la fedeltà...), poi tra le favorite dei re in Europa (e qui entra in campo l'antenata, in tutti i sensi, di Camilla, quell'Alice Keppel adorata da Edoardo VII, trisnonno di Carlo, che fu l'ultima amante ufficiale di re), e ancora nei «triangoli» delle sfere aristocratiche, tra le consorti clandestine degli ecclesiastici, le compagne dei conquistatori, le donne «ispiratrici» di Voltaire, Modigliani, Graham Greene, Salinger, le amanti degli uomini al di fuori e al di sopra della legge, dove spicca la lunga serie delle amiche di Fidel Castro (ma l'unica «first lady ufficiosa» di Cuba fu Celia Sanchez, confidente, consigliera, braccio destro del lìder per tutta la vita, rimasta al suo fianco, con pubblico riconoscimento e rispetto, anche quando lui correva dietro ad altre pasionarie più giovani e
appetitose...).


Marilyn Monroe

Emancipazione femminile, rivoluzione sessuale, contraccezione, mutamento dei costumi e anche promozione dell'amore romantico a ideale ampiamente condiviso (mentre per secoli era stato giudicato emozione elementare in grado addirittura di mettere in pericolo una relazione solida), hanno negli anni cambiato radicalmente l'istituto del matrimonio. E, con esso, la condizione di amante. Molte donne di oggi scelgono l'«alterità» per ragioni del tutto diverse dalle loro antenate, magari per vocazione a una dimensione affettiva e sessuale che non porti con sè gli oneri della vita coppia, o come soluzione transitoria determinata da ragioni economiche, o come semplice scambio di potere.

Camilla Parker-Bowles il giorno delle nozze con Carlo

Tuttavia, dice Abbott, è deprimente constatare quanto grande sia ancora la somiglianza tra le esperienze delle amanti moderne e quelle del passato.  L'«amantità» rimane pur sempre un prolungamento del matrimonio, uno sfogo per la sessualità maschile. E se le donne, come gli uomini, oggi possono scegliere liberamente un'avventura erotica e una parentesi gradevole con un compagno «tecnicamente» non disponibile, sono ancora troppe le amanti che si calano di propria iniziativa nel vecchio ruolo, con tutte le sue privazioni e le sue tristezze.  Donne che scelgono di essere «altre» e di sfidare il modello coniugale, per poi scoprirsi a desiderarlo. O, peggio, a riprodurlo.