giovedì 29 marzo 2012

IL LIBRO
Babe confida i suoi "white girl problems"

Se non avete simpatizzato almeno per cinque secondi con la povera Tamara Ecclestone, cacciata da Sanremo ancora prima di approdarci perchè non le andava di trattenersi in riviera altri dieci giorni per sudare il suo cachet. Se Paris Hilton non vi suscita almeno un filo di comprensione quando tenta di piazzare da qualche parte il suo secondo singolo, "Drunk text", che già nel titolo fa "outing" sul suo smarrimento esistenziale. Se, infine, non partecipate emotivamente alla saga di Kim Kardashian, o delle tante signorine Ivanka, Peaches, Nicole, i cui cognomi raccontano tutto lo stress di essere all'altezza di imperi, catene e papà di successo, allora "White girl problems" non fa per voi.

Perchè, ci hanno raccontato nei dettagli le sei stagioni di "Sex & The City" e le altrettante di "The Hills", e prima di loro un'interminabile telenovela messicana degli anni Settanta, anche i ricchi e famosi, quando non piangono, hanno i loro grandi dispiaceri. Per esempio finire in rehab, non per abuso di droga o alcol, come una qualsiasi casalinga annoiata, ma per aver speso in un solo pomeriggio da Barneys, in un momento di poca lucidità mentale, quasi duecentocinquantamila dollari.


 
Paris Hilton con il suo Prince
 



È capitato a Babe Walker, che firma questo esilarante diario, surreale, impietoso, perfido, politicamente scorrettissimo sulla fatica quotidiana di essere ricche, apatiche, viziate e agiatamente perfette, senza un pizzico di rimorso. Ma Babe Walker non esiste davvero, o meglio, commenta Susan Sarandon sulla copertina, ne esistono tante, «sono tutte intorno a noi».

Il libro (Hyperion, pagg. 272, dollari 13,99) è nato da un account twitter creato nel marzo 2010 da tre amici, Lara Schoenhals, 27 anni, ex assistente di produzione di Oklahoma City, Tanner Cohen, 25 anni di Brooklyn, e suo fratello David Oliver Cohen, 31 anni, entrambi attori. Tanner ha "twittato" una frase provocatoria e capricciosa con l'hashtag #whitegirlproblems, ispirandosi al diffusissimo in rete "first world problems", che dileggia i fatui, inconsistenti, pretestuosi dilemmi e drammi dei giovani bianchi che non hanno mai affrontato una carestia o un default, almeno fino adesso.



 
Tamara Ecclestone
L' idea ha avuto successo. Molti, nello sterminato e inquieto popolo della rete ci hanno riso sopra o probabilmente ci si sono riconosciuti, e così Tanner ha deciso di aprire un account Twitter insieme agli amici. Chi poteva essere Babe? Una donna matura, una studentessa, una ragazzina? Dopo una serie di test di gradimento, le hanno dato l'identità di una post-universitaria (ne ha passate cinque, prima di decidere che tarpavano la sua creatività), figlia di un facoltoso legale del mondo dello spettacolo, custode ortodossa degli insegnamenti della nonna: il primo lifting a quarantadue anni, dopo è troppo tardi. Mai andare a letto con il trucco, a meno che tu non pensi di morire nel sonno. E soprattutto: dottori, avvocati e principi vanno e vengono, i soldi del petrolio durano per sempre.


Uno dei deliranti tweet di Babe è stato rilanciato dall'attrice Emma Roberts, nipote di Julia, prototipo della "white girl" che ha cominciato a sgambettare sui set a nove anni, e l'account oggi conta oltre 600 mila follower. "Sgradevole, condiscendente e frivola, @whitegirlproblem è l'epitome dell'urban socialite che ami odiare", ha scritto Megan Gibson su Time, piazzando Babe tra i 140 Best Twitter Feeds. Dalla rete al libro, finito tra i best seller della New York Times Book Review, e poi al blog www.babewalker.com, dove si può interrogare la povera ragazza ricca su deliziose inutilità come, avendo la disgrazia di una bocca alla Kirsten Dunst, si possa ottenere un'iniezione decente per trasformarla in un mix di Sienna Miller, Ashley Olsen e Barbara Pavlin (modella ungherese, per le non "white girls") senza sembrare elephant man.

Emma Roberts, nipote di Julia (Instagram)
 

Consolatorio? Se non aspira a tanto, il diario di Babe, per quanto sadica fiction, ha lo stesso potere delle saghe dorate dei belli e famosi che spopolano sui canali a pagamento, di reality come "The world according to Paris", ovvero il mondo secondo la signorina Hilton, dei serial girati negli ambulatori dei chirurghi estetici hollywoodiani, dove diciottenni isteriche confessano l'impellenza di una plastica vaginale: finalmente una bianca ragazza ricca che non sente il bisogno di correre a salvare il pianeta o di comprarsi metà Africa per adottare un bambino. Ma fa, semplicemente, quello che ci si aspetta da lei: capricci e sperpero. Divertendosi e divertendoci, il che, in tempi così bui, non guasta

 Alla faccia - citando il blog (finto anch'esso, ma molto realistico) della perfetta "white girl" del futuro, Suri Cruise - di tutto il pacifismo di facciata e l'understatement delle miliardarie penitenti come Angioline Jolie.

Meglio l'odiosa Babe che, nonostante le ultime volontà di nonna («non lavorare mai per vivere. Sei troppo intelligente per farlo...») un impiego alla fine lo prova, da vice segretaria nello studio del comprensivo e democratico papà. Come poteva finire? Come per Tamara Ecclestone: troppo faticoso dover spostare l'appuntamento a pranzo con la propria personal shopper.
@boria_a

La copertina del libro Hyperion

martedì 20 marzo 2012

MODA & MODI

Che cosa c'è sotto la cappa

Dai red carpet alla strada, il suo ritorno è nell'aria da tempo. Perfetta per transitare dal freddo dell'inverno alla primavera ancora indecisa, la mantella è il capo ritrovato della mezza stagione che non esiste più. Niente a che fare con frange, tessuti plaid e la dimessa aria Inti Illimani dei ponchi che hanno circolato fino a qualche mese fa, in pieno saccheggio anni Sessanta, la cappa di tendenza ha colori più adatti ai primi tepori , differenti fogge per giocarla tra le occasioni e una piacevole versatilità.

Tra Cappuccetto rosso e la regina di Biancaneve, c'è tutta una gamma di tagli e lunghezze che ne fanno la più originale sostituta dello scontatissimo trench o del giubbotto di pelle, abbinata a gonne, pantaloni, legging, anche ai leziosi abiti fiorati che cominciano coraggiosamente a spuntare.


Sul tappeto degli Oscar, Gwyneth Paltrow ne ha indossata una versione di Tom Ford, bianco abbacinante, da sera, un tutt'uno col vestito in tinta che sottolinea la statuarietà dell'outfit a e rende superfluo qualsiasi accessorio. Madonna ama avvolgersi in un mantello nero e perfido, lungo fino ai piedi, molto simile a quello rosso fiamma che appartenne a Maria Callas, esposto nella mostra di Palazzo Fortuny dedicata a Diana Vreeland.


Chi ama il vintage può trovare deliziosi abiti anni Sessanta con "ali" incorporare (avvistati da Boogaloo a Trieste), perfetti per interrompere il nudo delle braccia quel tanto che basta per sembrare comunque discrete.
La mantella ama soprattutto il giorno. Se corta e colorata, è necessariamente solo decorativa: magari non ripara, ma non insalsiccia e permette di nasconderci sotto anche il pullover o la giacca. Ines de la Fressange ne offre un'interpretazione magistrale: minuscola e nera, da abbinare al tailleur pantalone quando si hanno gambe da fenicottero.


È trendy ma non per tutte. L'effetto bambina saltellante nel bosco è dietro l'angolo, soprattutto se si hanno polpacci potenti e la temerarietà di indossarla sui tronchetti che tagliano vieppiù la gamba. Meglio la versione al ginocchio, che regala rotondità di linee al posto delle spigolosità di un banale impermeabilino strizzato in vita dalla cintura. O lunghissima: fa un po' "compagni di Baal" (per chi se li ricorda, tv vintage), ma anche tanta scena.
@boria_a

Gwyneth Paltrow in Tom Ford

giovedì 8 marzo 2012

LA MOSTRA
Diana Vreeland, che sublime eleganza quel cattivo gusto

Diana Vreeland
Diceva, «la moda è una cosa che passa», eppure ha cambiato il modo di guardarla e rappresentarla. Diceva anche: «credo profondamente nella volgarità. Tutte abbiamo bisogno di un tocco di cattivo gusto», ed è considerata una delle icone dello stile del ventesimo secolo. Inventò l'«allure», come si intitola il suo libro uscito nel 1980, una presenza, un modo di camminare e di proporsi agli altri, che non aveva niente a che fare col buon gusto. Di lei, invece, diceva Pierre Bergé, il compagno di Yves Saint Laurent: «Era di quella rara razza di donne che prendono il destino per la gola e lo obbligano ad arrendersi».
Provocatoria, eccessiva, magrissima, sontuosamente brutta, Diana Vreeland, col suo naso da tucano e i capelli ebano, è stata una delle grandi, controverse, protagoniste della moda del '900. Per cinquant'anni, prima dalle rubriche di Harper's Bazaar poi dal suo studio laccato di rosso alla direzione di Vogue America, poi ancora dal Costume Institute del Metropolitan Museum di New York, ha insegnato al mondo cos'è l'eleganza, ovvero «niente a che vedere con l'essere ben vestiti». Oggi le rende omaggio la Fondazione Musei Civici di Venezia, con una mostra, "Diana Vreeland after Diana Vreeland" a Palazzo Fortuny, dal 10 marzo al 25 giugno, curata da Judith Clark e Maria Luisa Frisa e commissionata da Lisa Immordino Vreeland, nipote acquisita e autrice del docu-film "Diana Vreeland: the eye has to travel», presentato alla scorsa Mostra del cinema e diventato anche un libro.
Era nata Diana Daziel a Parigi nel 1903, figlia di una ricca newyorkese e di un inglese spiantato. Liceo interrotto per scarso rendimento, aveva studiato balletto con il grande coreografo Michel Fokine e a ventun anni era convolata a nozze con il fulgido e inconsistente banchiere americano Reed Vreeland, da cui ebbe due figli e che amò fino alla fine, nonostante le corna incassate senza batter ciglio. Quando il marito morì, nel '66, andò in una casa di alta moda a Parigi e ordinò un vestito rosso, il suo colore preferito, che non mancava mai di indossare.
La coppia passò gli anni della giovinezza a Londra, dilapidando l'eredità di lei nel bel mondo intorno al duca di Windsor. Quando i soldi finirono, Diana aprì un negozio di lingerie, dove, così vuole la leggenda, Wallis Simpson scelse la camicia da notte con cui sedusse Edoardo VIII. Allo scoppio della guerra, Reed s'imbarcò per l'America e Diana lo seguì pochi giorni dopo. Nel '39 approdò ad Harper's Bazaar, con il celebre art director Alexey Brodovitch, e vi rimase per oltre vent'anni. La sua rubrica "Why don't you?", che tenne fino agli anni '60, era un concentrato di iperboli e pazzie, casualità e divertimento. Diana le chiamava le sue "absurdities", perchè sembravano consigli all'insegna del nonsense, come trasformare un vecchio cappotto in un accappatoio, legarsi del tulle ai polsi al posto dei braccialetti e dipingere un mappamando sulle pareti della stanza di un bambino, per preservarlo dalla mentalità "provinciale". L'idea, in realtà, era geniale, ironica e sottile: in piena depressione, dare alle donne americane medie un rassicurante senso di continuità. Più tardi, insegnare loro a non aver paura della trasgressione, della fantasia. La moda come strumento di emancipazione.
Quando entrò ad Harper's Bazaar, per sua stessa ammissione, Diana non aveva mai lavorato, non aveva mai visto un ufficio e non si era mai alzata prima di mezzogiorno. Due decenni dopo, nel '63, andava a dirigere la concorrente "Vogue", dove rimase fino al '71, quando fu licenziata in tronco perchè la rivista più patinata del mondo non aveva più bisogno di visionarietà e sperimentazioni, ma di una guida che lusingasse inserzionisti e industria.
Negli anni di "Vogue", Diana Vreeland costruì la leggenda della propria stravaganza, dietro cui c'erano tenacia, talento, fiuto per il nuovo. Diceva alle sue girls, come chiamava le redattrici, e alla first lady Jackie Kennedy, che consigliava nelle scelte: «Devi avere stile. Lo stile ti aiuta a scendere le scale. A svegliarti la mattina. È un modo di vivere. Senza stile non sei nessuno. E non ha niente a che fare con l'avere tanti vestiti».
Diana Vreeland con Yves Saint Laurent
Scoprì e lanciò modelle dai corpi scheletrici e lo sguardo magnetico come Twiggy, Jane Shrimpton, Veruschka, Marisa Berenson che divennero il volto e il corpo degli anni Sessanta, aprendo la rivista alle novità dello street-style. Mandò in soffitta, in un numero del '67, l'eleganza di Gloria Guinness, l'ereditiera della birra, giudicata in quella stagione la donna meglio vestita del mondo, e incoronò Barbra Streisand, l'ultima delle dieci più malvestite, che con le sue sciarpone e i suoi berretti era l'idea della libertà. Le signore mollavano visoni e perle e riempivano gli armadi di pellicce sintetiche e stivali di vernice lucida. Lei stessa coniò il termine per definire questa stagione, "youthquake", il terremoto della rivoluzione giovanile, incarnato da un'altra sua scoperta, l'efebica e infelice modella Edie Sedgwick, la musa di Andy Warhol, anche lui reclutato tra i collaboratori della rivista.
Grazia a Diana Vreeland, la moda usciva dagli studi fotografici e si stagliava su fondali esotici e drammatici, da Israele alla Libia, dall'Anatolia all'Arizona, nei servizi emozionanti di una nuova generazione di fotografi, Richard Avedon, David Bailey, Patrick Lichtfield, che spesso la detestavano ma erano soggiogati dalla sua personalità. Non solo immagini, i loro scatti diventavano manifesti di una nuova estetica e lei la prima fashion editor a trasformare la rivista in una palestra di avanguardie.

Diana Vreeland con una modella per un servizio su "Bazaar", 1941
A 66 anni, licenziata su due piedi da "Vogue", venne chiamata dal Metropolitan Museum come consulente all'Istituto del Costume. Sensazionali le sue mostre, dodici in tutto, tra cui l'omaggio a Balenciaga, a Yves Saint Laurent, a Hollywood, alla "Gloria dei costumi russi". Come racconta nell'autobiografia "D.V.", scritta nell'84, cinque anni prima di morire, da adolescente, nel salotto parigino dei genitori, aveva conosciuto Diaghilev e Nijinsky. «Quando ho scoperto la danza - diceva - ho imparato a sognare».
Nel 1993 il Metropolitan le rese omaggio con una mostra magnifica, firmata da Richard Martin e Harold Koda, il cui catalogo è un pezzo da museo: s'intitolava "Immoderate style".
@boria_a