domenica 17 dicembre 2023

ARTE

Arturo Nathan, un dipinto ricompare dopo 90 anni

Era conservato in una cantina

 


 


Aveva in casa un dipinto di Arturo Nathan e non sapeva di possedere un piccolo tesoro. Di più: un’opera che da tempo si considerava dispersa. E che ha passato gli ultimi vent’anni in una cantina. Si intitola “L’onda”, anno 1932, un olio su compensato esposto da Nathan, un’unica volta, alla VIII Mostra d’Arte del Sindacato Interprovinciale Fascista delle Arti della Venezia Giulia, tenutasi nel Padiglione Municipale di Trieste tra giugno e luglio 1934, e pubblicata sul catalogo dell’esposizione. Da questo momento se ne perdono le tracce, quasi novant’anni fa.


Il quadro viene citato su tre numeri del Messaggero Veneto del settembre 1948, dove Cesare Sofianopulo scrive della partecipazione di Nathan e Vittorio Bolaffio alla Biennale, poi nel catalogo della mostra tenutasi alla Galleria dei Greci a Roma tra novembre e dicembre 1990, in entrambi i casi senza illustrazione. Nella monografia su Nathan di Enrico Lucchese per la Collana d’Arte della Fondazione CrTrieste del 2009 il dipinto viene riprodotto in bianco e nero ma senza indicazioni di tecnica e dimensioni. Sotto il quadro si legge: ubicazione ignota.


“L’onda” oggi è ricomparsa. E sarà venduta all’incanto martedì 19 dicembre 2023 a Milano, alla casa d’aste “Il Ponte”, partendo da una valutazione di 25-30 mila euro, la più alta tra quelle delle 150 opere della tornata, che offre uno scorcio sulla produzione artistica a cavallo fra i due secoli. Saranno battuti quadri di due maestri dell’impressionismo come Camille Pissarro e Alfred Sisley, del russo Maljavin, del polacco Wojciech Weiss, oltre agli italiani Angelo Morbelli, Achille Befani Formis, Ettore Tito.


La storia del ritrovamento del quadro di Nathan ha dell’incredibile. Lo racconta Elio Gaetano, a capo del dipartimento di Dipinti e Scultura del XIX e XX secolo della casa d’aste, che ha assicurato a “Il Ponte” la vendita dell’opera lavorando con la sua assistente Sofia Mattachini. «Veniamo contattati spesso dai clienti sia per alienazioni che per il servizio di valutazione gratuita - dice Gaetano -. In questo caso ho ricevuto una serie di fotografie di quadri, tra cui c’era “L’onda”. Quando l’abbiamo vista siamo rimasti gelati. Personalmente mi sono occupato della dispersione di beni di famiglie ebree dopo le leggi razziali, ho visto la firma, ho riconosciuto Nathan. E dalla monografia di Lucchese ne ho avuto conferma. Era vicino ad altri quadri privi di importanza, quasi da mercatino. Il proprietario, dalla Lombardia, non aveva consapevolezza del pittore e del valore dell’opera. Nel frattempo - aggiunge Gaetano - la fotografia ha cominciato a circolare, erano infatti stati contattati altri possibili venditori. Ma noi abbiamo capito subito di che cosa si trattava e alla fine con grande soddisfazione siamo riusciti ad assicurarcela. La riscoperta de “L’onda” è un contributo importante agli studi monografici sul pittore triestino. Naturalmente la valutazione che abbiamo assegnato è da asta, per suscitare il maggiore interesse possibile sul dipinto».


L’onda”, olio su compensato firmato e datato in basso a destra, reca sul retro il nome di Arturo Nathan, l’indicazione dell’indirizzo dell’abitazione-studio di via San Francesco 12, Trieste, e il titolo. Sotto, cancellato con un taglio, compare un probabile titolo antecedente, “Spiaggia”. C’è anche l’indicazione della provenienza: Daisy Nathan Margadonna, la sorella di Arturo.

 


 


Per vent’anni il quadro è rimasto in una cantina e il suo stato era pessimo. «Abbiamo provveduto a restaurarlo - spiega Gaetano - consolidando la pittura che veniva via e il compensato. Ora possiamo dire che è in buone condizioni. Fa certamente parte del lotto di opere che Carlo Sbisà inviò, a Roma, dopo i bombardamenti, a Daisy Margadonna. Alla fine della seconda guerra mondiale, la sorella di Nathan vendette delle opere, tra cui “L’onda”. Impossibile risalire ai passaggi che ha fatto da allora, oggi si trova in Lombardia, ricevuta in eredità dall’attuale proprietario».


“L’onda” - dipinto enigmatico, tra paesaggio marino e psichico, come recita la scheda dell’opera - si può vedere dal vivo ancora oggi, nella sede de “Il Ponte” in via Pontaccio 12 a Milano (10-13, 14-18), oltre che sul catalogo online della casa d’aste.


Sembra che Nathan restituisca un frammento alla volta i pezzi mancanti della sua esistenza e della sua esperienza pittorica. Appena un mese fa è stata messa online l’immagine della tomba dell’artista triestino - morto nell’ospedale del campo di Biberach il 25 novembre 1944, a 53 anni - la cui ubicazione era anch’essa sconosciuta. Nathan è sepolto nel cimitero ebraico di Laupheim, in Germania, fila nord 29, lapide 10, come ha testimoniato il conservatore del camposanto, Michael Schick, che non aveva idea di chi fosse il defunto di cui stava curando il sepolcro. Dal 10 gennaio 1946, quando le spoglie di Nathan furono traslate a Laupheim dal cimitero evangelico, nessuno ha mai chiesto informazioni su di lui e sulla sua tomba.


Oggi, da una cantina spunta un dipinto di cui si aveva traccia solo cartacea. «È una perfetta espressione della fase più matura del’artista. Può essere avvicinato a “La sentinella” e “Il forte”, i cui soggetti militari sono probabilmente ispirati dalla lettura delle gesta di Napoleone» si legge nella scheda preparata dagli esperti de “Il Ponte”. I cannoni distrutti portati a riva dalla tempesta, il cielo incombente negli stessi toni della spiaggia: una sintesi efficace degli elementi emblematici della pittura di Nathan, di un travaglio interiore che si fa universale.

lunedì 11 dicembre 2023

MODA & MODI

Il rosso che fa rumore

 

Max Mara, autunno inverno 2023/2024

 

 La modella Liya Kebede avvolta da un fiammante abito di lana sulla copertina di dicembre di Vogue Italia. Poche pagine dopo, le lunghe gambe di Kaia Gerber, distesa su un divano nello scatto di Steven Meisel, sfuggono da un mini abito di Valentino, con pelliccia abbinata, entrambi nella nuance a cui lo stilista ha dato il nome. Da un’altra copertina, quella dell’ultimo 7, l’attrice Elizabeth Debicki, la lady Diana di The Crown, in pantaloni e pull ciliegia, seduta su una sedia di identico colore, fissa l’obiettivo simulando con impressionante verosimiglianza una delle espressioni della principessa.


Il rosso è dappertutto. Sulle riviste e nelle vetrine, non soltanto quelle prevedibili dell’intimo festaiolo. È un rosso totale, non un accenno: si veste dalla testa ai piedi. Forte, imperativo. Ha conquistato anche la Scala nonostante il perentorio anatema di Lella Curiel, la couturier triestina delle prime di Sant’Ambrogio, che ha messo in guardia le signore dal preferire il colore che le farebbe confondere con poltrone e arredi del teatro e quindi sparire, o peggio far tappezzeria.


Che fosse una delle tinte di tendenza per l’inverno 2023-2024 si sapeva da tempo, anticipato sulle passerelle di tutti gli stilisti in una gamma di sfumature che si arricchisce di definizioni, prima fra tutte il rosso Ferrari del film che esce a giorni con Adam Driver. Tomato, lipstick, ruggine, barolo (ma i riferimenti enologici sono molti, ci sono anche l’amarone, il chianti...) per vestiti, tailleur, pellicce, cappotti che bucano i pastosi e soporiferi beige e grigi del quiet luxury, il lusso sotto traccia, mai urlato. Questo rosso invece urla. Ha cancellato il fastidio legato alla lingerie di Capodanno, con tutto il suo scontato e usurato immaginario di aspettative e promesse beneauguranti. Quelle vetrine sempre uguali, anno dopo anno, tra slippini e bustier con pizzi e boxer allusivi, da indossare una volta sola, non per tradizione ma per l’insofferenza verso un acquisto d’impeto, che dopo poche ore è già tristemente datato.


Il rosso di questo scorcio d’anno fa venire in mente quanto scrive Riccardo Falcinelli in Cromorama (Einaudi): “nel mondo contemporaneo il rosso, spiccando rispetto al circostante, è prima di tutto una maniera importante di occupare lo spazio, una presenza egocentrica e volitiva. Più che un significato, è un tratto caratteriale. La Ferrari, il Campari, la Coca-Cola o gli estintori antincendio sono rossi perché il loro ruolo è distinguersi con forza”.


Rosso di consapevolezza, di testimonianza ma anche di rivolta. È stato pensato molti mesi fa, ma ha incrociato una fase planetaria delicata e l’urgenza della cronaca. Così ha perso ogni stucchevolezza festivaliera, per trasmettere piuttosto energia, determinazione, sentimenti di unione e solidarietà trasversali ai sessi, alle generazioni. Un rosso che dice: ho fiducia in me e nelle mie forze, ci sono. Un rosso che fa rumore.

sabato 2 dicembre 2023

IL PERSONAGGIO

Arturo Nathan, scoperta a Laupheim la tomba del pittore triestino morto nel 1944



 

Si aggiunge un tassello alla biografia del pittore triestino Arturo Nathan, il “contemplatore solitario”, come lo definì la mostra del 2022 al Mart di Rovereto, tappa importante nella sua più recente riscoperta. Nathan morì il 25 novembre 1944, a 53 anni, nell’ospedale del campo di Biberach nel Baden-Württemberg, dove era stato trasportato in treno dal lager di Bergen-Belsen. Il pittore era arrivato il 17 novembre minato nel fisico, spirò pochi giorni dopo per un “avvelenamento del sangue”, come si legge negli elenchi del campo. Ma che fine fecero le sue spoglie? Dov’è la sua tomba? Neanche l’articolata biografia firmata da Enrico Lucchese nel 2009 per la Collana d’Arte della Fondazione CRTrieste ne riporta un’immagine (e anche come data di morte, tutt’ora incerta, nel libro si indica il 20 novembre).


Arturo Nathan è sepolto nel piccolo cimitero ebraico di Laupheim. Oggi, dopo quasi ottant’anni, circola online una fotografia della sua tomba. Nella fila nord 29 di Laupheim, sulla lapide numero 10, c’è un’iscrizione in inglese: “In memoria di Arthur Nathan, 53 anni, che morì nel campo di internamento civile britannico Biberach il 25 Novembre 1944”. L’immagine è stata pubblicata da Michael Schick, conservatore del camposanto, a corredo di un suo articolo dedicato al pittore triestino. A sua volta uno studioso di storia tedesco, Reinhold Adler, di Pfullingen, impegnato in una ricerca sul campo di Biberach, l’ha trasmessa ad Alessandro Rosada della Galleria Torbandena di Trieste, da sempre attiva nella tutela e promozione dell’opera di Nathan. Dell’artista, in questi giorni, si può ammirare in galleria “Costa con rovine”, anno 1932, nell’ambito della mostra “Masters”, accanto a un taglio di Fontana, un paesaggio di Morandi del 1913, a una “Danseuse” di Severini.

 

Arturo Nathan sull'Harley Davidson ritratto dall'amico Carlo Sbisà: "Il motociclista", 1932 (già Collezione Lanfranchi, Milano)

 

 «Non sapevo nulla di Nathan - dice Schick - ma quando Adler mi ha segnalato il suo nome ho fatto delle ricerche e sono rimasto sopraffatto dalla scoperta di quale personalità sia sepolta a Laupheim. E sono orgoglioso che, come custode del cimitero ebraico, mi sia permesso occuparmi della sua tomba. Finora non abbiamo avuto contatti con persone interessate a Nathan. Qualche anno fa, forse, c’è stata una richiesta al nostro museo, ma nessuno si è reso conto che si trattava di un artista importante».


Com’era arrivato Nathan a Biberach? Nell’aprile 1943 le SS crearono un altro campo nella parte sud di Bergen-Belsen. Era riservato a gruppi di ebrei che SS e Ministero degli Esteri intendevano scambiare con prigionieri tedeschi internati all’estero, o con valuta straniera e merci, e che quindi avevano salva la vita.
Per gli scambi venivano scelti ebrei in possesso di documenti ufficiali rilasciati dall’autorità britannica, o cittadini di stati occidentali nemici dei nazisti o che avessero ricoperto alte cariche nelle organizzazioni ebraiche. Nathan aveva anche la nazionalità inglese, perchè inglese era suo padre Jacob, sposato con la triestina Alice Luzzatto.
Le SS avevano organizzato campi separati per i prigionieri da scambiare: il Campo Stella per gli olandesi, il Campo Ungheria per gli ungheresi, il Campo Speciale per gli ebrei polacchi e il Campo Neutrale per i cittadini di stati neutrali. Secondo i numeri forniti da Schick, da luglio 1943 a dicembre ’44, almeno 14.600 ebrei furono trasportati nel campo di scambio di Bergen-Belsen, tra cui 2.750 bambini e ragazzi. I cancelli si aprirono solo per 2560 di loro.

 

"Pomeriggio d'autunno", 1925 (Courtesy Galleria Torbandena Trieste)

 


A Bergen-Belsen non c’erano camere a gas, ma le condizioni di vita erano terribili e i prigionieri morivano a migliaia. Al campo di scambio si sopravviveva: gli internati potevano portare un bagaglio personale, vestire abiti civili e, di nascosto, praticare il loro culto. Era un campo per famiglie, non per persone singole. Questo potrebbe spiegare la presenza negli elenchi di Jeannette Nathan, erroneamente indicata nell’articolo di Schick come la moglie di Arturo. Jeannette, nata a Londra da genitori italiani, Enrico e Carolina Piazza, di dieci anni più vecchia di “Arti”, era stata internata a Fossoli, vicino a Carpi, il 29 ottobre 1943. Anche Nathan passò di là, proveniente dal confino nelle Marche, prima a Offida poi a Falerone, dove restò fino l’8 settembre 1943, quando fu deportato dalle truppe di occupazione tedesche. I due si dichiararono coniugi ai nazisti per evitare l’eliminazione immediata una volta entrati nel lager in Germania. A Bergen-Belsen furono trasportati insieme a un gruppo di ebrei con passaporto britannico arrestati dagli italiani a Tripoli e Bengasi e poi passati nei campi di transito in Italia. Tutti soffrivano di malattie infettive agli occhi e di ulcere.

 

"Rupi vulcaniche", 1933, Collezione privata

 


Nel gennaio 1945, grazie alla mediazione della Svizzera, era previsto uno scambio tra prigionieri tedeschi e americani. Trecentouno ebrei di Bergen-Belsen, tra cui Nathan e le famiglie di Lazar Schönberg e John Hasenberg, furono caricati su un treno della Croce Rossa diretto a Costanza, città individuata per la consegna degli americani. Il treno si fermò a Biberach, dove fu scaricato il corpo di John Hasenberg, morto sul convoglio. Quaranta prigionieri vennero fatti scendere e portati nel campo Lindele, mentre il loro posto fu preso da quarantadue americani destinati allo scambio. La tappa successiva fu Ravensburg. Stessa procedura: salirono prigionieri americani e altri ebrei dovettero abbandonare il treno, per essere trasferiti in caserma a Weingarten e il giorno dopo al campo Lindele di Biberach, che dal ’42 accoglieva prigionieri con documenti britannici.
Nathan vi fu lasciato il 17 novembre 1944. Otto giorni dopo moriva di stenti e della cancrena che gli aveva divorato la gamba. Il 28 novembre trovò sepoltura nel cimitero evangelico. Fu Jeannette a comunicare alla sorella Daisy Nathan Margadonna, a Roma, la morte di Arturo: lo dice lei stessa al Piccolo in un’intervista di Gabriella Ziani, nell’edizione del 20 settembre ’96. Dopo la guerra, le spoglie dell’artista furono traslate nel cimitero ebraico di Laupheim, dove giacciono dal 10 gennaio 1946. Nella stessa fila in cui si trova la tomba del pittore sono sepolti anche Lazar Schönberg e John Hasenberg, con cui era salito sul treno a Bergen-Belsen.

 

"L'incendiario", 1931, Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo

 

Il Journal of Italian Translation, rivista letteraria di New York, che dedica ogni numero all’approfondimento di un artista italiano, nell’edizione della primavera 2023 pubblica le immagini di quindici opere di Nathan, corredate da una biografia dell’artista firmata da Marilena Pasquali, storica dell’arte e presidente del Centro Studi Giorgio Morandi e da un racconto di Alessandro Rosada, “Nathan nelle città”, tradotto da Anthony Molino. Apre la selezione di immagini “L’esiliato” del 1928, chiude “L’asceta” del 1924: in mezzo una galleria di rupi, frammenti, resti di barche, bastimenti persi in un orizzonte lattiginoso, torri spezzate, come fu spezzata la vita di Nathan all’annuncio delle leggi razziali. E l’“Autoritratto con gli occhi chiusi” del 1925, dietro i quali rimane insondabile il suo mistero.

MODA & MODI

Demna, il re è nudo

Anzi, con l'asciugamano 



 

Genialata o provocazione? Demna (è il Gvasalia direttore creativo di Balenciaga, ma ha vezzosamente abbandonato il cognome anche per marcare le distanze dal fratello Guram, rimasto alla guida dell’ex marchio comune, Vetements) insiste nel suo codice di comunicazione: prendere un oggetto banale, brandizzarlo, e mandarlo in passerella come oggetto del desiderio. È successo con la shopping bag Frakta di Ikea (0,75 centesimi) che in pelle versione Balenciaga svettava a quasi 1700 euro, proprio come la Trash Pouch dell’anno scorso, il sacco dell’immondizia riconvertito in borsa a mano per lo stesso prezzo. E così via di stagione in stagione, con i media che assecondano il gioco e si interrogano sul concetto, anzi sul “concept” sotteso alle crocs col tacco, ai sacchetti di patatine come pochette, alle sneakers distrutte in edizione limitata, il cui modello di punta tocca i 1450 euro.

 L’ultima trovata è la più estrema, senza neanche la foglia di fico della materia prima di pregio. Un asciugamano beige di spugna, due bottoni interni e il logo stampigliato frontalmente, da portare a portafoglio, effetto uomo docciato o che si cambia il costume in spiaggia. È la ”Towel Skirt”, prezzo in pre-order sul sito 695 euro, con l’avvertenza “dry cleaning” che porta l’operazione a livelli sublimi di presa in giro. Appunto: genialata o provocazione? Giornali e riviste online si dividono tra chi pontifica con sprezzo del ridicolo su “Demna che vuole rendere glamour anche la doccia del mattino” e chi riflette sull’abilità del designer georgiano, ora lussuosamente radicato a Zurigo, di denunciare la perversione dei loghi. Insomma, sarebbe una sorta di spavaldo attacco dall’interno del sistema alla clientela esclusiva che può spendere centinaia di euro per un asciugamano logato con le due B a specchio, del tutto uguale a quello replicato per scherzo su Instagram da Ikea Uk per 16 sterline.


Genio o provocatore? Demna sembra piuttosto scollato rispetto al tempo e ai tempi. Dopo che un anno fa l’intero mondo della moda gli ha dato addosso per la campagna pubblicitaria con le borse-orsetto sadomaso sui bambini, ci si aspettava un cambio di linguaggio, anche per non irritare il gruppo del lusso Kering, a cui conti, posizionamento e reputazione del brand certo non sfuggono. Invece, con la gonna in spugna, il designer persevera nell’“ironia da saper cogliere”, come la definiscono molti giornali, mentre i post dei consumatori propendono per la porcheria griffata e la presa in giro (non con le stesse parole).


Non c’è nulla in queste proposte della grazia e dell’ironia di Moschino o di Gaultier, sempre sostenute da taglio e materiali, nulla dell’esigenza di sostenibilità, durata, qualità, riutilizzo che il Covid ci ha lasciato. L’impennata dei prezzi dei beni di lusso va esaurendosi, come l’ansia obnubilata da revenge shopping post-pandemia. Nel ripetersi Demna non trasmette la convinzione di un’idea ma solo la sua mancanza. E la difficoltà a leggere i segnali di un mondo cambiato. Il re è nudo, o con l’asciugamano? 

martedì 14 novembre 2023

MODA & MODI

 Project328, microcapsule di borse gioiello

 



Trecentoventotto passi separano due laboratori nel cuore storico di Trieste, nati entrambi dieci anni fa. Amici, artisti, artigiani, spesso insieme negli appuntamenti espositivi, Rossella Mancini e Matteo Dazzo di Maison Dressage, designer di borse e accessori in pelle nell’atelier di via Donota, e Lodovica Fusco, creatrice di gioielli contemporanei con la sua griffe Collanevrosi in piazzetta Barbacan, hanno deciso di intrecciare i loro mondi per dar vita a un’estetica comune. Pelle nera, ottone placcato oro e perle, elementi diversi per natura, colore, sensazioni tattili, hanno trovato il loro equilibrio in un oggetto prezioso, fatto a mano.

 



È nato così Project328: pochi passi a separare i creativi e un progetto a sei mani ideato insieme, nella scorsa primavera, da cui è uscita una mini mini collezione di due borse, una pochette e una baguette, già presentate lo scorso settembre al Maison Objet di Parigi e a Coterie di New York. Oggi si possono vedere da Combiné in piazzetta Barbacan e in dicembre saranno nella vetrina-mercato di CrafTS, il meglio dell’artigianato artistico triestino, in piazza Ponterosso (oltre che sui rispettivi shop online, collanevrosi.it e maisondressage.com). I primi pezzi hanno convinto il mercato americano, per averli bisogna ordinarli e aspettare il tempo tecnico di un mese, come richiede la produzione manuale, soprattutto per la fusione a cera persa del metallo.

 


 

Riconoscibilissima per il suo minimalismo e il disegno rigoroso, è la struttura in pelle a concia vegetale dei due creativi di Maison Dressage, un brand che da sempre guarda alla precisione e all’eleganza della tradizione equestre per le sue collezioni di borse, bracciali, collane, choker, polsiere. Negli anni si è un po’ perso il gusto fetish degli oggetti, a vantaggio di linee geometriche, pulite, equilibrio tra funzionalità e decoro. Come combinare il nero severo della pelle con le placcature dorate e l’effervescenza delle perle bianche che caratterizzano le collezioni di Lodovica Fusco? Le ispirazioni dei tre designer sembrano andare in direzioni opposte, il rischio di creare un assemblaggio strampalato c’era.

 


 


L’idea è stata un abbraccio tra gli elementi, ispirato ai contrasti della natura. L’ottone è diventato una decorazione sopra la chiusura delle borse, una sorta di fibbia che nel disegno riproduce le screpolature della terra punteggiate dalle perle come sbuffi di schiuma marina. Per un caso fortunato le immagini promozionali della mini collezione sono state realizzate in Islanda, a Litli-Hrùtur, sito dell’eruzione vulcanica dell’agosto scorso, dalla videomaker Giuditta Dalla Torre con la performer Rouge Maudit: un paesaggio che sintetizza anche il senso del progetto dei due brand, contrasto e intreccio. I prezzi sono da oggetto esclusivo, nessuno è uguale a un altro.
 

domenica 12 novembre 2023

LA STORIA

Cade a pezzi la libreria di Saba a Trieste

Appello per salvare "l'antro oscuro" del poeta

 

Fotoservizio di Andrea Lasorte per Il Piccolo di Trieste

 




 

«No, non si può visitare, mi spiace. Ma vi racconto la sua storia». Il gruppo di turisti americani staziona stoicamente sotto una pioggia impietosa davanti alla vecchia saracinesca abbassata al numero 30/b di via San Nicolò. “Libreria antiquaria Umberto Saba” dice la scritta sul vetro a mezzaluna, tenuto insieme da una striscia di nastro adesivo. Chiuso per malattia, recita il post it sulla porta, messo da un commerciante vicino. Volonterosamente la guida turistica cerca di mitigare la delusione dei visitatori, raccontando del vecchio poeta e dei versi scritti dietro quei muri.


È chiusa da cinque mesi la libreria di Saba, da quando il suo proprietario, Mario Cerne, si è ammalato. Un lungo periodo che ha aggravato anche le condizioni del luogo, dei pavimenti, dei soffitti, dei ripiani di legno che corrono fino al soffitto. In alcuni punti sono incurvati, sembrano soccombere sotto il peso dei libri e di cotanta storia dimenticata.

 


 


A improvvisarsi cicerone è l’avvocato Paolo Volli, responsabile del patrimonio immobiliare della Comunità ebraica, proprietaria dell’intero immobile e quindi anche dei muri della libreria. Alza la saracinesca, accende la luce da un vecchio interruttore introvabile dietro la porta d’ingresso, cammina sulle tavole di truciolato compresso messe provvisoriamente a riparare il cedimento di alcuni parchetti a spina di pesce. Da sotto i rattoppi esce una terra spessa, che s’intravede qua e là. Non è facile procedere lungo le stanze, letteralmente manca il terreno sotto i piedi.


La famiglia Volli è legata a Saba da un rapporto antico: il nonno di Paolo, Ugo, avvocato anche lui, con lo studio in via San Nicolò aperto nel 1929 e poi a lungo portato avanti dal padre Enzio, gli raccontava che una parte dei libri della loro biblioteca legale si era salvata dallo scempio dei tedeschi perché Saba aveva dato ricovero ai volumi nella sua libreria, al piano terra dello stesso edificio. Altrimenti avrebbero seguito la triste sorte degli altri, fuoco per riscaldare una casamatta.

 


 


Ora è tempo di ricambiare il favore. E Volli lancia un appello alla città, propone una sottoscrizione pubblica per salvare la libreria di Saba dal suo inarrestabile degrado. Alcuni privati si sono già messi in cordata, ma ne servono molti di più. I lavori dovrebbero partire entro l’anno, per durare circa otto mesi, con ditte e restauratori della città guidati dall’architetto Aulo Guagnini, incaricato dalla Comunità ebraica, lo stesso che ha seguito la nascita del Caffè Sacher di Trieste nel magnifico ex negozio Rosini. La Comunità sta impiegando energie e tempo nella regia dell’operazione, ma interviene anche con un impegno finanziario.

 


 

La cifra del preventivo è importante, centodiecimila euro salvo sorprese, che probabilmente non mancheranno. E bisogna muoversi tra mille cautele e pastoie: su tutto l’immobile insiste un vincolo paesaggistico e storico, sulla libreria quello di studio d’autore, i settecento volumi con la sigla manoscritta di Saba e i suoi cataloghi sono intoccabili. Manca un’archiviazione dei volumi, al punto che non si sa nemmeno di preciso quale possa essere il valore “commerciale” dell’azienda. Accanto ai libri antiquari in più lingue, alle “Poesie” di Saba del 1911 e alla prima edizione del “Canzoniere”, sotto la sinfonia di tomi della Geografia Universale Utet spunta un Ken Follett e un libriccino del 2023 sul significato della parola “Amen”. Sembra una beffa affatto casuale. L’appello è esteso dunque a studenti, laureandi, ricercatori in archivistica, per riordinare definitivamente il patrimonio librario.


Bisogna fare ordine, innanzitutto, continuando un intervento già iniziato di ripulitura dal ciarpame accumulato negli anni. I libri - la massiccia scrivania che non passa dalla porta, certamente montata in loco e altri mobili inamovibili - andranno tutti ricoperti prima di alzare i parchetti, che verranno restaurati con la stessa essenza e colore originari. I più rovinati finiranno in fondo, quelli in migliore stato di conservazione saranno portati avanti. Prima di ri-appoggiare il pavimento dovrà essere realizzata una conca di cemento armato impermeabilizzata per scongiurare infiltrazioni. La carta da parati, in più punti cadente e strappata, è ottocentesca: dovrà essere pulita, mantenuta e, dove irrecuperabile, sostituita da tasselli color tortora per simulare la continuità cromatica.

 


 


Alle librerie servono puntelli, ma le “pance” scavate dal tempo verranno rispettate. Le due “torri” librarie della seconda stanza pare possano essere spostate, una sola ridisegnerà l’«antro oscuro» di cui Saba si invaghì e comprò a stretto giro nel 1919. Voleva rivenderlo e guardagnarci sopra, finì per seppellircisi con i suoi tormenti e la dannazione dei magri clienti. Al centro, in una teca di vetro, la macchina da scrivere del poeta. Ci scrissero sopra i ragazzi di una scuola, il ringraziamento a Mario Cerne che durante una visita aveva insegnato loro il funzionamento di quell’arcaico strumento con i suoi duri tasti ticchettanti. Da un cassetto spuntano le schede metalliche col nome dei clienti per la confezione delle etichette, tutte rigorosamente ordinate da Saba, insolventi compresi.

 


 


 


Nemmeno i monumentali termosifoni possono essere rimossi, ma si provvederà a riscaldare con un nuovo impianto. Nuovo sarà anche quello elettrico, con illuminazione “wall washer” sopra le librerie e di stanza in stanza meno forte, così da evocare la suggestione del luogo, «riproporre l’idea dell’antro con i libri illuminati, riportando il visitatore indietro nel tempo», spiega Guagnini. Chissà se i crocieristi che schiacciano il viso tra i rombi metallici della saracinesca si sentono investiti da quella potenza simbolica di cui parla Giampiero Mughini, cultore affezionato.


«Sarà un’operazione storica, culturale e certamente anche turistica» sottolinea Paolo Volli lanciando la sottoscrizione. Il conto bancario è stato aperto, chi volesse donare per il “Restauro libreria antiquaria Umberto Saba” può farlo con l’Iban IT78F0306909606100000199505. «Una sfida culturale che parte da zero e si rivolge alla città» aggiunge Guagnini.


Ma il futuro? «Mario Cerne si tiene in contatto continuo, se si sentirà in forze ritornerà al lavoro. Altrimenti - prosegue Volli - magari deciderà di cedere la libreria alla Comunità ebraica, vedremo poi in quale forma giuridica, che potrebbe realizzarne una parte di museo diffuso o, a sua volta, affittarla a un nuovo gestore con tutti i suoi vincoli. Intanto, pensiamo a renderla nuovamente agibile e fruibile».

 

Umberto Saba nel ritratto all'interno della libreria

 


All’uscita una coppia di ragazzi di Belgrado sbircia speranzosa attraverso la porta che si sta chiudendo. Volli si fa blandire e i due azzardano qualche passo tra la polvere e i rattoppi di tutto quell’abusato immaginario collettivo che va in pezzi, perlopiù nell’indifferenza.

lunedì 16 ottobre 2023

MODA & MODI

 Il potere dell'anonimo golfino Miu Miu

 

L'attrice Mia Goth apre a Parigi la sfilata F/W 2023 di Miu Miu

 

 Può un piccolo cardigan girocollo appoggiato alla vita, morbido ma non striminzito, diventare l’oggetto del desiderio di questo inizio d’autunno 2023? Un cashmirino tinta unita, grigio, lilla, cipria, con una fila di bottoni, infilato nella gonna e portato con la borsetta nell’incavo del braccio, a disegnare una figura tutta discrezione ed eleganza soffusa?


Può, eccome, secondo gli analisti, che valutano l’impatto sui consumatori di una quarantina di brand del lusso, incrociando ricerche online, presenze sui social media e traffico nel web. In base alla rilevazione dei dati del Brand Leading indicator di BofA, la Bank of America, per il secondo semestre consecutivo, Miu Miu, che firma il modesto golfetto da cui siamo partiti, è al primo posto nei desideri del mercato. Il pezzo-icona ha trascinato un’impennata di vendite per il marchio, estesa alla prima linea Prada, ma anche generato una febbre online, dove i cardigan, di qualsiasi tipo, siano essi fast o quiet fashion, sono compulsivamente cliccati nell’e-commerce (più 45% dice il termometro trimestrale di Lyst, che monitora prodotti e desideri dei consumatori).Si cerca il succedaneo che più si avvicina all’originale, venduto alla bellezza di 1250 euro.


La domanda è scontata: come può il golf più anonimo delle passerelle accendere cotanta brama? In realtà quello che sembra un modesto capetto, quintessenza del guardaroba altoborghese della signora Miuccia, è un geniale concentrato di tutte le aspirazioni e le contraddizioni che animano la moda del post-pandemia. È perfetto per il lusso sottotraccia, la tendenza della stagione: stile discreto, mai gridato, capi duraturi che non cavalcano l’hype del momento, tinta unita, da abbinare facilmente, un insieme che trasmette l’idea del classico impeccabile e affidabile. Al polo opposto dell’eleganza senza tempo, c’è la logopatia, tutt’altro che scomparsa, come testimonia la sfilza di accessori, felpe, maglioni, cappelli - originali o tarocchi - dal marchio esasperato. In molte borse di alta gamma il brand è di nuovo sbattuto in faccia, a segnare con enfasi un’appartenenza.


Il golfino Miu Miu abbraccia anche questa aspirazione e colloca il suo logo in alto a sinistra, in nero, firma inequivocabile, il segno della differenza e della distanza dalle imitazioni.

E il guizzo? Quella proposta birichina capace di attirare, dopo la signora bon ton, il tiktoker aspirante influencer? La risposta sfila in passerella, col versatile golfetto appoggiato alla gonna longuette per una soluzione più formale, o infilato dentro i collant trasparenti che spuntano fuori dal bordo della gonna, con altro logo bene in vista, per la proposta giovane e provocatoria. O, agli estremi, eccolo abbinato a un paio di mutande da passeggio, lisce o paillettate, dello stesso brand.


Nei grandi magazzini e online si sprecano le imitazioni. Il golfino, materiali a parte, è di semplicissima riproducibilità. Sta qui il suo potere: gratificare chi si permette l’autentico come chi si accontenta di vestire “alla maniera di”.

lunedì 2 ottobre 2023

MODA & MODI

Ferragni, sotto il cognome solo il manichino

 

 



 

Al termine della scala mobile del grande magazzino ci accoglie un assaggio della collezione invernale dell’influencer imprenditrice. Capi basici, jeans e camicia maschile, un’uniforme indistinta che può abbracciare e gratificare estimatrici dalle elementari in su. Quello che colpisce è il maglioncino. Un pull girocollo, appena appoggiato alla vita, con una enorme scritta blu che attraversa il seno: FERRAGNI.

Non basta l’occhio sgranato, il bulbo oculare bordato dalle ciglia verticali che caratterizza e rende subito riconoscibili tutte le linee dell’ex “blonde salad”. Non basta la stella, altro codice di un linguaggio elementare comprensibile a tutti. Serve un segnale di appartenenza ancora più marcato: il nome. Lettere grandi, che catturano lo sguardo e lo trattengono. Una dichiarazione di intenti in aggiunta al logo dell’occhione sgranato. Come dire: questo è un capo “firmato” da me, chi lo porta trasmette il messaggio di una scelta subito comprensibile, si impone anche su chi si disinteressa dei marchi. FERRAGNI altezza seno anche sulle felpe, altro pezzo passepartout di ogni guardaroba. Il nome e nessuno sforzo di creatività, perché basta il primo a soddisfare l’acquirente.


L’obiezione è scontata: quella di Chiara Ferragni non è moda, ma un’operazione di “branding” che si estende dal set di nastro adesivo griffato, ai piumini della linea definita appunto “logomania”. Ogni capo e accessorio deve essere facile e accessibile a tutti almeno nei desideri (i prezzi sono tutt’altra storia), non servono tagli, cromatismi, stampe o abbinamenti che spiazzino la cliente e la allontanino, quello che legge la conforta sulla bontà dell’acquisto. È FERRAGNI, fidati.


Siamo agli antipodi del quiet luxury, il lusso sussurrato, sotto traccia, fatto di sartorialità e materiali ricercati, che rifugge qualsiasi logo, qualsiasi riconoscibilità a vista e invita l’osservatore a scoprire chi firmi che cosa senza sbatterglielo in faccia. La tendenza di questo inverno “suggerisce”: capi duraturi, nessun “effettaccio” stancante per dirla con Armani, una palette di colori caldi e confortanti, eleganza come discrezione, ogni capo reale e portabile.

Anche Gucci, dopo il guardaroba fluido e globale di Alessandro Michele, con il nuovo direttore creativo Sabato De Sarno, che ha appena debuttato a Milano, è tornato al dna del brand: lusso rarefatto e senza tempo. Cosa ci dice allora il manichino Ferragni, dove tutto grida e non sussurra? Intanto che cosa ci mostra: come a carissimo prezzo si arruolano testimonial a buon mercato, ragazze sandwich che fanno da moltiplicatore. Che l’accento è tutto sul nome e sulla sua “influenza”, l’oggetto non ha contenuto, sia esso un temperamatite o un maglione.

Il logo funziona sempre allo stesso modo, è un succedaneo di sicurezza, ma nell’era dei social regala in più un posto (e un post) nell’album instagrammabile dell’influencer, la front row della sua vita. Lei stessa si autopromuove a Ferragosto da Ibiza in body trasparente verdemela col seno schermato da FERRAGNI, tra un diluvio di cuoricini adoranti ma anche una consistente dose di commenti critici.

Per fare moda, non pubblicità alla moda di altri, ci vuole una visione (Victoria Beckham ha saputo dimostrarlo). Il cognome non la riempie.

domenica 3 settembre 2023

MODA & MODI

 Il quiet luxury è anche democratico

 

 

Gwyneth Paltrow

 

Dopo lo smutandamento estivo, l’inverno suggerisce sobrietà. Da mesi online corre un binomio, “quiet luxury”, che sta per lusso non esposto, sotto traccia, impercettibile. Basta digitare aggettivo e sostantivo e la rete scarica le referenze: la pluripremiata serie HBO “Succession” e i suoi personaggi, una famiglia di mogol dei media in stile Murdoch, vestiti in colori neutri, senza loghi, nessuna esplosione di colore, nessuna borsa o scarpa “it”, nessun pezzo riconoscibile, ma una sinfonia di abiti e accessori in nero, caffellatte, bianco, quasi monocordi. È il lusso quiet, appunto. In realtà sono tutti pezzi griffatissimi, sartoriali, in tessuti pregiati, ma IYKYK, acronimo di “if you know you know”, se li riconosci appartieni al giro di chi li indossa, come quel cappelletto da baseball insignificante sulla testa di uno dei protagonisti in più puntate, che è un Loro Piana da centinaia di euro.

 

Sarah Snook in "Succession"

 

Altra referenza, questa volta reale: l’attrice Gwyneth Paltrow citata in tribunale per uno scontro sulle piste da sci dello Utah, che in aula ha sfilato avvolta in vestiti monacali abbottonati fino al collo, in maglioncini burro e pantaloni color biscotto, come una qualsiasi anonima professionista delle metropoli americane, quando ha addosso pezzi da migliaia di dollari, che parlano un linguaggio di ricchezza, classe e understatement rivolto a chi lo sa cogliere, messaggio in codice di appartenenza a un ceto dove l’ostentazione è bandita e il no logo a vista una religione.


Se andiamo indietro nel tempo una testimonial siderale del quiet luxury è stata Carolyn Bessette, moglie di John John Kennedy, morta con lui nel tragico incidente aereo a Martha’s Vineyard del 1999: una calla dal lungo collo che declinava bianchi, neri, mou, argenti, qualche sporadico rosso, in gonne a matita e camicie maschili o abiti scivolati che parevano essere stati cuciti su di lei. E, ancora sul piccolo schermo, l’attrice Robin Wright nei panni di Claire Underwood nella serie “House of Cards”, sigillata in guaine monocolore, in gelidi tailleur tinta unita. Un guardaroba “efforless”, senza sforzo, in apparenza naturale e spontaneo.


Per uno dei surreali cortocircuiti della moda la tendenza “quiet luxury” e così popolare sui social e ormai così familiare ai più giovani da essere adottata anche dalle catene fast fashion (dove non solo non c’è lusso ma nemmeno nulla di “tranquillo” se si pensa alla produzione forsennata di pezzi a basso costo) per promuovere una selezione di linee semplici, colori neutri, capispalla e abiti senza fronzoli inutili. Le collezioni per l’autunno-inverno già arrivate nei magazzini lo confermano: sabbia, grigi, verdi spenti, bianchi delicati, nero e marrone, una palette soffusa e discreta, con qualche punta di malva e lavanda, le tinte forti della stagione.

Dietro l’ennesimo slogan delle cronache modaiole si intravede l’esigenza di recuperare un po’ di moderazione, pur se non griffata o in materiali ricercati. Anche chi pratica gli acquisti “fast” è invitato a seppellire mutande e reggiseni da passeggio, a ricoprire ombelico e natiche e a godersi il lusso democratico del guardaroba “quiet”. 

lunedì 21 agosto 2023

MODA & MODI

 La liberazione del capezzolo

 

Victoria De Angelis

 

 

Dopo i glutei, dopo l’ombelico, è il momento dei capezzoli. L’inverno del loro orgoglio. Tra le tante, confuse e contraddittorie proposte che le cronache di moda ci prospettano per i prossimi mesi, colpisce la consunzione del reggiseno, sotto le giacche ridotto a una linea tra due punti, o la sua eliminazione radicale, sostituito da artistici cappuccetti o adesivi a coprire i capezzoli.

Negli inglesismi modaioli, che paiono nobilitare tutto, si chiamano nippies o pasties. Abbandonato il cassetto degli ammenicoli osé, dell’accessorio da burlesque, del San Valentino di partner a corto di idee, sono diventati un “pezzo” di lingerie, da abbinare a camicie trasparenti e abiti con scollature generose o portare normalmente sotto una giacca. Il motto che corre in rete è #freethenipple, libera il capezzolo, il movimento già da qualche tempo sposato dalle solite celeb in nome di una reale parità tra uomo e donna che passa anche dalla libertà di mostrare il proprio busto nudo, senza correre il rischio di essere bannati dai social.

Con un po’ di confusione si citano precedenti storici, come quello ormai ultraventennale dell’episodio di Sex and The City in cui Samantha fa provare a Miranda in un bar affollato un paio di spartani copricapezzoli in silicone color carne, con l’effetto immediato di calamitare gli sguardi degli uomini presenti, risucchiati dalle propaggini sporgenti sotto la camicia rosso fuoco. Insomma, esattamente il contrario di una liberazione.

Meglio allora, se si cercano solidi precedenti, rifarsi a Karl Lagerfeld che, nel ‘96, sulla passerella di Chanel, fece sfilare le supermodelle Carla Bruni, Claudia Schiffer e Stella Tennant, all’epoca le uniche e autentiche influencer, in un reggiseno infinitesimale ricavato da due minuscole C intrecciate. Allora si diceva di un effetto boudoir in passerella, oggi la liberazione del capezzolo ci viene spiegata come un passo in avanti nella cultura sex positive, dove il corpo nudo non suscita reazioni, di qualunque genere e forma sia, ma fa parte di una serena e sana accettazione sociale.


Certo è che con nippies e pasties gioiello si è completata la “lingerizzazione” del guardaroba. Le calze trasparenti sono diventate i nuovi pantaloni, le mutande si portano con il blazer, il bordo del collant, per nulla celato anzi griffato, sbuca dalle gonne, il reggiseno fa le veci di un top, il sotto si mette sopra. Con sedere e ombelico anche il seno si espone, schermato solo da strisce o triangolini, quel che resta dei reggiseni tradizionali svuotati della loro funzione, oppure è completamente nudo e decorato con copricapezzoli a forma di cuore, di stella, di borchia, di croce, neri o dorati, tutti visti da tempo su Victoria dei Måneskin e su una schiera di cantanti, attrici, modelle, influenti varie, da Lady Gaga a Rihanna, da Cara Delevingne a Miley Cyrus, da Lizzo a Bella Hadid alle ubique sorelle Ferragni.


Gli adesivi piazzati sui capezzoli vengono registrati anch’essi come strumenti di “empowerment” femminile. Consapevolezza di sè, autostima, piacere di mostrarsi quando e quanto si vuole. Il potere del capezzolo, la rivincita di una sporgenza anatomica che per anni abbiamo cercato di dissimulare.

lunedì 7 agosto 2023

MODA & MODI


L'uomo in gonna va messo alla porta? 


Comme des Garçons Homme Plus (foto Isidore Montag/Gorunway.com)

 

 

 Che cosa significa abbigliamento “appropriato”? È dei giorni scorsi la diatriba alla Camera dei deputati sull’opportunità di presentarsi in aula in scarpe da ginnastica e senza cravatta, quesito che rischiava di impantanarsi in interminabili dissertazioni vestimentarie ed è stato quindi saggiamente rimandato alla decisione dei questori. La questione non è fresca, tutt’altro, e ha degli esilaranti precedenti territoriali.

 

Nel 2015 un visitatore in “pinocchietti” veniva bloccato all’uscio del consiglio regionale a Trieste per pantalone “non consono”, salvo poi essere salvato dall’intervento dell’allora consigliere Bruno Marini che, spider arbiter armatosi metaforicamente di metro da sarto, stabiliva che se il bermuda copriva la rotula l’ospite era abbastanza decoroso per essere ammesso. La “misura”, in questo caso davvero solo riferita ai centimetri del tessuto, ha avuto la meglio su altri criteri, primo fra tutti quello estetico, che suggerirebbe di allontanare i portatori sani di pinocchietti anche da una bocciofila.

 

È andata molto peggio al fashion editor di Vogue, Alex Kessler, che sulle colonne del magazine racconta di essere stato di recente messo alla porta da un ristorante stellato di Mayfair, a Londra, per essersi proposto in doppiopetto e bermuda sartoriali griffatissimi - Acne Studio la giacca, Comme des Garçons le culotte - in quanto questi ultimi non “adatti” ai codici del locale. Kessler avrebbe dovuto prendere a prestito un calzone lungo messo a disposizione dei clienti o rinviare la cena ad altra data e vestito, decisione che ha preso, trovando un tavolo in un locale ugualmente blasonato ma più flessibile. Forse il giornalista sarebbe stato ammesso in consiglio regionale a Trieste, perchè, per il teorema Marini, aveva il ginocchio coperto, ma probabilmente sarebbe stato bandito dalla Camera dei deputati. E se si fosse presentato in doppiopetto o blazer e con la gonna, come tutte le passerelle maschili propongono?


È chiaro: l’insidiosissimo aggettivo “adeguato” ha bisogno di adeguarsi. Per gli uomini la faccenda si fa ancora più delicata, perchè tocca il genere. Ovvero, dove si applicano codici rigorosi di formalità e sobrietà, c’è differenza tra un uomo che indossa un normale completo con pantalone lungo e chi, per esempio, sceglie una gonna fino alle caviglie? È dunque questione di copertura della gamba o piuttosto di ammettere che un maschio porti un capo non tradizionalmente associato al suo sesso?


Ogni giorno leggiamo di moda fluida, genderless. Poi, però, a lato pratico, sono i dress code a non essere inclusivi, persino nelle capitali della moda. E le persone che si dicono non binarie, saranno cacciate solo perchè l’abbigliamento non corrisponde al genere assegnato loro da chi vigila sugli ingressi?


La soluzione forse è più semplice di quanto non sembri, basta avere consapevolezza del luogo e del suo significato. Allora, a parità di ginocchio coperto, un visitatore con pinocchietto da spiaggia può serenamente essere allontanato da un consesso elettivo e un uomo in gonna accomodarsi al ristorante stellato.

Pochi giorni fa alla Scuola Joyce di Trieste il docente di Cambridge Lloyd Meadhbh Houston ha alternato un tailleur maschile bianco con pantalone lungo alla gonna di pelle e t-shirt a rete. Riuscendo nell’impresa di essere se stesso e non sembrare “inappropriato”.

giovedì 3 agosto 2023

MODA

Questa shopper è Capovolto

 

 

Si chiama “Capovolto” ed è il risultato della collaborazione tra un illustratore, Jan Sedmak, e un’artigiana artista, Ines Paola Fontana, designer di accessori tessili e gioielli nati da materiali di recupero. “Capovolto” è una minicollezione di shopper in edizione limitata. Sessanta pezzi, ognuno diverso dall’altro, otto varianti di colore e la matita inconfondibile di Sedmak che traccia un profilo femminile. 

 

Ma perchè “Capovolto”? Perchè rovesciando la borsa, la collana che la figura disegnata porta al collo si trasforma nei manici della shopper. «Un gioco nascosto, tutto da scoprire. Lo stesso viso di donna è difficile da “leggere” quando si porta normalmente la borsa», racconta Ines Paola Fontana. Un gioco anche nel nome: un capo capovolto, un gioiello capovolto.

 

Silvia Vatta con la shopper "Capovolto"

 

L’idea di quest’inedito incontro artistico è partita da Silvia Vatta, un tempo anima del negozio di gioielleria contemporanea “Giada” di Trieste e oggi dell’omonima piattaforma online, che puntava ad arricchire la sua offerta con «un prodotto che non fosse un gioiello, ma comunque ne parlasse». Ecco allora l’idea della borsa e della signora con collana: il disegno è stampato su cotone, mentre il resto è materiale tessile riciclato, in particolare scarti di confezione di divise da lavoro. Un riutilizzo intelligente e creativo, che Ines Paola percorre da sempre, ben prima che tutti si scoprissero una sensibilità green.


Per vedere la luce la shopper “Capovolto” ci ha messo circa un anno. La collaborazione è stata per entrambi gli artisti un modo di confrontarsi e di mettersi in gioco, trovando l’intesa tra mondi diversi in un accessorio divertente, sartoriale e sostenibile. I primi prototipi sono stati selezionati per la mostra di artigianato artistico che si è tenuta tra maggio e giugno 2023 nella chiesa di San Francesco a Udine e che dal 10 agosto sarà trasferita in uno spazio alla Stazione centrale di Trieste.

Da quei primi pezzi è nata l’attuale “Capovolto”: più semplice nella fattura ma ugualmente curatissima, con due tasche interne, una fettuccia per assicurare le chiavi e una palette di colori che va dal nero al verde, passando per rosso, bordeaux, grigio, nocciola, rosa, con i capelli della signora nelle varianti del blu, turchese, bianco e nero.


La collezione sarà presentata venerdì 4 agosto 2023 dalle 16.30 alle 20.30 e sabato 5 agosto dalle 10 alle 13.30 e dalle 16 alle 20 da “Combiné” in piazza Barbacan a Trieste e da domenica 6 le borse saranno acquistabili sul sito www.giadatrieste.com
 

domenica 30 luglio 2023

MODA & MODI

L'amministratore è trasparente

 

Il caldo torrido ha polverizzato ogni limite e scatenato una voglia di liberarsi che attraversa le generazioni. Se l’estate è sempre la stagione in cui i freni inibitori si allentano e il senso critico si appanna, questa del 2023 con le sue temperature roventi ha sdoganato qualsiasi estremo: si va in giro in pantaloncini e top che hanno dimensioni e consistenze di reggiseno e mutande, in gonne e abiti trasparenti con intimo a vista, in vestitucci stretch che risalgono sulle cosce fino a diventare una sorta di body, costringendo a continui contorsionismi per riportare gli orli a un limite quantomeno urbano.

 




Ore otto di mattina, bar di Trieste in una delle strade della movida. Dietro il banco due giovani donne distribuiscono caffè e maneggiano croissant con appuntite unghie posticce in rosa Barbiecore, entrambe con ombelico a vista, una in succinto pampers di jeans che sottolinea l’incollatura della natica, l’altra in gonna francobollo sulle gambe decorate con scritte e graffiti. Ore venti, ristorante del centro con solida clientela di habitué. Un avventore di mezza età raggiunge il suo tavolo in ciabatte da piscina, polo dalla balneazione prolungata e l’accessorio simbolo dell’estate degli estremi che si toccano: il borsello a bandoliera. L’unico ambito in cui il gender gap è stato del tutto superato è quello della caduta di stile: infradito, bermuda, boxer, canotte, reti, pantaloncini e top da palestra, tessuti tremolanti, inconsistenti e sintetico a volontà, accomunano allegramente donne e uomini, millennial e boomer, uomini delle istituzioni e comuni mortali.

 


 


Solo qualche settimana fa un indomito consigliere regionale sfoggiava all’air show delle Frecce di Lignano una camicia nera, manica lunga, completamente trasparente. L’effetto sottoveste da film del neorealismo permetteva di apprezzare i capezzoli e un misterioso cartellino bianco sottostante, forse un pass, un cerotto, un portacellulare, chissà. Manica lunga e camicia trasparente: che messaggio avrà voluto trasmettere il nostro uomo pubblico con una scelta così peculiare, per ora del giorno, colore del capo, temperatura? Guardate come sono trasgressivo ma decoroso? Oso ma con giudizio?


Pure il crop è diventato fluido. Le magliette corte con ombelico esposto non sono più prerogativa femminile. La voglia impellente di mostrare l’ultima fetta di pancia, non importa quanto allenata, contagia uomini e ragazzi ben al di fuori del perimetro della palestra.

 La body positivity ha i suoi riflessi perversi: più che come sacrosanto diritto di vivere con naturalezza il proprio corpo, senza dover subire giudizi e commenti altrui, viene interpretata come il venir meno di ogni regola, a cominciare da quella basica: amare se stessi. Il che, in molti casi, significa andare controcorrente, coprirsi per valorizzarsi.


Dalla passerella e dalle foto delle riviste alla strada il passo è lungo. Così il vezzo di alcune griffe di sdoganare il bordo “logato” di mutande o collant, che occhieggia fuori da gonne e pantaloni, si interpreta estensivamente. Il sotto si rovescia, diventa sopra. Un popolo seminudo si sposta a qualsiasi ora. E sui centimetri persi non c’è alcuna intenzione di tornare indietro.

lunedì 10 luglio 2023

MODA & MODI

 

Boxer, cambia sesso

la mutanda schierata

 

Getty Images
  

 

Per anni i boxer maschili sono stati al centro di accesi tormentoni estivi sulla loro appartenenza politica, intimo asseritamente prediletto dallo schieramento liberal contro i mutandati conservatori. Nell’era fluida, però, le scelte di campo manichee hanno fatto il loro tempo, sia in politica sia tra i generi. Così i pantaloncini di cotone lasciano il cassetto della biancheria da uomo per infilarsi in quello da donna e diventare un capo femminile a tutti gli effetti. Ma non è solo questione di scambio tra i sessi, ormai una costante perfino un po’ scontata su ogni passerella, dove la parola chiave è trans-indossabile.

 La novità è che i boxer al femminile cambiano funzione, non si portano sotto ma sopra. Se ne vanno in giro su camicie, blazer, top più o meno crop, oppure spuntano da pantaloni cargo, minigonne, si intravedono sotto abiti trasparenti, restando inconfondibilmente biancheria da uomo: elastico in vita, a righe o in tinta unita, un po’ larghi sulla coscia, con la strategica apertura sul davanti schermata, o anche no, da un paio di bottoncini. 


Un po’ di celebrità paparazzate in boxer in giro nelle megalopoli d’oltreoceano, l’impazzimento dei social, Tik Tok in testa, con milioni di visualizzazioni, i brand del lusso che sfornano versioni con logo ben in vista, la fast fashion pronta a rifornire gli espositori subito vuoti dei grandi magazzini con pratiche confezioni famiglia, più pezzi e unisex, ed ecco che l’ennesimo capo intimo è sdoganato ed esce allo scoperto per cominciare una nuova vita urbana.

Dopo il reggiseno diventato top, le mutande di jeans o le culotte di lycra promosse a shorts, le sottovesti riconvertite in vestiti, le canotte riabilitate, il pigiama trasformato in abito da viaggio, dopo che tutto il campionario di intimo femminile è stato esaurito e messo orgogliosamente in mostra, tocca ai boxer maschili scendere in strada come calzoncini femminili da città. Gli esperti di styling, che decifrano per i comuni mortali apparenti insensatezze, suggeriscono la parola “effortless”. Ovvero senza sforzo - nemmeno di immaginazione - e facili, semplici, disinvolti, basta abbinarli con camicia o giacca, con tacchi e una bella borsa (molto “it” bag), per non dare l’impressione di andare in giro in mutande, per di più prese in prestito.


La lingerie in vista, già in auge da molte stagioni, è tendenza esplosa dopo il lockdown, in nome della riconquistata libertà e della voglia di non abbandonare le comodità scoperte nei mesi di confinamento. Le smutandate, quintessenza della tamarraggine metropolitana, è categoria che non esiste più, sostituita da un’allegra body positivity, senza confini di età, davanti alla quale, per non fare shaming di alcun tipo, si arena la più timida delle domande: ma dove vai conciata così? Gli esperti di cui sopra spiegano che i boxer da città sono la nuova frontiera dello street style, una delle scarse tendenze lanciate dalle celebrità facilmente integrabili nel proprio stile quotidiano. 

Quasi quasi rimpiangiamo la vecchia mutanda maschile, fosse pure schierata. 

martedì 27 giugno 2023

MODA & MODI

Carla Movia, uno zuccherino per orecchino 


 


 

 

Tutto può diventare un gioiello. Una scatoletta di latta, il suo coperchio, la linguetta utilizzata per aprirla. Riciclando separatamente questi tre elementi e trasformandoli in altrettante spille, la triestina Carla Movia nel 2017 ha vinto il premio “Talente”, riservato ai giovani artisti nel campo della gioielleria contemporanea alla Handwerksmesse di Monaco di Baviera. E una zolletta di zucchero? Può convertirsi in un orecchino, nei colori candy dello zucchero filato. Carla l’ha scoperto durante i suoi studi ad “Alchimia”, la scuola di gioielleria contemporanea di Firenze dove ha conseguito bachelor e master in “fine arts” e dove oggi lei stessa insegna.


 

 Durante le sperimentazioni con materiali poco convenzionali, distanti e diversi da quelli della gioielleria classica, Carla si rese conto che trattando lo zucchero con vari tipi di resina, era possibile ottenere un materiale strano e misterioso, che ricorda il ghiaccio, i coralli o alcuni minerali. Ai tempi dello studio il singolare composto rimase inesplorato, ma l’idea tornò utile non appena diventò mamma di due bambini, quando si rivelò prezioso per lavorare a casa, vicino ai neonati e senza bisogno di un banco. La confezione dell’amalgama dura qualche settimana, è tutt’altro che da fast fashion, ma permette di creare tanti pezzi contemporaneamente nello stesso lasso di tempo. Gli orecchini di zucchero e resina hanno un po’ del dolcetto e un po’ del fossile, sono leggerissimi e in una palette di colori perfetta per l’estate: verde tiffany, ciclamino, rosa barbie, bianco ghiaccio. «Un antidoto - spiega Carla - a tanti gioielli creati in massa e venduti a basso prezzo».

La designer li ha esposti qualche settimana fa, in piazza della Borsa a Trieste, nell’ambito della rassegna “CrafTS”, dedicata agli artigiani e artisti triestini. E per molti la sua gioielleria è stata davvero una sorpresa: divertente, fresca, leggera e “colta”. A riprova di quanti talentuosi creativi operino in città, conosciuti molto meglio fuori Trieste.
L’idea da cui parte Carla Movia è in apparenza semplice: c’è un potenziale gioiello in qualsiasi oggetto o materiale, basta saperlo vedere. E la spinta al suo lavoro viene proprio dallo stupore che la trasformazione della materia prima “povera” genera in lei, poi nello spettatore.

 



Ma gli studi all’accademia “Alchimia” le hanno insegnato anche a recuperare e valorizzare tecniche antiche come la filigrana, che Carla ambisce a rileggere in chiave contemporanea. «È un lavoro lento e lungo - racconta -. Fondo i grani d’argento, mi tiro i fili e poi, una volta preparati i materiali, inizio a creare tutte le forme dettagliate e intricate proprie di questa tecnica. A volte ci vogliono mesi per completare un pezzo e ci tengo a sottolinearlo, tanto più in tempi come i nostri in cui con un clic possiamo stampare quello che vogliamo».
 

L’ispirazione? Viene da qualsiasi cosa: la vita, il mondo, le persone. Dai libri letti, dagli artisti seguiti e dallo stesso processo di lavorazione, quasi mai dalla gioielleria. A volte Carla ci mette anni per decifrare un’idea, altre completa un monile in poche ore. «L’importante per me è far sempre lavorare le mani, e di conseguenza il cervello, circondarmi di persone con menti simili alla mia e mantenere una visione aperta». È così che in una zolletta riesce a immaginare un orecchino.

www.carlamovia.com Foto Carlotta Bianco, Federico Cavicchioli