martedì 29 maggio 2012

MODA & MODI: all'uomo saltano freni e bottoni

Dopo il vestitino-polo in maglia rosa alla Parigi Fashion Week, Marc Jacobs si è presentato al gala del Metropolitan di New York, tappeto rosso tra i più microscopizzati del mondo, in pizzo trasparente e boxer bianchi a vista, "riciclando" le scarpe Lugi XVI, che evidentemente gli piacciono e lo rassicurano sulla congruità dell'outfit. Tramortiti da tanto coraggio, i blogger, i fashion-watchers, gli esperti di tendenze (e tendenza) di mezzo mondo hanno messo a dura prova i loro neuroni per spremere qualche aggettivo acconcio all'evento: Marc istrionico, trasgressivo, ironico, sfrontato, anticipatore, divertente, scanzonato, surreale. Acrobazie lessicali che avrebbero meritato ben altro obiettivo: perchè non dire semplicemente che era obbrobrioso? E che tra i tanti vestiti assurdi della serata, questo li batteva tutti? Non tanto per la volgarità dell'insieme, quanto perchè, nanetto e picchiettato di tatuaggi, Marc in quello spolverino "vedo oltre", stava davvero male. Incerto tra il fare e il sembrare un travestito.
Al di là dei capricci delle star, resta un interrogativo, che possiamo applicare anche a esempi molto più terreni e vicini a noi: perchè gli uomini familiarizzano sempre più con l'idea di scoprirsi? Con la t-shirt di velo, la canottiera del coatto, i calzoncini da centometrista portati in città, i pinocchietti a metà polpaccio, i piedi nudi nel sandalo francescano o ipocritamente oscurati dai "fantasmini" , usciti dal letargo coi primi caldi e che meriterebbero rastrellamenti a tappeto? L'estate incipiente comincia già ad allentare i freni inibitori e a risvegliare una irrefrenabile voglia di manifestarsi anche in grigioni che d'inverno sprofondano sotto il peso di maglietta della salute-camicia-gilet-cravatta-giacca. A Marc Jacobs (che eppure era divino in gonna nera...), più che l'abituccio fucsia in sè, non si perdonò quel ciuffo di peli che sbucava dall'abbottonatura, simbolo universale di ciò che non va mostrato, in nessuna condizione, climatica o di tortura. È la scusa che applica il comune mortale maschile: fa caldo, la camicia chiusa mi soffoca. Ecco allora petti villosi, sale e pepe, in bella mostra, impudichi quanto cosce, gambe e piedi in libertà. Abbottonatevi, per favore.
@boria_a

Marc Jacobs al gala del Met


lunedì 28 maggio 2012

IL LIBRO

E Pirandello scriveva a Irene Brin: "Mariù, farai carriera"

Irene Brin, nata nel 1911 e morta nel 1969: la apprezzavano Pirandello e Longanesi, ha nobilitato le cronache di costume

Quando scrive i suoi primi articoli, a vent'anni, riceve un biglietto: «Brava Mariù, farai carriera», firmato Luigi Pirandello. Mariù è, al secolo, Maria Vittoria Rossi, classe 1911, figlia di Vincenzo, alto ufficiale dell'esercito, e di Maria Pia Luzzatto, ebrea nata a Vienna, coltissima ed elegante.

Mariù è un diminutivo di famiglia, ma anche uno dei tanti nom de plume con cui firmerà migliaia di articoli. Marlene, Oriane, Maria del Corso, Madame d'O., Cecil Wyndham Alighieri, Geraldine Tron, Contessa Clara e il più famoso, Irene Brin, lo pseudonimo inventato per lei da Leo Longanesi: «Articolo bellissimo, trovato nome. Longanesi».


Il pezzo, che esce su Omnibus, il 19 febbraio 1938, s'intitola "Sera al Florida". È un "cane schiacciato", come all'epoca si chiamano i pezzi di "colore", le cronache di costume che vengono affibbiate agli ultimi arrivati, meglio se donne.
Irene Brin, con quel cognome inventato che la racchiude tutta, che è uno sghiribizzo, un tocco di levità e di grazia in una sillaba, nei "cani schiacciati" diventerà la prima, la più grande, la maestra di tante giornaliste venute dopo. Paolo Poli l'ha inserita nei suoi "Sei brillanti", lo spettacolo del 2006 dedicato a quella sparuta galleria di penne speciali che con pochi tratti, con un aggettivo in apparenza svagato a illuminare l'intera frase, sanno comunicare un'epoca. 


Dalla sua, di penna, sono usciti ritratti, consigli di bon ton, suggerimenti di lettura. E il resoconto quotidiano dell'italietta orba che non si accorgerva del fascismo montante.
Misconosciuta, Irene Brin. Forse per invidia, per supponenza, per lo snobismo (e anche lei era snob, eccome) che è dei salotti letterari e dei giornalisti, ma non solo. Adesso la personalità complessa e inquieta, la donna il cui "camaleontismo sembra non trovar confini in nessuna legge della natura", come disse l'amico Indro Montanelli, viene raccontata dalla giornalista Claudia Fusani in "Mille Mariù" (Castelvecchi, pagg. 278, euro 22), che esce in contemporanea alla riedizione di "Olga a Belgrado", lo stupendo libro da inviata di guerra, nel 1941, al seguito del marito Gaspero del Corso, ufficiale della Compagnia Lanciafiamme (Elliot editore, pagg. 186, euro 16.50).



 
Irene Brin ritratta per Vogue




 

Diceva dei suoi esordi: «Cominciai prestissimo, a Genova, dove mio padre faceva parte di una società marittima. Scrissi un pezzettino, lo spedii al capo-ufficio pubblicità che in quel giorno festeggiava la nascita del dodicesimo maschio. Sarà di buon umore, pensavo, e lui magari si strappava i capelli. Però l'articolo non lo strappò ed apparve. Ben presto tutte le collegiali liguri (o lombarde) si dedicarono ai cani schiacciati...».

Della capacità di questa giovane autodidatta, che la madre aveva ritirato da scuola ancora al ginnasio prevenendo le leggi razziali, che leggeva un libro al giorno, anche nella vasca da bagno, e parlava cinque lingue, si accorge Giovanni Ansaldo, all'epoca caporedattore, poi direttore de "Il Lavoro". Le affida la chiusura dei bagni lungo corso Italia, e il mesto rito dei bagnini che danno l'arrivederci alle signore. Lei firma Marlene ed è una rivoluzione: in quella cronaca acerba, Ansaldo intuisce la capacità di introspezione psicologica, l'attitudine a guardare nelle pieghe della società che cambia. Da allora l'effimero, il superfluo, il costume e i suoi capricci, acquistano diritto di esistenza in un quotidiano politico come "Il Lavoro" e i redattori blasonati si ritrovano a contendere gli spazi ai cani schiacciati.


Nella sua vita breve - muore il 29 maggio 1969, a 58 anni - Irene Brin ha scritto per dodici quotidiani, dal "Lavoro" al "Corriere della Sera" passando per "Il Messaggero", "Il Giornale d'Italia", "Il Mattino" e "La Stampa", ha tenuto rubriche in trenta settimanali, tra cui, oltre a Omnibus, "L'Europeo" e il concupito "Harper's Bazaar". Ha scritto manuali di galateo e pagine di guerra, ha curato centocinquanta traduzioni. Si è inventata nomi e stili, testimoniando, in un minuzioso e accurato diario minimo, trent'anni di vita italiana attraverso salotti, vestiti, vacanze, debolezze e vizi, musica e romanzi. Negli anni del regime fascista non si è occupata di retorica e di leggi razziali, pur con la mamma ebrea, ma ha seguito le donne e la loro modernizzazione, la moda e il tempo libero, attenta a quello che accade dall'estero, siano libri o gelatine, artisti o chirurgia estetica. Sempre curiosa, trasgressiva, cosmopolita e provinciale, una raffinata esteta che non ha avuto paura di essere e passare per semplice.


Con il marito, omosessuale, ha un rapporto sodale e solidale, cementato dalla cultura e dagli interessi artistici. Si conoscono nel febbraio 1935 nel salone dell'hotel Excelsior, in via Veneto a Roma: lei è vestita di lamè bianco, lui le parla di Proust. Si sposano nell'aprile dopo. Insieme aprono in via Sistina la galleria "L'Obelisco", che diventa il baricentro delle avanguardie artistiche europee e d'oltreoceano, esponendo per la prima volta sconosciuti Burri, Matta, Vespignani, Music, Afro e artisti ospiti come Bacon, Picasso, Kandinsky, Dalì. Arte e moda si mescolano, l'haute couture trova spazio tra quadri e statue.


Speciale il suo rapporto con Longanesi, di cui si rivendica un'«invenzione». «So adesso - confessa nel 1957 - che il primo segno di stima me lo diede con le prime violente correzioni. Era una biografia della Duse che mi tornò zebrata di cancellature e rimproveri... Eravamo appena all'inizio della mia educazione». L'Arcitaliano le spiega politica e letteratura, arredamento e religione, cultura e società. Le corregge lo stile, la colloca nei diversi ruoli e nomi (anche Adelina, con cui firma certe cronache di massaia): «Longanesi non si limitava a rewrite i miei articoli, ma me. Scoprivo di non aver mai saputo, nè visto, nè inteso niente».
Camilla Cederna, che non l'amava, nel 1992 riconosce che bastò quell'iniziale mezza colonnina sul "Lavoro" per fare di Irene Brin "la prima giornalista italiana", in un'epoca in cui la donna, tuttalpiù, "dalle pagine di violacei rotocalchi, indirizzava le lettrici sul taffetà celeste per una bella coperta da letto". «Fu la prima - scrive Cederna - a intuire e a bollare, con penosa amarezza, e soprattutto a scriverne, le meschinerie delle mezze calze, degli arrampicatori, i piccoli giochi d'equilibrio degli arrivisti, le ipocrisie e le stupide astuzie del generone. Era modesta, aveva una grande dignità, era discretissima, non si rendeva conto di essere stata, nel giornalismo italiano, non solo femminile, una maestra, un esempio, una pioniera. Nessuno l'ha mai sentita parlare di sé, altro che sorvolando o ridendo».
Lo fece anche la notte prima di morire: «Devo fare un viaggio».
twitter@boria_a

"Mille Mariù" di Claudia Fusani

martedì 15 maggio 2012

MODA & MODI

Col Claudine

La generazione negli "anta" l'ha indossato almeno una volta, ai tempi in cui alle "elementari" si andava con colletto bianco e fiocco. Di quegli anni conserva il nome, "col Claudine", in onore alla birichina scolaretta inventata dalla scrittrice francese Colette, e il tocco di malizia che lo rendeva l'unico accessorio con cui giocare e sbizzarrirsi (grande, piccolo, ricamato, bucherellato?) in una scuola ordinata di grembiuli neri e molte regole.

Anzi: la monelleria è aumentata e ha virato sul sexy, così che il collettino con le punte tonde, da collegiale, si porta oggi sulla pelle nuda come una collana, si copre di paillettes o di pietre dure, come un collare fetish, movimenta quei cachemerini bon ton con un tocco di trasgressione, quasi suggerisse "attenzione, non tutto è come sembra...". Ha fatto la sua figura anche in quell'autentica galleria degli orrori da indossare che è stata la serata di gala al Metropolitan di New York per l'apertura della mostra sulle "conversazioni impossibili" tra Schiaparelli e Prada, grande evento modaiolo che, quanto a red carpet, batte addirittura gli Oscar: tra spacchi ombelicali e strascichi di piume, spiccava l'attrice Mia Wasikowska in un Prada castigatissimo amaranto, con la mezza manica e il collo "Claudine" in versione "appuntita", nero e tempestato di pietre, che rendeva il tutto monacale e lievemente perverso.

Pioniera del genere è stata la presentatrice inglese Alexa Chung, autentica trend setter, che sfoggia il suo collo Peter Pan (così lo chiamano gli anglosassoni in riferimento al costume di una delle prime rappresentazioni del personaggio) su vestiti a fiori e pulloverini, con l'effetto di svecchiare il già visto e di ingentilire anche un orlo troppo corto... Quanto a Natalie Portman, che nel film "Black Swan" ha dimostrato di saper confondere bene innocenza e ambiguità, eccola in un nonnulla firmato Vionnet, con busto e spalle in trasparenza e un collettino modestissimo di paillettes dorate.


Senza cadere in griffe storiche a tutti i costi, molti giovani designer (date un'occhiata ai siti dei milanesi Tshirterie o delle triestine The complotto) propongono i colli "Claudine" versione accessorio: di plastica colorata, da mettere su una semplice t-shirt, di velluto e tessuto con pietre e perle, per elettrizzare il vecchio little black dress, di pelle, anche di merletto, come alle origini, prezioso su beige, grigi, rosa. Un accessorio fuori dal tempo e senza tempo.
twitter@boria_a


Natalie Portman in Vionnet



martedì 1 maggio 2012

MODA & MODI:  la chioma turchina

Bellissimi quelli della Maria Antonietta fashion-addicted nel film di Sofia Coppola. Capelli rosa glassa, una testa come una gigantesca cupcake, una voluta di zucchero filato, spudoratamente artificiale. O lavanda, corallo, verde pisello come le chiome delle sirene che baciano lo spaesato Robin Williams in "Hook", filamenti dalle sfumature delle alghe o delle creature marine. Dal cinema ai palcoscenici il salto è stato breve, ed ecco Lady Gaga con il cranio trasformato in una big bubble fucsia. O Katy Perry che la tavolozza del crine pazzo se l'è passata da cima a fondo, e perfino strapazzando la sua di capigliatura, dall'azzurro Puffo, al cenere, al rosso bambola Furga, per sconfinare in quel rosa intirizzito che di solito assume la biancheria dopo la varechina. In mezzo, tra Maria Antonietta e le performer di oggi, c'è stata una lunga stagione di ragazze protestatarie, con le loro pennellate color chewing-gum sulle teste rasoiate.
Adesso che anche Katy si è riconvertita al biondo umano, forse prima della soluzione finale, e che per la collega Pink i capelli dell'omonimo colore restano un confuso ricordo degli inizi di carriera, ecco che il pastello invade il Vecchio Continente. In passerella è stato tutto un fiorire di tinte improbabili, anice, zucca, cobalto, geranio, fata turchina, rosso e blu come la Cortellesi dell'acqua Rocchetta. Anche quelle sfumature azzurrognole che qualche anno fa adottavano le signore in età impaurite sia dal loro bianco che dalla tinta della parrucchiera (la Meryl Streep de "Il diavolo veste Prada", con il power ghiaccio chic, e anche Christine Lagarde, erano di là da venire...) si sono trovate improvvisamente alla ribalta, rivalutate nell'estate dei crazy hair.
Se è vero che con i capelli diciamo tanto di noi, che cosa mai vorremo comunicare sfinendoli con una decolorazione selvaggia, prima di immergerli in una tintura rosa che per settimane lascia graziose tracce su cuscini, magliette, colli e che ad ogni sciacquo si perde nello scarico della doccia? Trasgressione e voglia di osare o piuttosto incertezza, insicurezza, smarrimento, confusione? Nel dubbio, è meglio infilare la testa in una parrucca da Barbie (ce n'è di graziosissime e persino "naturalissime") o farsi una, e una sola, extension elettrizzante. Perchè i capelli blu, quelli che rimangono attaccati, danno alla testa.
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            La popstar Katy Perry, fata turchina