giovedì 12 aprile 2012

MODA & MODI: in pigiama da passeggio

Dal pigiama palazzo, al pigiama party. Dalla principessa Irene Galitzine alla cantante Rihanna, che di principesco non ha nemmeno la voce. In questa stagione tecnicamente depressa, la moda fa di tutto per tirarci su il morale e semplificarci la vita, proponendoci una serie di "mise" veloci, pratiche, discrete, così da non distogliere la nostra concentrazione dagli assilli del presente, o forse proprio per farlo. Che c'è di più facile e svelto che uscire di casa al mattino quasi come abbiamo dormito, con un paio di pantaloni morbidi e una casacca monopetto, cinturata in vita? Il fresco insieme, floreale o rigato, è presentato trionfalmente come una ri-edizione di quello che, inventato da Galitzine negli anni Sessanta, Diana Vreeland definì "pigiama palazzo", avendo davanti a sè una serie di principesse autentiche, abbandonate su aristocratici divani in pantaloni ampi di seta e giacca dalle maniche svasate, in attesa che si porgesse loro un qualche alcolico pregiato. Oggi il pigiama "da passeggio", edizione 2012, ha inanellato una serie di testimonial eccellenti, le "principesse" ai tempi dei social network e della fast-fashion, attrici e cantanti soprattutto, che zampettano in occasioni pubbliche o su fantomatici red carpet in teneri completini ramage di cui, a essere generosi, si può dire soltanto che hanno confuso il giorno con la notte.
Stella McCartney ha sfoggiato il pigiamone, a disegni cachemire, addirittura alla presentazione delle divise della nazionale inglese per le Olimpiadi, di suo design, issando pantaloni svolazzanti e casacca comoda su un paio di piattaforme ragguardevoli. Sui blog si è scatenato il dibattito: più brutta la bandiera britannica piantata, "in posizione ginecologica" sulle mutandine delle velociste o l'effetto "appena scesa dal letto" ma coi tacchi della stilista?
Secondo l'autorevole "Guardian" accessori e complementi sono indispensabili per indossare il pigiama da giorno con naturalezza, in particolare tacchi e orecchini che gli tolgono l'aria "sbattuta" e sonnolenta. Le sue fan ribattono: indumento democratico, non solo perchè i grandi magazzini l'hanno subito adottato, ma perchè non si cura di età e giro vita. Due buonissime ragioni, anzi tre, per ignorarlo.
@boria_a
Stella McCartney alla presentazione delle divise per gli olimpionici inglesi

martedì 3 aprile 2012

MODA & MODI

Scendere dai tacchi

«Mi sembra che un tacco 12 di Jimmy Choo sia molto meno sexy degli stiletto di Marilyn Monroe negli anni '50. I sandali vertiginosi di oggi sono troppo alti, con troppe fibbie, lacci, stringhe: con scarpe così si può camminare solo sul set di un film porno". Lo dice Tim Edwards, sociologo dell'Università di Leicester, che nel suo recentissimo "La moda - Concetti, pratiche, politica" (Einaudi) si sbalordisce della corsa al rialzo del tacco paragonandola a quella del grattacielo più alto di Dubai.

Giorgia Caovilla, invece, figlia di tanto padre, con un cognome che solo a pronunciarlo evoca immagini di stiletto di cui non si vede la fine, ha tagliato letteralmente i ponti, e i tacchi, con la tradizione di famiglia. E, zac, dai dodici e oltre, è passata alla metà, tra i cinque e i sette, creando una sua linea, "O Jour" dove la mezza misura non ha niente di negativo o di incompiuto, anzi, è un'esplosione di colori, una ricerca di dettagli preziosi, un mix di eleganza, versatilità e, finalmente, praticità, benessere, camminabilità.


Era ora di farla finita con le scarpe "scopami" (cito ancora Edwards) e di scendere alla misura "kitten" (stiletto gattesco, baby, in miniatura, inventato appunto negli anni '50) sinonimo fino a qualche stagione fa di zitellaggio, di passetti dimessi e indecisi, molto poco arrapanti, almeno nella visione maschiocentrica che è quella secondo cui quanti più centimetri ci sono sotto i piedi, tanto maggiore è la seduttività della signora. Adesso che si rintracciano parole perdute come grazia, discrezione, misura, sobrietà, e la moda, complice l'infatuazione guidata dalla tv e dalle sue "mad women", disegna donne con tinte meno brutali, le "stilettate" si ritrovano improvvisamente addosso un'aria un po' stantia da pantere di cinepanettone, tutt'uno con l'armamentario animalier, le griffe espanse ed esibite quanto le scollature.


E poi diciamolo: è un luogo comune che il tacco cinque si porta solo con calze color brodo e kilt d'annata. Al contrario, zeppe e tacchi a due cifre spesso accentuano il disequilibrio delle alte e la zampettosità delle bassine, in genere l'andatura zoccolante. Non sarà un caso che una giovane imprenditrice, una donna si suppone normalmente indaffarata, abbia tagliato in due i tacchi di famiglia, mettendo d'accordo tre "p", proporzioni, preziosità e personalità. Manolo e Louboutin si adeguano al ribasso, un po' in affanno. Come chi rincorre sui tacchi.
@boria_a

O Jour di Giorgia Caovilla

lunedì 2 aprile 2012

IL PERSONAGGIO

 I consigli di Pedro Rodriguez editi da Add
«Essere elegante non è facile. L'eleganza richiede uno spirito attento, una conoscenza raffinata delle sfumature e persino un certo intuito divinatorio per anticipare il destino di ogni novità che si fa largo, una personalità ferma e attiva che nell'adottare la moda non diventi mai volgare e gregaria». Chi l'ha detto, Giorgio Armani? No. «I cosiddetti accessori possono, da soli, rovinare, ma non costruire l'insieme. Condiscono il piatto, ma non lo sostituiscono». Una frase di Frida Giannini? Neanche. «Diffidiamo dei bottoni che non abbottonano alcunchè, dei nastri che non legano. Eleganza, tra le altre cose, significa giocare pulito». Massima di Jil Sander? Macchè.
Eppure, se non fosse per la forma un filino pomposa che aiuta a circostanziare un'epoca, le tre citazioni potrebbero essere di uno stilista o designer contemporaneo e la più smaliziata delle fashioniste non esiterebbe a sottoscriverle. L'autore di queste riflessioni, invece, è uno stilista misconosciuto ai più, Pedro Rodríguez, uno dei padri della couture spagnola, nato povero a Valencia nel 1895 e morto nel 1990, nel pieno della stagione della moda esagerata, accessoriata e sgargiante.
Cominciò a cucire a dieci anni, rispondendo all'annuncio pubblicato su un giornale dalla sartoria Trullás di Barcellona, che cercava un apprendista. Quarant'anni dopo dal suo atelier uscivano creazioni destinate ad Ava Gardner, Audrey Hepburn e Kim Novak. In mezzo, una vita consacrata al sogno di rendere le donne belle, e un grande amore per il suo paese, che non volle abbandonare definitivamente nemmeno nei momenti più bui, rinunciando alle offerte e alla ribalta di Parigi, Londra a New York. Balenciaga gli era amico, in parte rivale, e lo ammirava, ma non capì questa scelta, che privò la sua moda di una platea internazionale.
Oltre a splendide creazioni ricamate, a tailleur scolpiti e ad abiti drappeggiati, Pedro Rodriguez ha lasciato di più. Pensieri, annotazioni, considerazioni sul vestire e il suo galateo di straordinaria modernità. Li aveva raccolti in un volumetto intitolato "Para comprender la Moda", pubblicato nel 1945, in piena dittatura franchista, e mai arrivato in Italia, di cui anche in Spagna sono conservate poche copie in biblioteche e archivi di storia del costume. Oggi questi suggerimenti di eleganza sono stati riscoperti, anzi "scoperti", da Add editore che li ripropone con lo stesso titolo (pagg. 91, 12 euro) in un libriccino-chicca, non solo da appassionati. Riflessioni e appunti che si leggono con autentico stupore, per la forma, la discrezione, la pennellata psicologica, l'intuito, il tratto, così diversi dagli urlati manuali di buon gusto, dagli istant book su come imparare a vestirsi che fanno il paio con i programmi dove i tele-esperti demoliscono e ricostruiscono un guardaroba nel giro di pochi minuti. Perchè il couturier spagnolo non dà lezioni, ma osserva e analizza, talvolta con un'ironia sottile come uno dei suoi ricami.
 Un modello firmato Rodriguez (@Museo del Traje Madrid)
La moda - scrive - è la più piacevole e insieme la meno evitabile delle tirannie. Per Pedro, bambino, era stata autentica folgorazione: una sposa che entrava in chiesa al braccio del padre gli aveva svelato il destino. Acquisita manualità e tecnica in vari laboratori, riuscì a entrare a La Rabasseda, una delle più importanti sartorie di Barcellona, dove cominciò a capire le proporzioni del corpo femminile ma soprattutto la psicologia che guida le donne nella scelta di un vestito. Nel 1919, quando sposò Ana Marià, sarta affermata, aprì il primo atelier col suo nome, dieci anni dopo l'Esposizione universale di Barcellona consacrava il successo dei suoi modelli art decò.
Non è difficile immaginare questo gentiluomo d'altri tempi mentre nell'atelier di passeig de Gracìa, una delle vie delle shopping elegante della città, mette nero su bianco un pensiero sul senso della moda, che pur mutevole e capricciosa, «realizza il miracolo di far sembrare un'unica persona diversa ogni stagione, conferendole un fascino che varia in modo incessante, ma che proprio per tale ragione risulta duraturo, interminabile». Perchè mai, altrimenti, le donne la seguirebbero «con tanta costanza e ardimento»? Perchè, registra con lungimiranza, senza lo strazio della chirurgia o la tirannia delle diete, «la moda insegna l'arte di giocare a nascondino con il proprio corpo, evitando che la persona, a furia di essere immutabile, finisca per risultare insipida o priva di interesse».
Nella crisi economica del dopoguerra e negli anni del franchismo, non fu facile per Rodríguez tenere in vita lavoro e passione. Lui non aveva dubbi: «La moda è una regina che non abdica» e i suoi "sudditi" non la abbandonano.
La sartoria di Barcellona gli era stata confiscata dai repubblicani per trasformarla in un laboratorio di biancheria intima maschile, ma lo stilista, dopo un breve esilio in Italia e in Francia, ne aveva avviata un'altra a San Sebastián, dove era rientrato con moglie e quattro figli. Quando poi Franco penetrò in Catalogna, ritornò in possesso del suo atelier e negli stessi anni aprì a Madrid, radicando la griffe nei tre centri più importanti per la couture spagnola.
Il periodo d'oro fu negli anni '50 quando le creazioni firmate Rodríguez varcarono i confini della Spagna per sfilare sulle passerelle di tutto il mondo, incantando le attrici di Hollywood. Alle dive suggeriva che l'eleganza è difficile e preziosa insieme. Difficile, «perchè bisogna guardarsi e subito giudicarsi». Preziosa, perchè richiede personalità. E quella vera «non è solo questione di guardaroba: ha a che fare con l'anima».
Sfogliando le sue pagine, s'intuisce chi è la signora che ama vestire: negli "anta" («... l'eleganza non è attributo della giovinezza, bensì conquista della maturità»), sicura delle sue scelte (non come le "inglesi frivole", che vanno in sartoria a gruppi, trasformando in una piacevole gita quello che dovrebbe essere uno "studio serio"...), che si conosce a fondo e sa valorizzarsi, nei suoi pregi e difetti, che "procede per eliminazioni".
Nel libro la chiama Claude. Determinata come uno stratega, non farà mai come la spagnola cicciona e corta di gambe che, impugnando un abito a tubo, costringe la vendeuse alla squisita circonlocuzione: «Non compri quel vestito signora, le invecchia la schiena!». Claude «...è la cliente, tra mille, che non si illude di poter acquistare la taglia dell'indossatrice. E del resto non saprebbe che farsene: quelle ragazze troppo alte, con gambe lunghe come trampolieri, coi loro gesti meccanici stanno alla sua grazia come l'insegna di un negozio sta al prodotto in vendita, come un fiore di stoppa sta al fiore vero...». D'antan e consolatorio.
@boria_a

Pedro Rodriguez nel suo atelier (foto Murua)