giovedì 22 febbraio 2024

IL PERSONAGGIO

 

Candace Bushnell: "Io, Carrie, Sex and The City e New York"




Candace Bushnell in The True Tales of Sex, Success and Sex and The City

 

 

Candace Bushnell sale stasera - venerdì 23 febbraio 2024 -, alle 20.30 in data unica, sul palcoscenico del Rossetti di Trieste. La vera Carrie Bradshaw di Sex and The City è proprio lei e dalle sue rubriche degli anni ’90 scritte per il New York Observer, tra mondanità e sesso, è nata, ormai un quarto di secolo fa, la serie televisiva cult, poi i due film e oggi il cosiddetto reboot “And just like that”, che racconta Carrie e le sue amiche nella mezza età.


Un energetico one-woman show su vita, uomini, incontri, esperienze di una ragazza ventenne sbarcata dal Connecticut nella Grande Mela, con pochi spiccioli e una grande voglia di vincere un Pulitzer, fino alla Candace di oggi, sessantacinquenne divorziata e ricca, con sempre un paio di Manolo ai piedi e un Cosmo da bere con le amiche. Allo spettacolo seguirà un party glamour, e tanta musica, in platea al Rossetti,  cui gli spettatori potranno contribuire ispirando i loro look alla serie.


«Originariamente - racconta Candace - avevo intitolato questo spettacolo “Is there still Sex in The City”, come il mio libro (In italiano “Sex in The City... e adesso?”). Poi un caro amico mi ha detto che non si capiva di che cosa parlava. È una persona di grande successo, quindi l’ho ascoltato e ho cambiato in “The True Tales of Sex, Success and Sex and the City”. Infatti è la storia autentica di com’è nata la rubrica, mescolata alla mia storia, ci sono le mie relazioni, le mie amiche e un po’ di avventure piccanti di sesso, così, per divertimento. E c’è la nostra vita di adesso, donne mature e single».


Lei è mai intervenuta nella sceneggiatura? «Nei primi due anni con il produttore Darren Star, che è un mio buon amico, sono andata nella writing room, nella stanza degli sceneggiatori di Sex and The City. Una volta volevano far fare agli attori un giro di shopping da Bloomingsdale, e io ho cancellato la battuta e ho scritto “Gucci, Gucci, Gucci!”».

 


 


 

In effetti in Sex and The City la moda ha un ruolo centrale. E alcune borse e scarpe sono diventate, e sono ancora, oggetti del desiderio. «Sex and The City è stata la prima serie influencer, non era mai accaduto prima. Tutto quello che c’era dentro, vendeva. Le scarpe per me erano molto importanti, perchè quando arrivai a New York per la prima volta notai subito che i veri newyorkesi indossavano sempre scarpe belle. In un ristorante potevi entrare o non entrare in base a che cosa avevi ai piedi. New York era uno dei pochi posti dove si trovavano i brand italiani, avevamo Gucci, appunto, che solo i newyorkesi conoscevano. E io impazzivo per le loro loafers... Sì, forse con la serie ho contribuito a farne vendere un po’...».


Lei se lo aspettava un successo ancora così duraturo? «È meraviglioso, davvero, ma all’inizio nessuno lo sa, altrimenti qualsiasi cosa sarebbe un successo. Credo che la serie rappresenti un momento particolare nella vita delle donne, che tutte le ragazze di oggi vivono. Una volta si passava dalla casa dei genitori a quella del marito. Poi dalla casa dei genitori al college per trovare un marito e quindi nella casa da sposate. Oggi non succede. Dalla casa dei genitori le ragazze vanno al college e poi esplorano il mondo, definiscono se stesse, costruiscono le loro carriere, hanno diverse relazioni. È giusto, riflette il tempo in cui viviamo. Per questo la serie continua a piacere e donne di varie età ci si riconoscono. Ogni nuova generazione si trova nella stessa situazione e si fa le stesse domande: come posso gestire la mia vita, quello che voglio, quello che la società si aspetta da me? Voglio sposarmi? Voglio esplorare la mia sessualità? Vivere questa fase crea dei legami. Che durano nel tempo, come dimostra “And just like that...”».


Com’era la New York dei suoi vent’anni? «Turbolenta, spaventosa, molto divertente. E molto, molto creativa. Non giravano tanti soldi e artisti, designer, scrittori vivevano in appartamenti piccolissimi. Ci potevi venire e seguire le tue passioni artistiche, non avevi niente da perdere. Era costoso, ma non così tanto come oggi. Andavamo in sei, dieci posti diversi in un’unica sera: ristoranti, club, mostre, inaugurazioni. Non c’erano i social media, se volevi sapere cosa succedeva dovevi esserci di persona. Io ci andavo con un piccolo taccuino e appuntavo tutto, li conservo ancora quei quadernetti: nella rubrica parlavo di quello che era sexy a New York, dei desideri delle donne e degli uomini che incontravamo. Accennare al sesso a quei tempi era una novità».


 Dalla scrittura al teatro... «Mi piace stare in palcoscenico, ma mi piace anche scrivere e sto bene quando lo faccio. Ora non ho un libro in cantiere, ma magari scriverò un altro testo teatrale».


E adesso c’è un Mr Big, o un Mr Biggest, nella sua vita? «No, non c’è, spero di essere io Miss Biggest. Ho amici molto cari, ma davvero non ho tempo. Sulle dating app ho conosciuto un paio di ragazzi di Milano. Continuiamo a scriverci per fissare un incontro, ma è difficile, siamo sempre molto occupati. Quando ho cominciato la mia rubrica, negli anni ’80, gli uomini non volevano impegnarsi. Via via sono andati peggiorando, ora non si fanno nemmeno vedere. Ma a sessant’anni sei meno tollerante nei confronti del comportamento di un possibile partner. Se qualcuno ti dà buca o cancella un appuntamento, puoi essere tentata di dargli una seconda o terza possibilità, ma per quanto tu voglia che le cose vadano diversamente questo non farà loro diversi. L’ho imparato con l’età».


Ha qualche rimpianto? «Direi di no. Da giovane mi sarebbe piaciuto scrivere soap opera per la televisione. Ma poi ho pensato che nessuno mi avrebbe dato un incarico del genere. Forse l’unico rimpianto è di non aver fatto i soldi prima, perchè a vent’anni non ne avevo molti ed è stata dura».


Nello spettacolo c’è molto del suo libro “Is there still Sex in The City”, che racconta l’esperienza sua e delle sue amiche, donne single di una certa età... «Ne ho moltissime di amiche. Ed esco ancora per il brunch con loro, proprio come nella serie. Adesso viviamo così. L’idea che ognuna sia felicemente accoppiata come in una favola non esiste. Così dobbiamo vivere in un modo diverso, come donne single con le nostre amiche per famiglia. Ma è importante parlare di questa fase, sia per condividerla con chi ha raggiunto la nostra stessa età, sia per far capire alle generazioni più giovani che niente è finito, che ci sono ancora molte opportunità da cogliere. La vita continua dopo i cinquant’anni e può essere intensa e piena di esperienze, oltre che offrire nuove occasioni per uscire con gli uomini». 


Che cosa le ha portato l’età? «Il fatto di non aver paura, nella vita e nel lavoro. Tutte le donne che conosco che hanno lavorato dai venti ai cinquant’anni, a sessanta danno il massimo. Hai meno paura di quello che la gente pensa e non hai paura di provare. Il successo è un aspetto importante della nostra vita. In questo senso dico che possiamo essere noi il nostro Mr Big».

martedì 20 febbraio 2024

MODA & MODI

 Sleeping beauties al Met, bellezze da risvegliare

 

Belle addormentate torneranno a vivere dal 10 maggio nelle sale del Costume Institute del Metropolitan Museum di New York, nella tradizionale grande mostra di primavera aperta dal Met Gala del 6 maggio, organizzato dalla patronessa Anna Wintour. “Sleeping beauties: Reawakening of fashion”, ovvero un percorso di duecentocinquanta abiti storici dalle collezioni permanenti del museo, alcuni raramente esposti prima, presentati in un allestimento che li farà vibrare ancora. Cinquanta di questi pezzi, tra cui un abito da ballo di Worth del 1877, sono ormai così fragili da non poter più essere indossati, ma il cuore della mostra saranno proprio loro, messi a confronto con creazioni moderne che ne hanno tratto ispirazione e contestualizzati nel tempo attraverso l’uso di sofisticate tecnologie. La scelta del tema riflette il momento che la moda sta attraversando - il recupero del passato non tanto come sostenibilità ma come valorizzazione di un’eredità - e sarà curioso analizzare le interpretazioni che ne daranno le auguste ospiti invitate al Gala.

 

Reese Witherspoon, 2006, Oscar come miglior attrice in Dior anni '50

 


Sembrava un’eccentricità la scelta di Julia Roberts nel 2001, quando ritirò l’Oscar in un abito nero e bianco di Valentino del 1992 (a Sanremo nel ’93 lo indossò la Cuccarini), ma è stata cinque anni dopo Reese Witherspoon a stregare il Kodak Theatre di Los Angeles, incoronata miglior attrice in un sublime Dior ricamato anni Cinquanta. Quest’anno Carey Mulligan ai Golden Globes a Los Angeles indossava uno Schiaparelli nero con pennellata di bianco sul bustier del ‘49 e la siderale Gwineth Paltrow agli Emmy un Valentino del ‘63. Clara ha aperto l’ultimo Sanremo con un modello di Armani Privè del 2011, non vintage ma archivio d’autore, e Levante ha fatto di più sfilando sul red carpet della Mostra del cinema 2023 con un Versace di seconda mano (ops, pre-loved), acquistato sulla piattaforma Vestiaire Collective. Ai Bafta londinesi di domenica l'attrice britannica Vivian Oparah splendeva in Gucci d’antan disegnato da Tom Ford con scollatura abissale.


L’heritage è la sostanza di ogni brand e custodisce un patrimonio di bellezza, manualità, tecnica ancora non stritolato dalla bulimia delle collezioni di oggi. Le attrici scelgono questi pezzi perché inaccessibili ai più, le maison promuovono le loro radici e liberano i designer dalla pressione di creare novità per gli eventi internazionali. Purché i capi storici non corrano rischi, come accadde quando Kim Kardashian volle insalsicciarsi nella guaina dorata con cui Marilyn cantò Happy birthday al presidente Kennedy nel ’62, prestata dal museo Ripley’s Believe or Not! in Florida solo per il red carpet, ma restituita con cerniera rovinata, strass smarriti e molte polemiche.


Reawakening of fashion” è un richiamo ai codici che presidiavano la moda prima dell’avvento dei colossi e dei loro tritacarne produttivi. Ai tempi lunghi, di confezione e di durata, alla sartorialità che segna un’epoca eppure la supera, diventando senza tempo. Agli abiti che qualche volta troviamo non solo nelle lussuose piattaforme online di second hand, ma nei negozi vintage, incredule che qualcuno possa aver pensato di separarsi da quei gioielli. Perché le belle addormentate sono vicino a noi, basta saperle vedere, e risvegliare.

domenica 11 febbraio 2024

 
Candace Bushnell: "Sono io Carrie

di Sex & The City"

 

 

 

 

Carrie Bradshaw esiste e sta per salire in palcoscenico a Trieste per svelare tutti i segreti di Sex & The City, la serie cult che oltre venticinque anni fa ha rotto un tabù: il modo in cui le donne si raccontavano in televisione, parlando per la prima volta senza filtri di sesso, uomini, incontri, carriera, amicizia al femminile, sullo sfondo delle mille luci di una New York ribollente. Perché la vera Carrie, sullo schermo l’attrice Sarah Jessica Parker, è in realtà la scrittrice, giornalista e oggi anche attrice, Candace Bushnell, sessantacinque anni splendidamente portati, dai cui articoli sul New York Observer negli anni Novanta e dal primo dei libri che li ha raccolti, è nato un fenomeno internazionale, che non accenna a sgonfiarsi: sei stagioni televisive, dal ’98 al 2004, due film, il prequel da un altro suo libro, “The Carrie Diaries”, (che ha scalato fino al primo posto la classifica dei più venduti sul New York Times), e un sequel, “And just like that”, che segue le quattro amiche - Carrie, Charlotte, Miranda e Samantha - nell’età della menopausa, e di cui aspettiamo la terza stagione.

 


 


Candace Bushnell sarà, per la prima volta in Italia, al Politeama Rossetti il 23 febbraio 2024, proveniente dal teatro degli Arcimboldi di Milano (21 febbraio), con il suo one-woman show che si intitola “True Tales of Sex, Success and Sex and The City”, in lingua inglese e con soprattitoli in italiano. In questi giorni lo spettacolo era per un’unica data al Palladium di Londra, da tempo tutto esaurito, dove la scrittrice-attrice ha trascinato per un’ora e mezza un pubblico di ogni età dai faticosi esordi come giornalista a Manhattan, dalla raccolta di articoli di cui si innamorò il produttore Darren Star per farne la prima stagione di Sex & The City, dall’esplosione internazionale della sua carriera, al tritacarne della fama e del lavoro, al divorzio (il marito era un ballerino, e le fan della serie non tarderanno a rivedere Carrie e la sua storia con lo scultore Petrovsky, sullo schermo la leggenda della danza Barishnykov...), fino all’ingresso in un’altra stagione della vita in cui Candace-Carrie e le amiche scoprono che esiste, eccome, ancora sesso a New York, anche nella loro attivissima vita da neo-single della terza età.

 


 


A Londra, per una strana e singolare coincidenza, il Palladium dista pochi minuti dal teatro Savoy, dove Sarah Jessica Parker, Carrie Bradshaw per sempre, recita in questi giorni insieme al marito Matthew Broderick in “Plaza Suite” di Neil Simon, con grande successo di critica: la scrittrice Candace e la sua alter ego Carrie si guardano a distanza, legate indissolubilmente da una storia, vera e interpretata, ancora in grado di parlare a milioni di spettatori e di conquistarne di nuovi. «Non mi stupisce - dice Candace Bushnell - perchè le giovani donne di oggi affrontano le stesse problematiche di quelle che le hanno precedute. Madri e figlie si ritrovano in un racconto comune e questo crea un legame che va oltre le generazioni».


Issata sugli stiletto delle sue Manolo fucsia, in una scenografia con divano in tinta e una generosa selezione di scarpe («è Carrie che ha la mia ossessione» dice Candace, «ne ho più di venti paia e meno di Imelda Marcos...»), la scrittrice ritorna la ragazza del Connecticut, del tutto ignara di faccende di sesso, che abbandona il college e arriva a Manhattan con venti dollari in tasca e un Premio Pulitzer da chiamare, molto più vecchio di lei, che le metterà un lussuoso tetto sulla testa. Fare la scrittrice è dura, ma è la New York dello Studio 54, di Andy Warhol e della cocaina che cade come polvere d’oro, delle mille possibilità se si ha un obiettivo grande, una determinazione di ferro, un paio di stivali di Manolo. E naturalmente amiche pronte a sostenerti e a fare squadra, anche se finiscono per ritrovarsi sulle colonne di un giornale.

 


 

 

La prima rubrica sarà un misto di alta società e sesso, una cena in onore di Karl Lagerfeld organizzata da Anna Wintour e una visita al club per coppie scambiste Le Trapez. Candace Bushnell diventa Carrie Bradshaw, CB, per non imbarazzare il papà scienziato e i vicini di casa nel Connecticut. Da lì una storia tutta in ascesa, dieci libri, milioni di copie, soldi a palate e oggi una tournée internazionale e ancora molti progetti. Non ha bisogno di Mr Big, è diventata Mr Big.


Ma lui esiste davvero? Lo scopriremo in scena, con tanto di gigantografia dell’originale, ovvero il playboy e allora editore di Vogue, GQ e Vanity Fair Ron Galotti (spoiler: vi deluderà parecchio), che naturalmente piantò la scrittrice per convolare con un’altra donna meno problematica.

 

 


 


Candace gioca col pubblico, con humor, ritmo e qualche incursione sessuale. Vero o falso che è andata a letto con un politico? E con un modello di Calvin Klein? Che la voleva Matthew Mcconaughey? Chissà. Vero è, invece, che la nonna italiana, dopo lo strappo da Big, le diceva sempre “Se è stato così stupido da sposarla, lascialo cuocere nel suo brodo”. E che le amiche, in ogni età, sono per sempre

lunedì 5 febbraio 2024

MODA & MODI

Galliano, povere creature senza passerella 




 Sogno o incubo? Redenzione o espiazione? Sublime performance o rappresentazione del lato oscuro della mente umana? Desiderio o ripulsa? A più di una settimana di distanza fa discutere ancora, sulla carta e online, la sfilata di Martin Margiela Artisanal firmata da John Galliano, che ha chiuso la settimana dell’alta moda di Parigi. Su YouTube è facile trovarla e anche attraverso il perimetro ristretto di un display la forza dello spettacolo orchestrato dal geniale e maledetto designer, che da dieci anni si occupa del brand del gruppo OTB di Renzo Rosso, arriva agli occhi di chi guarda. Non è alta moda, verrebbe da dire, anche se lo è in ogni punto e centimetro di quei tessuti e pizzi riciclati, pressati, acquerellati, riassemblati in nove mesi di lavoro, fino a farne qualcosa di assolutamente nuovo, che simula altri materiali, cartoni bagnati, coperte fradicie, lo è in ogni sfumatura di colore delle calze degradé, nei vestiti dalla nudità trompe l’oeil, nelle crinoline trasparenti, nei completi gessati maschili dai tagli perfetti.

 


 


Sotto il ponte Alessandro III, in un vecchio magazzino trasformato in bistrot, tra tavoli, sedie e poltrone malconce su cui si accomodano gli invitati, davanti a un tavolo da biliardo, caracolla l’umanità di Galliano, una sfilata di “povere creature” aperta dal modello Leon Dame in un busto da cui esce il suo tronco asciugato, con la camminata disossata “alla Margiela”.

Sono prostitute, ubriachi, giocatori d’azzardo, ballerine del Moulin Rouge, l’umanità dei Misteri di Parigi di Eugène Sue, che cammina in precario equilibrio, i volti porcellanati dal trucco, le forme del corpo trasformate da protesi in silicone, i gesti teatrali così lontani dalla scansione meccanica delle sfilate. Le uscite sono state precedute da un breve film noir di Baz Luhrmann, che racconta una rapina e un inseguimento, e dalla voce del performer Lucky Love, sosia di Freddie Mercury, che canta a petto nudo e mostra il braccio monco.
Dopo la cacciata da Dior del 2011, in seguito agli epiteti razzisti pronunciati in un bar sotto l’effetto di alcol e droga, dopo la condanna, una faticosa riabilitazione, lunghi anni di ostracismo del mondo della moda e infine la fiducia di Renzo Rosso, John Galliano è tornato col suo mondo visionario, come negli anni Novanta.

In una fase in cui i colossi del lusso pretendono dai creativi un’alta moda “quiet”, un lusso disciplinato e sottotraccia, collezioni indossabili che tengano d’occhio il fatturato, il suo storytelling ha oscurato ogni altra passerella: non solo eccessivo, decadente, immaginifico, ma con tecniche raffinatissime di lavorazione e taglio. Un’operazione controcorrente, che ha diviso, emozionato, disturbato, esaltato.


Galliano ha rotto la schiavitù dei numeri e ci ha restituito l’alta moda del passato: non una narrazione solare, un’edulcorazione del presente, non un sogno, ma una visione potente, con tutte le sue sfumature emotive, anche le più oscure e inconfessabili. E in quegli uomini barcollanti, in quelle muse in disarmo, in quei corpi strizzati e tormentati, più che Margiela ha raccontato se stesso, e un ritorno alla vita che mai può essere lineare e definitivo.

domenica 4 febbraio 2024

IL FESTIVAL E LA MODA

 

Sanremo, dalle bolle all'utero

Su quel palco è salito di tutto 

 

Orietta Berti e Massimo Ranieri, Sanremo 1969

 

 Correva l’anno 1969, lo shaming era di là da venire, e l’abito sfoggiato sul palco dell’Ariston da Orietta Berti per cantare “Quando l’amore diventa poesia” con Massimo Ranieri, venne definito “uno svincolo autostradale”. La tivù in bianco e nero impastava l’esplosivo mix di righe bianche, gialle e nere, ricoperte di paillettes, all’epoca attribuito dai giornali alla mano “della sarta del paese”. Righe su curve: Alighiero Noschese ci rise sopra a lungo.
Ma l’Orietta nazionale aveva visto lontano. Il vestito era griffatissimo dalla dalmata Mila Schön, couturière delle milanesi chic già sbarcata al Festival l’anno prima con Milva, ed è entrato nella galleria degli outfit iconici della kermesse. Orietta l’ha rieditato in lattice e con piume e cappello, nella serata cover del 2022 in collegamento dall’ammiraglia Costa Toscana insieme a Fabio Rovazzi. 


Da almeno dieci anni sarte e sarti – allora si chiamavano così – erano entrati nella competizione e contendevano alle canzoni l’attenzione dei giornali. Le prime furono le Sorelle Fontana che a fine anni Cinquanta – sulla scorta del successo dell’abito da sposa confezionato per Linda Christian nel matrimonio mediatico con Tyrone Power del ’49 – aprono nella città dei fiori un loro atelier per i cantanti: nel ’58 vestono la presentatrice Fulvia Colombo, nel ’66 Gigliola Cinquetti conquista il suo secondo Sanremo insieme a Modugno con “Dio, come ti amo” in una bianca creazione di Zoe. “Ma che freddo fa” canta una quindicenne Nada nel ’69, in microabito con maniche ricoperte di margherite e stivali total white: minigonna da educanda e candore adolescenziale, che ha il piglio leggero della Swinging London. 

 

 

Nada a Sanremo nel 1969

 


Sanremo è una vetrina, i cambi d’abito sono diventati d’obbligo. Lontano quel 1951 quando Nilla Pizzi aveva affrontato tutte e tre le serate di un festival mignon nel Salone delle feste del Casinò municipale imbustata nello stesso modello di pizzo, fino alla vittoria con “Grazie dei fior”. Nel 1961 una giovane Mina si copre di bolle blu su chiffon bianco, ma per lei è un’edizione sfortunata. A far parlare i giornali sono piuttosto gli uomini: Celentano che dà il lato B al pubblico, Gino Paoli senza smoking e la cravatta slacciata, Umberto Bindi con quell’anello al mignolo che, ai tempi, fa tanto outing e gli costa anni di ostracismo dalla tv dei mezzibusti. “Me ne frego” canta Achille Lauro nel 2020, in tutina trasparente dorata firmata Gucci, una seconda pelle sopra i tatuaggi. Giovanni Truppi sdogana la canotta per cinque sere (ma la cambia) nel 2022, l’anno dopo se la mettono Ultimo, Leo Gassmann e Mengoni la porta alla vittoria, sigillato in un pezzo vintage di Versace. In mezzo, un campionario di pettorali e addominali in libertà con sopra geografie di tatuaggi, gioia per gli occhi e per i punti al Fantasanremo.
Moda a Sanremo come discrezione, poi promozione, infine performance. Dalle sarte agli stylist.

 

Achille Lauro, Sanremo 2020

 
Leo Gassmann, Sanremo 2023

 

E la provocazione? “Senza pietà” è quella di Anna Oxa nel 1999, il perizoma a vista appeso al bacino, un’idea di Tom Ford per Gucci. È il primo underwear che diventa outwear sul palco nazional-popolare per eccellenza e farà scorrere fiumi di inchiostro sul tasso erotico e bla bla, mentre del tutto inavvertita passa la mutanda argentata di Madame, all’edizione 2023, sotto la vestaglietta trasparente di Off-white. Ci si confrontò invece molto nel 2004, e non sugli ascolti a picco, ma sulle spalline e i ganci del reggiseno della conduttrice Simona Ventura, intenzionalmente lasciati uscire dagli abiti-bustier di Dolce&Gabbana. 


Sciatteria? Stonatura? Mentre l’Italia festivaliera si interrogava, fu bocciato senza appello il finto pancione di Loredana Bertè, fasciato di pelle nera e grintosamente esibito sul palco nell’86, su disegno del costumista Luca Sabatelli: lei dirà anni dopo che voleva scardinare il pregiudizio della gravidanza come malattia, ma l’intenzione naufragò in un mare di polemiche. 


Di donne guerriere non solo madri, diritto a procreazione assistita e aborto, ha discettato l’anno scorso anche Chiara Ferragni, con un busto dorato modellato sul seno e un utero-gioiello appeso al collo, made in Schiaparelli. Quasi quarant’anni prima l’energia del ballo di Loredana tracimava dal piccolo schermo e il messaggio in anticipo sui tempi arrivava come un pugno, nel festival che ha fatto ascendere al palco l’influencer, anno quarto dell’era Ama, è un fervorino algido e autopromozionale. Da postare, e spiegare, su Instagram.
E il 2024? Mentre la pattuglia degli stylist crea la suspense sui propri assistiti (che “core” indosserà?), una sola certezza: ci priveremo del quiet luxury di Sinner.