giovedì 24 aprile 2014

IL LIBRO

Petronilla, antenata delle food blogger

Amalia Moretti Foggia, prima pediatra italiana, prima food blogger (1872-1947)

 Petronilla, dott. Amal, Una massaia scrupolosa, Una mamma. Chi si nasconde dietro questi pseudonimi sulla Domenica del Corriere, sul Corriere dei Piccoli, su Il Romanzo mensile, in calce ad altrettante rubriche che, per quasi vent'anni, tra il 1929 e il 1947, insegnarono a milioni di italiani, soprattutto alle donne che reggevano la casa, a mangiar bene con poco, a curarsi correttamente, a leggere le prescrizioni mediche, a non combinare guai coi rimedi della nonna, a vivere una vita più sana ed equilibrata?
Lei, Amalia Moretti Foggia, è stata in qualche modo la prima blogger italiana, quando ancora la rete e i social media erano di là da venire. Aveva solo la penna, ma con i suoi lettori intratteneva un dialogo serrato, destreggiandosi con abilità tra i diversi registri di scrittura che i vari "nom de plume" richiedevano: era il burbero e professionale dott. Amal, che insegnava a non scherzare con erbe, medicamenti e cataplasmi, la colloquiale e scherzosa Petronilla, con le sue ricette dei tempi di guerra, pochi ingredienti e gusto garantito, la "mamma" premurosa e incoraggiante del Corrierino, pronta ad accorrere con i suoi suggerimenti se i piccoli non smettevano di bagnare il letto o di tossire. Una formidabile divulgatrice, che svolse un ruolo delicatissimo: negli anni d'oro della carta stampata, quando la "Domenica", nel 1930, tirava oltre un milione centosettantamila copie, e il Corriere dei Piccoli, nel 1942, oltre cinquecentomila, fornire a un bacino di milioni di lettori informazioni scientifiche con un linguaggio alla portata di tutti e insegnare una cucina di poco e con poco, ma che poteva contribuire in modo determinante alla salute e alla serenità della famiglia.



Una copertina della Domenica del Corriere, dove firmavano Petronilla e il dott. Amal

Ebbero grande fama il dott. Amal e Petronilla, mentre ad Amalia Moretti Foggia l'identità venne riconosciuta dal Corriere solo "postuma", quando, il 15 luglio 1947, a sepoltura avvenuta come lei stessa aveva disposto, si diede notizia della morte a 75 anni della dottoressa Amalia Della Rovere Moretti Foggia. «A centinaia - si legge nell'articolo - i lettori le scrivevano da ogni parte d'Italia e anche dall'estero; e, a ciascuno, rispondeva premurosa, minuziosa, consigliando, ammonendo, confortando. Sentirsi a contatto con la folla la inebriava; poter irraggiare una influenza benefica le accresceva il gusto di vivere...».
Oggi, a questa figura di giornalista scientifica, il Corriere rende omaggio con un volume edito dalla sua Fondazione e curato dalla docente Maria Giuseppina Muzzarelli ("Amalia Moretti Foggia. Le ricette di vita del dottor Amal e di Petronilla", pagg. 434, euro 14,00), che raccoglie una selezione delle rubriche, i "coccodrilli" pubblicati da Corriere e Domenica e l'unico pezzo sigliato col suo nome, "a.m.f.", scritto un anno prima della morte e intitolato "I petroli dell'avvenire". C'è un altro documento interessante, la lettera sobria e amara datata 18 dicembre 1944 e indirizzata a uno dei proprietari del quotidiano, Mario Crespi, con cui Moretti Foggia lamenta di non aver ricevuto il "dono natalizio", al pari degli altri giornalisti. Confessa di "soffrire", la dottoressa, non tanto per la gratifica mancata, ma per ciò che quel gesto significava, l'esclusione da quella famiglia del Corriere di cui si sentiva una colonna, con le rubriche portate per anni regolarmente, ogni settimana, «ad onta delle malattie sue e dei suoi cari, dei lutti famigliari e delle sciagure che hanno straziata la Patria...».
Del dottor Amal si parlerà anche nell'ambito di éStoria a Gorizia, quest'anno dedicata al tema delle Trincee, in un incontro con la stessa Muzzarelli, docente di Storia medievale all'Università di Bologna, che racconterà la "trincea" femminile, la cucina, dove tante donne fecero la loro personalissima guerra e resistenza.

Ma chi era Amalia Moretti Foggia? Divulgatrice, blogger ante-litteram, ma soprattutto scienziata. La sua vita, per dirla con Muzzarelli, fu di "un'ordinaria straordinarietà". Nata in una famiglia di farmacisti, laica e progressista, si laureò prima in Scienze naturali a Padova nel 1895 e, tre anni dopo, in Medicina a Bologna, terza donna in Italia e prima a conseguire la specializzazione in pediatria. Quando si iscrisse al liceo Virgilio, nella natia Mantova, da appena pochi lustri le ragazze potevano frequentare ginnasi e licei. Al "Corriere" ci arrivò attraverso Eugenio Balzan, correttore di bozze, poi inviato, poi direttore amministrativo, al quale si devono felici intuizioni come quella di puntare su una donna per avvicinare sempre più persone alla "Domenica".
Amalia accettò consapevolmente anonimato e pseudonimi per conquistare quanti più lettori poteva, intuendo che il "dottor Amal" e l'allegra Petronilla, avrebbero aperto molte più porte che il suo vero nome, e modulò con sensibilità toni e temi agli illustrati del Corriere su cui interveniva. Con due lauree, e frequentazioni importanti come Anna Kuliscioff e Ada Negri, da tempo si era affrancata dal recinto della "casalinghitudine", ma seppe lo stesso rientrarvi con tatto, e diede nozioni di igiene e medicina a chi aveva poca istruzione e molti timori, molti figli e pochi mezzi. Con un registro pimpante e lezioso, come i "magazine" dell'epoca richiedevano, insegnò ricette semplici e varie a giovani mogli senza esperienza ma con mariti che pretendevano e non aiutavano, rafforzò il senso e il valore della propria fatica in chi ogni giorno, in tempi di razionamenti, metteva in tavola un "desinaretto", senza ricevere in cambio neanche una briciola di gratificazione dai suoi cari. Pubblicò oltre ottocento articoli come Petronilla e il doppio come dott. Amal su riviste non certo di quell'area socialista da cui proveniva, ma lo fece ugualmente con spirito "socialista", con l'obiettivo di aiutare chi aveva meno possibilità economiche a crescere e a migliorare se stesso e la propria vita.
Che siano le ricette mediche del dott. Amal o quelle culinarie di Petronilla, gli articoli di Amalia Moretti Foggia restituiscono una stagione di tempi "eccezionali", prima magri e pieni di incertezze, poi aperti alla speranza di un futuro di pace e crescita. I tempi in cui il "clinico" dava consigli su come eliminare i foruncoli con l'erba Bardana e suggeriva alla "gastalda" di sostituire i lacci alle gambe con un rozzo ma creativo reggicalze.
Come blogger di carta, Petronilla dialogava con una serie di figure femminili, create apposta come pretesto per i suoi articoli, donne di diverse regioni e temperamenti, provette o incapaci in cucina: c'erano la "cognatona grassa", maestra di arte culinaria, la Gemma, "arca di scienza friulana" ed esperta ante-litteram di piatti regionali a chilometro zero, ma c'era pure la Giovanna, che considerava la carne in scatola "uno dei più geniali ritrovati della modernità". Amalia lo sapeva bene: le donne cominciavano a uscire dalle cucine, a dover passare di colpo "dai libri mastri dell'ufficio alle pagnotte" e suggeriva qualche "pietanzina" adeguata alle esigenze delle nuove lavoratrici.

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Un'immagine tratta dall'Archivio Corbis

martedì 22 aprile 2014

L'INTERVISTA

Irene Cao, la Trilogia mi ha aiutato a trovare l'amore

 
Irene Cao fotografata da Al Bruni

 

Ore 18.42, domenica. Ancora una volta, come un anno fa, Irene Cao, la scrittrice erotica diventata un caso letterario con la trilogia "Io ti guardo-Io ti sento-Io ti voglio", ha annotato l'ora della parola "fine" sul nuovo libro, in uscita a giugno 2014 per Rizzoli. Adesso la aspettano cinquanta giorni di quarantena, nei quali deve concludere il secondo volume, atteso in libreria a luglio e prosecuzione della stessa storia. Non ce ne sarà un terzo, questa volta è solo "duologia", fatalmente hard.




Ma dai suoi primi personaggi, Leonardo ed Elena, chef e restauratrice dagli amplessi bollenti tra Venezia e Stromboli Irene non può congedarsi. Dopo le trecentomila copie cartacee e le quarantamila digitali, a giorni la Trilogia uscirà in edizione Bur, in contemporanea alla traduzione in russo e alla vigilia di quella in tedesco. Ha già conquistato i mercati di Spagna, America Latina, Olanda, Turchia, Francia, dove al Salon du livre, il 21 marzo 2014, la giovane scrittrice di Caneva ha avuto il trattamento grandi firme. «In Francia - racconta - il primo dei tre libri è uscito il 2 gennaio. 

Hanno fatto una grande campagna nei metrò, con manifesti giganteschi. Incredibile: alcuni lettori che erano lì per Capodanno mi hanno "scoperta" a Parigi e mi hanno mandato le foto dei poster». Il successo se lo gode, Irene Cao, ma sui romanzi in cantiere non si sbilancia, blindatissima dalla Rizzoli che punta al bis. Niente titoli: solo, per restare in tema, qualche rapido "preliminare".

Sarà la storia di... «Linda, un'interior designer che si occupa di dimore di lusso. Il primo libro è ambientato in Veneto, sullo sfondo delle ville palladiane. Lo spunto della storia sono i sette peccati capitali, un espediente per definire il carattere della protagonista. Accanto a lei si muovono due uomini, Tommaso, e il fotoreporter Alessandro. Due "lui" e l'interrogativo su chi vincerà... Ma ci saranno bei colpi di scena».


Ancora un triangolo? «No, tutt'altra storia, più matura. Linda è sempre una trentenne, ma mentre Elena della Trilogia era una ragazza acerba, qui ci troviamo davanti una donna tosta, di maggior spessore. Diciamo che volevo mettermi alla prova con un personaggio diverso. E ho scelto di raccontare in terza persona, per scavare nelle varie psicologie. Elena parlava in prima persona, ero io a inseguire il suo mondo. In questo libro la vicenda si complica e confesso di aver fatto molta fatica a cambiare stile: in fondo mi sono messa a scriverla appena tre mesi dopo la Trilogia».

Arte ed erotismo bollente? «Dall'arte non riesco a prescindere, è la mia passione, un terreno che conosco. La cifra erotica rimane, ma cambia la dimensione. Non sto dicendo che sono passata dal realismo al sadomaso e agli effetti speciali, ma che racconto il sesso di personaggi più forti e più maturi. La storia resta completamente mia, la sento di pancia».

Il suo chef ha anticipato il Cracco sulla copertina di Vanity Fair. E i nuovi personaggi? «Per niente televisivi, ma sono convinta di aver fatto la scelta giusta. E comunque mi sono ispirata a La Mantia, non a Cracco».


Lo chef Filippo La Mantia


Dopo la Trilogia, un'altra storia distribuita su due libri. Esigenze editoriali o sue? «È chiaro che agli editori i due libri non dispiacciono. Ma anche le mie lettrici si sono affezionate al format. Credo che si crei una specie di aspettativa, che è parte del piacere della lettura. Per me si tratta di una sfida, prima tripla, quest'anno doppia, con due libri in uscita molto ravvicinati tra loro. E oggi la difficoltà di concentrazione è maggiore. Un anno fa nessuno mi conosceva, adesso non posso far finta che non sia successo niente. Ci sono delle aspettive su di me da parte del pubblico, c'è più pressione, senza contare che sto andando all'estero a presentare la Trilogia, mi intervistano sulla prima storia, mentre sono immersa nella seconda. È come se vivessi i due libri assieme».

Com'è andato questo anno da "L.E. James" italiana, da autrice delle Sfumature nostrane? «Sono contenta che molti lettori abbiano scoperto proprio questo: che non ero la risposta italiana alla James. Avevo paura che l'etichetta giocasse a mio sfavore. In effetti qualcuno mi ha detto che non voleva leggermi perchè aveva paura di trovarsi davanti alla stessa cosa e poi, per fortuna, di non riuscire a staccarsi dal libro.... Non intendo criticare la James, affatto. Con i suoi limiti narrativi, ha avuto il merito di far nascere un filone. Ma io volevo scrivere un racconto mio e sono molto soddisfatta che l'italianità della storia sia stata apprezzata. All'estero mi dicono che hanno voglia di venire a farsi un tour sulle tracce di Elena... Per il resto, faccio le stesse cose di prima, con meno tempo, perchè cerco di rispondere a tutti, di tenere un dialogo con i lettori. Scriverò finchè avrò qualcosa da dire, ma dopo questi libri mi prenderò un anno sabbatico. Per metabolizzare le storie ci vuole tempo».

Qual è l'apprezzamento che le ha fatto più piacere? «Quello di chi ha colto altri messaggi oltre a quello erotico, per esempio la volontà di intrecciare la "chick lit", la nuova letteratura d'amore femminile, con un po' di cultura, di arte italiana».

E che l'ha irritata? «Lo snobismo di alcuni colleghi scrittori, che magari non mi hanno neanche letto. L'invidia mi è incomprensibile, anche se ce la metto nel secondo nuovo libro, come peccato capitale. È impossibile arrivare a tutti i lettori, quindi bisogna saper con intelligenza svincolarsi dai piccoli mondi letterari e cercare di dialogare. Personalmente non mi preoccupo delle classifiche di vendita. Gli editor mi chiamavano la domenica ed erano sconvolti che non sapessi in che posizione ero... Non ho l'ansia di altri. So che qualcuno ha scritto cose più profonde e più alte delle mie e non ci è entrato, forse perchè non ha saputo intercettare il "sentire" del momento... Comunque non vivo le critiche con troppo dispiacere. Chi le fa di professione, poi, liberissimo di distruggere, ma se non va sul personale è meglio».

I suoi genitori, alla fine, l'hanno letta la Trilogia? «Ancora non lo so. Le amiche fermano mia mamma al supermercato, si complimentano con lei, e dai suoi commenti capisco che qualcosa ha letto, forse di nascosto. Mio papà non si sbilancia. Va in giro a elogiarmi, ma a me non dice molto. Meno male che mi fa ridere. Sdrammatizza tutto. I miei sono felici del successo e insieme preoccupati perchè mi vedono stressata. È successo tutto in fretta e non è facile da gestire, meno male che siamo una famiglia unita e io in questo credo molto».

Scrive ancora nella casa di suo fratello? «No, la casa della Trilogia l'ha venduta... Adesso vivo in un eremo, al pianoterra di una vecchia casa che sto cercando di restaurare. Il Friuli mi offre un rifugio meraviglioso, le fondamenta per non perdermi. Quando smetto di lavorare, me ne vado in collina, ricarico le batterie. Questa terra è la mia energia, gliene sono grata e la porterò nel cuore, dovunque mi capiterà di andare».

Si sente una scrittrice o una prof mancata? «Nessuna delle due. Sono esperienze che ho fatto e che si vanno ad assommare alle altre. Non mi piace identificarmi in un ruolo, ne diventi schiavo e vivi ancorato a questa schiavitù. Domani, chissà, sarò qualcos'altro».

Progetti? «Mi piacerebbe lavorare per il cinema, seguire le tappe di un film come aiuto regista, magari in un film coprodotto con la Francia. Non ho ricevuto ancora proposte per portare la Trilogia sullo schermo, nonostante tutti siano molto entusiasti all'idea. Non è un'operazione facile, personalmente punterei sui sentimenti, altrimenti diventa un film porno. E sulla bellezza dei luoghi italiani. Sorrentino mi ha dato uno spunto per quello che sto scrivendo ora, in termini di ambientazione, di inquadratura delle scene».

E lei, Irene, ha trovato l'amore? «Sì, sono innamorata. Non so se sarà per la vita, però è vero che, rispetto a un anno fa, il cuore è in un'altra dimensione. Senza la Trilogia, non avrei potuto fare certi incontri».
@boria_a

giovedì 17 aprile 2014

IL LIBRO
Luciana Capretti: Inghiottita dal Tevere

Luciana Capretti, giornalista e scrittrice

Una scarica elettrica attraverso il cervello. Le ustioni, il mal di testa lancinante per giorni, poi l'incapacità di governare mani e piedi, la bava, l'ottundimento. Clara era stata sottoposta per la prima volta all'elettroshock nel reparto neurologico del Policlinico di Roma, dove un luminare, in odor di Nobel, aveva sperimentato sull'uomo la pratica di annientamento della coscienza utilizzata al mattatoio del Testaccio per i maiali, prima di ucciderli. Quella volta, Clara era stata ricoverata d'urgenza dopo aver tentato di buttarsi dalla finestra con la figlioletta neonata in braccio. Anni dopo, fallito un altro tentativo di ammazzarsi con whisky e psicofarmaci, urlò con tutta la sua forza contro la seconda somministrazione della cosiddetta "terapia biologica", questa volta in una clinica privata: «Infermiera la prego, glielo dica lei al medico che l'elettroshock l'ho già provato, non funziona, su di me non funziona, glielo dica... Fatemi la cura del sonno, fatemi dormire, ma l'elettroshock no!».
Terapia biologica, farmacologica, timolettica: la depressione di Clara, quella voragine di angoscia e buio in cui era precipitata la sua vita, non passò nemmeno allora, dopo un altro ciclo di scariche. Anche sua madre Egle aveva conosciuto lo stesso trattamento, molti anni prima nel manicomio provinciale di Novara, dove con l'elettricità venivano curati vari tipi di matti, da quelli che marcivano legati al letto a quelli che dissentivano dalla politica del Duce. Egle, impazzita per la perdita della secondogenita, dalla terapia aveva ricavato una sorta di automazione inoffensiva, di sorda assenza, e a se stessa, a differenza della figlia, non aveva mai fatto del male.
Clara è una signora della buona borghesia romana, sottoposta all'elettroshock negli anni Settanta: nessuno riuscirà a strapparla alla sua volontà di autodistruzione. La madre Egle subisce la stessa cura nell'estate 1940, affondando lo stress post-traumatico in una perenne catatonia.
Due donne, due destini e una storia che parte da lontano per arrivare ai giorni nostri. La racconta Luciana Capretti, giornalista del Tg2, nel suo secondo romanzo, "Tevere" (Marsilio, pagg. 220, euro 17,50), nato da un fatto di cronaca. È il 1975: i documenti di una donna vengono trovati sulla sponda del Tevere. Lei, Clara, la protagonista del libro, è scomparsa. Una signora un tempo piacente, elegante, madre di due figli adolescenti, sposata a uno sceneggiatore di successo, Giuseppe, che da troppo tempo la tradisce, attento a non urtare la moglie nel perimetro domestico nè più nè meno che i mobili, indifferente, infastidito, irritato da quell'angoscia in cui lei è sprofondata negli anni, senza ritorno.
Clara non si trova. Una turista brasiliana l'ha vista sul fiume, avvolta in una pelliccia sintetica e con un vestito leggero, quasi una sottoveste, persa in una solitudine così lontana che non ha avuto il coraggio di avvicinarsi per chiederle l'accendino. Sono le prime pagine del libro, le uniche in cui vediamo Clara muoversi nel presente, davanti ai nostri occhi. Poi, la sua vita prenderà forma, tassello dopo tassello, attraverso lunghi flashback: l'infanzia, la famiglia contadina, il padre fascista, la militanza politica, il matrimonio, la nascita dei figli Virginia e Giovanni, la malattia. I capitoli hanno semplicemente il nome di tre colori: il giallo della sparizione, il nero dei ricordi, il bianco chimico del presente con i suoi tormenti, i ricoveri, le cure devastanti.


L'elettroshock, pratica disumana che segna il destino di due donne in "Tevere"
Clara non torna, come aveva fatto in passato. I figli si disperano. Giuseppe, chiuso nel suo studio nelle ore successive alla sparizione, per la prima e unica volta nel libro ricorda a voce alta di averla un tempo amata. E il commissario Jozzetti, incaricato delle indagini, guardando una fotografia della donna, quei suoi occhi in cui intuisce la disperazione senza fondo, si chiede se tutto questo basta. Basta un matrimonio fallito, la scoperta del tradimento, una vita prosciugatasi nelle banalità coniugali, i figli ormai incamminati sulla loro strada e le lunghe ore di solitudine che si accumulano, per richiudersi la porta di casa alle spalle, in una notte di pioggia e col fiume gonfio, e lasciare un biglietto? Per lei sì, è sufficiente: "Perdonatemi, cinquant'anni bastano, mi troverete nel Tevere". Ma per gli altri?
La vita di Clara si riavvolge come un nastro. Rapida, serrata, con la tensione di un thriller. Eccola bambina, nelle campagne di Novara, insieme alle sorelle Virginia e Mirna, mamma Egle piegata dalla fatica e il padre Dovaldo, che ha fatto la campagna d'Africa, sentendosi un eroe tra le cosce delle ragazzine scure. Adesso, nel giugno 1944, può di nuovo prendere le armi e andarsene in giro con le camicie nere, a scovare e castigare i partigiani. Anche Clara si iscrive al partito, diventa ausiliaria e imbraccia il fucile.
Cos'è successo tra quelle mura domestiche, quale disgrazia si è portata via la piccola Virginia, che mamma Egle ha sepolto con l'elettroshock? E cos'ha visto, o vissuto, Clara nei giorni della Liberazione, quando la primavera si è spezzata, fuori e dentro di lei, e il buio ha cominciato a farsi strada nel cuore? La ritroviamo a Roma, al cinema accanto a Giuseppe, poi al suo braccio, avvolta nel mistero di un passato che neanche l'amore del marito riuscirà mai a dissipare. Infine in corsia, annientata in tutto dalle "terapie biologiche" fuorchè nella volontà di sparire.
Luciana Capretti ha cercato la storia di Clara tra giornali, archivi, ospedali. E ce l'ha restituita, nella sua granitica fragilità, anche senza un corpo.

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martedì 15 aprile 2014

IL LIBRO
Alessandro Marzo Magno: dal "cappuccetto" al prosecco, il genio italico del gusto
Il libro di Alessandro Marzo Magno (Garzanti)

Cos'è il "macchiatone"? Persino a Trieste, dove il caffè al bar si ordina almeno in una settantina di modi diversi, il superlativo in tazza è sconosciuto. L'ha inventato una dipendente Enel di Cannaregio, a Venezia, Silvia Bonotto, che tra gli anni '80 e '90 lancia tra i colleghi la moda del "cappuccetto", bevanda con meno latte di un cappuccino e più latte di un macchiato. Tra superlativo e vezzeggiativo la lotta è dura, mentre la popolarità del nuovo "formato" viaggia da laguna a terraferma, quando l'Enel sposta la sede a Mestre e i suoi dipendenti sciamano in altri locali, esportandone l'uso. La definizione ortodossa è "cappuccetto", come racconta Adelaide, figlia della detentrice del copyright, Silvia: «Macchiatone pare una cosa riuscita male, mentre cappuccetto comunica tutta la dolcezza e l'accuratezza nel versare quel pochino in più di latte...». Fatto sta che a Venezia e a Mestre si può ordinare senza suscitare sorprese dietro al bancone, con grande sollievo di un giornalista inglese, Lee Marshall, che nel suo blog sull'«Internazionale», nel 2012, confessa il suo sconforto per l'esiguità dei bar (uno umbro, uno romano) in cui trovare la giusta via di mezzo, che lui chiama "cappuccino corretto".
E il carpaccio? Nome, anch'esso, dall'origine singolare per un «infante» della gastronomia, con solo mezzo secolo di vita, contro fossili come la pizza, citata da Virgilio, o la pasta, nota agli arabi già nella prima metà del X secolo.
L'ha inventato, nel 1963, Giuseppe Cipriani, fondatore dell'Harry's Bar di Venezia, espressamente per la contessa Amalia Nani Mocenigo, malata di fegato: carne cruda freschissima, tagliata in fettine sottili come fosse un prosciutto, "irrobustita" da un tantinello di salsa a base di un mix di maionese e Worcester. «Col carpaccio - dice Cipriani - gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell'essere interamente svelato, nudo come mamma l'ha fatto». Sì, ma il nome? Cipriani padre e il figlio Arrigo, dovendo inserire l'anonimo nel menù, escono in calle Vallaresso, dove si affaccia il loro locale, e si illuminano: affisso al muro di fronte c'è un manifesto che reclamizza la mostra di Vittore Carpaccio a Palazzo Ducale. Il maestro veneziano amava le tonalità scarlatte, e il suo cognome transiterà al celebre piatto di carne sfilettata, rendendo il carpaccio più famoso del Carpaccio.
D'altro canto, restando in tema, ai Cipriani il connubio tra pittura e tavola ha già portato bene. Pensiamo al "bellini", aperitivo nato nel 1949, quando Palazzo Ducale rende omaggio all'omonimo artista Giovanni, morto nel 1516. Pesche a pasta bianca di Sant'Erasmo, isola della laguna veneta detta l'«orto di Venezia» per la qualità dei suoi prodotti, schiacciate nel passapatate e mai frullate, prosecco ghiacciato di Conegliano: «Vidi che piaceva molto a tutti i clienti - racconta Giuseppe - e siccome era l'anno della mostra antologica del Giambellino, lo chiamai bellini. È diventato un classico».

Il bellini prende il nome dal Giambellino

In un momento felice per l'editoria intorno alle cose di cucina, arriva in libreria "Il genio del gusto" del giornalista Alessandro Marzo Magno (Garzanti), che attraversa mille anni di storia dei prodotti e dei piatti della nostra tavola per raccontare la costruzione, intorno al cibo, della cultura e identità collettiva. Dal 997, l'anno della pizza, al 1979, quando vede i natali lo spritz, si dipana un processo ricco di apporti, di contributi, di "contaminazioni" - come direbbero le star di Masterchef - a dimostrazione che la cucina italiana è andata alla conquista del mondo sapendo accogliere lavorazioni e ingredienti da altri paesi, facendoli propri e reinventandoli in modo originale, quasi a renderli - per restare tra i fornelli - non più "tracciabili".


Lo scrittore Alessandro Marzo Magno, storico gourmand

Prendiamo la pizza, autentico condensato di orgoglio identitario nazionale. Che, scopriamo, insieme al pane è uno dei cibi più antichi della storia, di cui vi è traccia nell'Eneide di Virgilio, almeno nella forma di piatta focaccia di farro, su cui viene sistemata la frutta (ma i troiani, in preda a una fame epica, finiscono per avventarsi e sbafare anche questa antenata povera dell'odierna "pizza bianca", nata in forma di stoviglia...). Anche l'etimologia ci riporta in Grecia, alla "pita", pane di grano che si consuma in tutto il bacino del Mediterraneo un tempo parte dell'impero bizantino, non troppo dissimile dal pane indiano "naan".
E la pasta? Stando al più completo trattato geografico dell'antichità, il "Libro di Ruggero", compilato nel 1154 dall'arabo Al-Idrisi alla corte del re di Sicilia Ruggero II, gli spaghetti vengono prodotti in gran quantità a Trabia, una cittadina sul Tirreno a una trentina di chilometri da Palermo, dove si sviluppa un fiorente export di vermicelli verso mercati cristiani e musulmani, settecento anni prima della rivoluzione industriale. Sono spaghetti ancora molto sottili, come conferma il termine arabo utilizzato da Al-Idrisi, "itryya", di cui rimane traccia nella "tria" con cui ancora oggi, in Sicilia, si definiscono i capelli d'angelo.
Per l'identificazione tra pasta e italiani, bisogna però aspettare la prima guerra mondiale, quando gli austroungarici li adottano per prendere in giro i nemici. Lo storico e collezionista triestino Roberto Todero ha rinvenuto in val Travenanzes, vicino a Cortina d'Ampezzo, i resti di una tabella in legno che indica le posizioni italiane come Maccaroni, e vicino al rifugio Corsi, nel Tarvisiano, un cartello con scritto Spaghetti Stellung, "posizione spaghetti".
1652, anno cruciale del prosecco, vino di baruffe per eccellenza. La sua prima citazione è nel poema eroicomico "L'asino", di Carlo de' Dottori, in cui si narra di una guerra tra Padova e Vicenza a colpi di cibo e vino. A un certo punto sul campo di battaglia irrompono i friulani, cui «'l bottigliere è lor sempre vicino/ con vino di Prosecco e cacio asìno...»: così, almeno, verseggia il letterato, con una confusione profetica tra le diverse comunità regionali.


Prosecco: doc allargata a dismisura
Il prosecco si fa a Valdobbiadene, la località di Prosecco (quella "furlanizzata" dal De' Dottori...) è sul Carso triestino: in mezzo ci sono 165 chilometri e la storia, molto attuale, di una "doc" allargata a dismisura da un ministro italiano, una doc ipertrofica che ingloba nove province tra Veneto e Friuli Venezia Giulia per rispondere allo scippo del tocai da parte dell'Ungheria e blindare le bollicine autoctone da ogni rivendicazione della Croazia, terra di "prosek", e fresca entrata nell'Ue. 
Marzo Magno ricostruisce con minuzia tutti i passaggi di questa disfida del vino, a colpi di glera e barbatelle, che si chiude con l'istituzione, nel 2013, del "poliziotto del prosecco". Uno 007 delle bollicine autentiche, che sanziona fino a centomila euro i "tarocchi". Di genio e di gusto.
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