sabato 30 maggio 2020

IL LIBRO

Yokomizo e il cadavere senza volto
la mente diabolica del noir giapponese






I personaggi, anche se pochi, sono identificati con nome e qualifica nella prima pagina. Una scelta editoriale intelligente per aiutare il lettore a non perdersi nei diabolici intrecci del mondo di Yokomizo Seishi (1902-1981) e ritrovarsi a sfogliare all’indietro le pagine di questo breve, compatto e inquietante noir cercando di rimettere insieme ruoli e identità. Un cadavere di donna dal volto irriconoscibile per la putrefazione, una coppia di coniugi che gestisce la locanda del “Gatto nero” vicino al luogo del rinvenimento, l’amante di lui e quello di lei. Un giardino, un tempio, la periferia della città di G. che la guerra sino-giapponese ha riempito di fabbriche di munizioni e locali equivoci per stranieri, stravolgendone l’identità. Non sembra davvero una trama così complessa e popolata da rompersi la testa, ma bastano poche pagine per essere pervasi da un senso sottile di spaesamento e intuire che quel corpo nudo aggredito dai vermi, scoperto casualmente, o almeno così pare, da un bonzo, ci infilerà dritti dritti nei percorsi labirintici della mente dell’autore, da dove uscire non è operazione semplice.

A meno di un anno di distanza dalla pubblicazione de “Il detective Kindaichi”, Sellerio manda in libreria “La locanda del Gatto nero” del maestro del noir nipponico Yokomizo, originariamente uscito nel 1973, che oggi ci viene restituito con efficacia dalla traduzione di Francesco Vitucci. Ancora una volta, è il personaggio di Kindaichi Kōsuke, bizzaro investigatore, trasandato e balbuziente - da cui lo scrittore finge di aver ricevuto i documenti dell’indagine - a mandare in pezzi la scontata ricostruzione dei colleghi e a svelare il mistero dell’omicidio, che parte da lontano, dal ritorno in Giappone dalla Cina dei due protagonisti, Itojima Daigo, proprietario della locanda, e sua moglie Oshige, alla fine della guerra. Perchè il fondale storico, anche se accennato brevemente, è importante negli intrecci di Yokomizo, ammiratore e cultore della detective story all’occidentale, che “traghettò” nella cultura giapponese, impastandovi perfettamente il senso della tradizione, la vena splatter, le atmosfere e i riti della sua terra. Siamo nel 1947 e il Gatto nero, aperto un anno prima, è una delle tipiche taverne di malaffare che convivono accanto a templi secolari e cimiteri.



Yokomizo Seishi (1902-1981)




Dove sono finiti Itojima e Oshige, che hanno ceduto il loro locale poco tempo prima della scoperta del corpo? E di chi sono le macchie di sangue venute alla luce su una parete e sul tatami all’interno dell’edificio durante i lavori di ristrutturazione avviati dal nuovo proprietario? Che cosa significa la carcassa di un gatto nero mezzo decapitato rinvenuta poco lontano dalla donna assassinata?


Il detective Kindaichi” si sviluppava intorno al meccanismo del “delitto della camera chiusa”, in questo nuovo caso, invece, si tratta di “delitto senza volto”. E quando non si può risalire alle fattezze originali del cadavere, ci spiega Yokomizo, «nella stragrande maggioranza dei casi si è portati a pensare che l’assassino abbia preso il posto della sua stessa preda. In altre parole, capita che un soggetto A - ritenuto fino a poco prima la vittima - non sia altro che l’assassino e che di B - ritenuto impropriamente l’aguzzino - si perdano le tracce. Ovviamente, ciò accade poichè è a B che appartiene il cadavere ritrovato e perchè è B la vera vittima».


La premessa non aiuta a orientarsi, ma certo fa capire che sarà sull’identità e sullo scambio che si gioca la partita. La coppia è doppia, infatti, perchè sia Itojima che Oshige hanno un amante, lui una giovane ballerina, Ayuko, truccata volgarmente e coi capelli corti, a differenza della moglie del locandiere, che porta kimono dalle tinte sobrie e l’acconciatura tradizionale, mentre Oshige si accompagna con l’imprenditore Kazama (capite la necessità della legenda dei personaggi?). Anche di Ayuko si sono perse le tracce e la signora Oshige è rimasta chiusa in camera per due settimane prima di andarsene, per un’eruzione cutanea da cerone scadente: che sia una di loro il corpo in disfacimento?


Se il teorema del “delitto senza volto” è corretto, chi pensiamo sia la vittima è in realtà il killer. Un gran burattinaio dalla mente brillante, che ha messo a punto un incastro perfetto per liberarsi del suo vero obiettivo. Ha compiuto solo un’ingenuità o forse un errore di onnipotenza. E un po’ onnipotente deve essersi sentito anche Yokomizo che, smontando il marchingegno, cita il maestro Poe e lo liquida come troppo prevedibile. 

twitter@boria_a

mercoledì 20 maggio 2020

L'INTERVISTA: Maria Giuseppina Muzzarelli

Abiti glamour e tacco cinquanta
Dal Medioevo a oggi è sempre questione
di regole 





La prima bolognese colpita dalle leggi suntuarie fu tale madonna Francesca, nel 1276, sospettata di aver sfoggiato uno strascico troppo lungo l’8 di agosto, festa di San Domenico. In realtà, l’incaricato della delicata misurazione da parte del comune non potè nemmeno avvicinarsi alla gonnella della signora, protetta dalla sollevazione dei presenti che finsero di equivocare sulle intenzioni dell’uomo. Assolutamente legittime, peraltro, in base alle nuove norme che volevano “infrenare il generale trasmodamento” e “le immoderate et excessive spexe”. Non era questione di capriccio o di vanità femminile: nessuna donna, meretrici a parte, poteva portare vesti che toccassero terra, pena una multa, che colpiva anche il sarto che aveva confezionato l’indumento incriminato, e la confisca della dote. E sotto la scure del legislatore cadevano anche accessori e gioielli, feste e banchetti.

Ce lo racconta la storica del Medioevo Maria Giuseppina Muzzarelli in un saggio ricchissimo e affascinante “Le regole del lusso” (il Mulino, pagg. 276, euro 24), che illustra un corpus di norme che rimase in vigore in tutta Europa per cinquecento anni, ma che può suscitare più di una riflessione legata al presente. «Quando ho cominciato a occuparmi di questo tema - racconta Muzzarelli - le leggi suntuarie erano quasi una sorta di ferro vecchio, un elemento che era utile per ricostruire usi e idee di un mondo comunque molto lontano. Nel giro di poco tempo, il tipo di interesse si è trasformato sotto le mie mani. Il tema della sostenibilità e dei limiti si è posto al centro della lettura. La domanda è: si può consumare quel che si vuole nel nome della libertà, del consumismo, della circolazione della produzione? Da ultimo, il nostro sguardo si è ulteriormente modificato, perchè il tema delle regole è diventato centrale. È accaduto così che le leggi suntuarie, all’improvviso e in modo inaspettato, da norme di un mondo lontano, sono diventate di “questo” mondo. Tre diversi sguardi si sono posati sulle stesse disposizioni, che, da testimoni di usi, sono diventate riflessione che combina sostenibilità con regole e limiti. Abbiamo dei limiti, dobbiamo darci dei limiti, le misure e le restrizioni sono addirittura uno strumento di salvezza».


 
Maria Giuseppina Muzzarelli


 

Che cosa prendevano di mira le leggi suntuarie? «Quello che suscitava impressione andando per le strade, quello che pubblicamente catturava l’attenzione, quindi soprattutto gli abiti. Intesi come numero, tessuto, ampiezza delle maniche, lunghezza degli strascichi, quanti bottoni avevano e quanto pesavano, arrivando a indicare con precisione la circonferenza della veste all’altezza dei piedi. Persino l’oro che si poteva portare addosso, massimo tre chili».

Un po’ laborioso da verificare... «Il tema delle verifiche arrivava per due strade e anche qui tocchiamo la contemporaneità. Il legislatore prevedeva che funzionari andassero, canne alla mano, perchè ovviamente non c’era il metro, a misurare per strada larghezza e lunghezza degli strascichi, il che comportava evidenti difficoltà. Ma c’era anche un altro aspetto: si chiedeva la collaborazione del cittadino. Le leggi prevedevano regolarmente che si denunciassero le persone che si riteneva facessero uso improprio dello strumento dell’apparire, e che una parte della multa andasse al denunciante. Certo, la delazione è vista come atto sgradevole, ma, l’altra faccia della medaglia è che se le regole servono a salvarci tutti, vanno rispettate da tutti. Anche questo è un approccio che ci riporta al presente. La multa, poi, è una sorta di tassa sul lusso e anche una forma di redistribuzione della ricchezza, quindi i consumi sono leva da utilizzare per aggiustare le differenze, per introdurre elementi di equità».


Oltre agli strascichi non piaceva neppure l’equivalente del nostro tacco dodici... «Il corpo delle leggi esprime il pensiero e il progetto dei legislatori, ma indirettamente ci fa capire anche quello che era apprezzato, desiderato, che andava di moda. Alle donne piacevano queste piattaforme alte, che raggiungevano fino a cinquanta centimetri. Al punto che quando viene emanata la proibizione di portare pianelle più alte di cinque dita, le donne prendono posizione, e una legge successiva stabilisce la libertà di tacco. Che cosa ci dice questo? Che non c’è solo il legislatore col suo disegno, ma anche una società che qualche volta, su qualche aspetto, prende atto dell’irricevibilità delle restrizioni».


Cos’erano le vesti bollate? «Mettiamo che qualcuna ce l’avesse già un abito di un peso o con un numero di bottoni vietato dalla legge. Valeva il principio della non retroattività, quindi il legislatore prevedeva che, entro due giorni - in modo che non si facesse in tempo a confezionare un abito nuovo, aggirando la norma - si potesse registrarlo, facendovi apporre un segno di riconoscimento. Le seimila registrazioni fatte a Firenze ci offrono uno straordinario gazzettino della moda, una testimonianza unica. Nemmeno l’iconografia restituisce così tanti dettagli. Scopriamo che si portavano abiti metà di un colore e metà di un altro, alla Desigual, con righe orizzontali e verticali, addirittura con righe nelle righe, che un vestito poteva avere anche sette, otto colori. Il fenomeno dura trenta, quarant’anni, poi nel ’400 già non è più così».


 
Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi, 1540 circa, Galleria degli Uffizi




 

Si vietano anche i tarocchi, lo zafferano usato nei decori per simulare l’oro... «Certo, perchè si voleva a volte apparire dove non esisteva fino in fondo la consistenza economica... E pensiamo che le norme valgono anche per i banchetti, colpiscono l’apparenza data dagli abiti ma anche dal consumo alimentare. È il tentativo di creare un canone più sostenibile, l’invito alla coscienza del consumo. Pur nella larghezza, intesi: si consentivano 4 chili di carne ciascuno... E in campo non ci sono solo i legislatori, ma anche i predicatori, che sulle piazze parlano non di vizi o virtù, non di vanità in generale, ma di appropriatezza del consumo. Vanità non è voler apparire, ma voler apparire qualcosa di diverso dalla propria condizione».

Su cosa si accaniva, in particolare, il legislatore? «C’era una messa a fuoco particolare sull’apparenza delle donne, almeno in Italia, in Francia, meno in Inghilterra. Pensiamo che dal ’200 al ’700 queste leggi vengono emanate in tutta Europa, soprattutto nel ’300, ’400 e ’500, poi sempre meno. Si colpivano le donne non perchè fossero più amanti dei lussi, ma perchè fungevano da vetrina della posizione, del potere della famiglia. Le diverse condizioni sociali si rappresentavano attraverso le donne e la regolamentazione delle apparenze delle donne era un modo per arrivare a tutta la società, ma colpendo particolarmente loro. È un dato su cui val la pena di riflettere, anche perchè gli uomini non vestivano in maniera sobria...».


E la legge non li contemplava? «Alcune leggi fiorentine, altre in Savoia, ma la maggioranza parlano di donne. Quando nasce la moda, al tempo delle prime leggi suntuarie - che vengono fatte proprio perchè la moda è diventata un fenomeno rilevante - la prima e più evidente manifestazione di questa novità è rappresentata dagli uomini. Sono loro che portano farsetti aderenti, gambe fasciate in calze coloratissime, cinture basse per niente funzionali. Le prime manifestazioni di “gratuità”, di moda per moda, sono degli uomini. Negli anni ’40-60 del Trecento questo fenomeno si fa evidente».



Lorenzo Lotto, Ritratto di Lucina Brembati, 1518, Accademia Carrara Bergamo


Obiettivo delle leggi? «Prevalentemente politico. Ma anche economico, per limitare le importazioni, tagliare le spese in un settore e impiegare le risorse altrove, mettere le mani nelle tasche dei cittadini attaverso le multe. E poi morale, obiettivo che si coglie nei proemi delle leggi, nelle predicazioni e negli interventi della letteratura, da Dante, a Villani, alla satira del novellista Sacchetti. Le leggi sono un grande fenomeno, in tutta Europa, con una sua universalità».


Oggi possiamo parlare di regole del lusso? «Noi oggi abbiamo nuove sensibilità riguardo al tema delle regole, non tanto del lusso ma del consumo. Capiamo che sono un limite, una scocciatura, ma anche uno strumento di governo e di coesistenza. L’acquisizione drammatica di questi tempi è un contributo al futuro, un rendersi conto che la società prevede la coesistenza di desideri, gusti, necessità diverse, ma che le regole sono inevitabili e, qualche volta, salvifiche». 

@boria_a

lunedì 18 maggio 2020

MODA & MODI

Il revenge shopping? Come la vendetta
va fatto con calma 






Lo chiamano “revenge shopping” e l’espressione non è felicissima. Lo shopping come una spedizione punitiva, una vendetta contro il contenimento dei nostri desideri. Questa settimana, la prima dei negozi aperti dopo il lockdown, ci dirà se reagiremo anche noi come i cinesi: fuori, disciplinatamente in fila, dentro una sete di vendetta così insaziabile contro il virus da aver fatto schizzare alle stelle le spese per alcuni brand di super lusso, Hermès in testa, con la boutique di Canton che ha guadagnato in un giorno 2,5 milioni di euro.

Il negozio è mancato a tutti, inutile nasconderlo. Perché mai una schermata, una serie di finestrelle accattivanti su un tablet, un carrellino senza fondo da riempire con un semplice clic sdraiati sul divano, un check out rapido e indolore, potrà sostituire quello che i guru del marketing chiamano l’acquisto esperienziale. Più semplicemente: passare in rassegna capi e accessori, toccarli, confrontarli, metterceli addosso, provare abbinamenti non suggeriti da remoto dallo sconosciuto venditore digitale, prendersi tutto il tempo anche per non comprare niente. In questi mesi l’e-commerce ha soddisfatto le necessità primarie, ci ha fatto arrivare a casa tute e disinfettanti per la cattività, ma è rimasto lontano dal nostro bisogno di gratificazione.


Si ritorna in negozio, ma anche l’acquisto esperienziale è cambiato, come la nostra disposizione. Lo shopping sarà forzatamente solitario, toccheremo trame e consistenze con i guanti, accosteremo una tinta al viso dietro una mascherina, tra noi e il cliente successivo resterà una scia di igienizzante. Se qualcuno aspetta fuori, il tempo del classico “do solo un’occhiata” diventerà una piccola ma fastidiosa pressione psicologica da gestire senza sentirsi in colpa. Dovremo reinventarci il tatto e lo sguardo, affinare i sensi, distribuire in modo nuovo il tempo di un acquisto, incluso l’impareggiabile lusso di non farlo o rimandarlo, senza lasciarci condizionare dalle aspettative, dall’ansia della prestazione da recuperare.


Il “revenge shopping” si presenta come una strategia piuttosto che un impulso da appagamento istantaneo. Da affrontare con sorriso, calma e tanta pazienza. Non è forse l’ingrediente fondamentale di una “vendetta” goduta fino in fondo? 

@boria_a

lunedì 4 maggio 2020

MODA & MODI

Mascherina must have. Finalmente


Junior Cally a Sanremo


Chi avrebbe mai pensato di definire “must have” la mascherina? In questa espressione si concentra tutto lo stravolgimento della moda, e tutto il nostro smarrimento al tempo dell’epidemia.

Appena qualche mese fa gli straccetti glitterati e brandizzati facevano “tendenza” sui red carpet: Billie Eilish ai Grammy 2020, con quel nonnulla di tulle e la doppia G di Gucci disegnata in cristalli, o il rapper Junior Cally all’ultimo Sanremo, un antesignano del volto mascherato, per preservare la privacy e spingere il pubblico a concentrarsi sulla sua musica e non sulla sua faccia (parole sue). Come se vedere un viso picchettato da swarovski conciliasse l’ascolto.

Ora le mascherine sono diventate un indispensabile supporto per muoverci in sicurezza, almeno parziale. Mascherine vere, classificate con lettere e numeri, a seconda del livello di protezione. Le definiamo igieniche e chirurgiche, aggettivi mai prima accostati a quei pezzetti di stoffa, prodotti da tutti i grandi brand a prezzi stratosferici, per colonizzare una porzione del corpo ancora recalcitrante: naso e bocca. Non si riescono più a leggere le fantasiose assurdità con cui si giustificava il fastidio di infilarseli, quegli impalpabili aggeggi così glamour, anche se solo per il tempo di uno scatto da postare sui social: con mezza faccia oscurata ci si esprime in libertà, sostenevano gli estimatori, si può essere se stessi. Sembrano, e sono, espressioni congelate in un’altra epoca.


Oggi tutti siamo costretti a un profondo ripensamento nel nostro rapporto con quanto ci mettiamo addosso e anche su come lo defininiamo in termini di libertà, utilità, necessità, congruità. E la mascherina, che, vip a parte, alla nostra cultura del vestire quotidiano era estranea, che incrociavamo per lo più negli aeroporti su qualche viaggiatore orientale, è il primo “strumento” a cui pensiamo prima di uscire. Non più ammennicolo da annoiati della moda, non più accessorio divertente e originale da serata happy. Più è seriale e chirurgica, perfino a prezzo calmierato, più funziona. E così si sono affrettate a produrla molte case di moda, nella prima di quelle che saranno innumerevoli riconversioni.


La mascherina è un obbligo per poter riacquistare, e difendere, un po’ di libertà, la nostra e quella degli altri. Ecco finalmente spiegato, e riempito di contenuto, il must have. 

twitter@boria_a

domenica 3 maggio 2020

IL LIBRO

 Caitlin Doughty e il diario dal crematorio
che ci riconcilia con la morte


Caitlin Doughty
 


L'epidemia da coronavirus ha portato alle conseguenze più crudeli l’allontanamento dai propri cari defunti. Niente camera ardente, niente funzioni religiose, funerali o sepolture pubbliche, niente congedo. La morte ci viene  brutalmente rovesciata addosso ogni giorno dai mezzi di informazione con i freddi numeri delle statistiche, ma a tutti è impedito di accompagnare gli ultimi momenti terreni dei propri affetti e soprattutto di dar corso ai riti che seguono alla morte.

Un virus sconosciuto ha messo a nudo un “privilegio” dei Paesi industrializzati: non essere più obbligati a vedere i corpi dei defunti, poter evitare un incontro ravvicinato con la morte. Fino agli anni ‘30 del secolo scorso, in Occidente il trapasso avveniva in casa e del corpo si prendeva cura la famiglia, per lo più le donne, che lo lavavano e lo vestivano per prepararlo alla veglia domestica. Oggi l’industria funeraria si occupa di tutto, dal prelievo della salma fino alla sua restituzione in un’urna, a volte anche per posta. E rendere invisibile, o “presentabile” la morte, è diventato un business sofisticato e redditizio.


A riconciliarci con l’idea di un evento naturale ma che abbiamo relegato ai margini della nostra esistenza, è il singolare memoir di una giovane autrice hawaiano-americana, Caitlin Doughty, best seller negli Stati Uniti ed edito in Italia da Carbonio: “Fumo negli occhi e altre avventure dal crematorio”.




Il libro è uscito due anni fa ma è ricomparso nelle classifiche di vendita in questi giorni e non è difficile capire il perché. Quelle di Doughty sono “lezioni” (così il titolo originale) sulla morte nate dall’esperienza vissuta sul campo dall’autrice. Subito dopo la laurea in Storia medievale, Doughty ha lavorato per un anno alle piccole pompe funebri Westwind Crematory and Burial di San Francisco, prima di prendere una seconda laurea in Scienze Mortuarie e lavorare ancora per anni nel settore trasportando cadaveri su un grosso Spinter Diesel in lungo e in largo nella California meridionale.

Infine ha aperto la sua impresa funebre no profit a Los Angeles,  un sito web, The Order of a Good Death (www.orderofthegooddeath.com), dove con esperti e professionisti cerca di smantellare i tabù che circondano la dipartita, e diventare una web star con l’esilarante serie Youtube Ask a Mortician. In  pratica: chiedete a una becchina come “guardare la morte in faccia”, come togliere la benda dagli occhi.

Il timore di morire, ci dice Doughty, è il “motivo che ci porta a costruire cattedrali, mettere al mondo dei figli, dichiarare guerre, guardare online video di gatti alle tre di notte. La morte anima ogni spinta creativa e distruttiva che alberga nell’essere umano. Prima arriveremo a capirlo, e prima arriveremo a capire noi stessi”.


Lezioni sulla morte, dunque. Che non risparmiano alcun  dettaglio - dal primo incontro di Doughty con la “storta”, la macchina crematice, al trucco dei volti, dalla rimozione dei pacemaker, all'imbalsamazione,  dalla polverizzazione delle ossa, ai colori delle salme, un'incredibile palette dal nero al verde acido -  ma non indugiano mai nel macabro o nel morboso, anzi sono talmente particolareggiate, e con frequenti digressioni storiche e nei riti della sepoltura, da sfiorare la trattazione accademica, come dimostra l’imponente bibliografia.

Ma quel che rende il libro irresistibile, è il registro apparentemente .asettico dell’autrice, il distacco con cui descrive ogni incontro ravvicinato, ogni dettaglio sconosciuto (e che evitiamo accuratamente di chiedere) dell’industria della morte, senza renderlo schifiltoso, respingente, ma riuscendo a farci sorridere, ridere, arrabbiarci, empatizzare.

Perché questo è l’obiettivo dì Doughty e ce lo spiega proprio raccontando come la sua esperienza nel sistema funerario americano le abbia fatto cambiare idea sull’obiettivo della sua personale impresa: non rendere “divertenti” i funerali, con i pezzi rock amati dal defunto suonati per i congiunti che bevono punch senza guardare la bara, non “ personalizzarli” aggiungendo inutilità a una lista di costoso merchandising,  ma rendere la morte di nuovo Benaccetta”, in un “bel posto”, con grandi finestre e luce naturale,  dove non sarà negata, nascosta o sterilizzata, ma condivisa.

La morte può essere ingannata, ha imparato Caitlin da bambina, quando il pesce rimasto secco nella boccia d’acqua (a chi non è successo) è stato sostituito dal padre con un altro identico. O dissimulata, come quando i genitori la portarono a mangiare pancake per cancellare il trauma di aver visto una coetanea precipitare dalla balaustra in un centro commerciale, col risultato di creare in lei angoscia, poi rifiuto. “A volte penso a quanto sarebbe stata diversa la mia infanzia se solo mi avessero parlato apertamente della morte, se mi avessero fatto sedere in sua compagnia e stringerle la mano. Ripetendomi che sarebbe diventata la mia amica più cara, che avrebbe influenzato ogni mia mossa o decisione....”.
 
Ogni cadavere è un’avventura, scrive Caitlin. La sua è cominciata facendo la barba al settantenne Byron e sbagliando la direzione della rasatura. Da quella prima esperienza, il suo diario dal crematorio ci svela ogni  risvolto surreale, drammatico, ridicolo della macchina che si mette in moto quando lasciamo questa terra, compresi gli aspetti speculativi. 
L'imbalsamazione, per esempio, divenne un affare durante la guerra di secessione, il conflitto che fece più morti nella storia americana, quando la necessità di evitare la decomposizione sviluppò un agguerrito spirito imprenditoriale e, per la prima volta, trasformò  salme imbellettate in “prodotti” da promuovere e quindi vendere.

Oggi, dal suo sito, Caitlin racconta la morte al tempo del Covid 19, l’epidemia che l’allontana ancora di più dall’essere accolta e benaccetta. Ma per lei, al lavoro su un altro libro, non ci sono dubbi: niente funerali in live streaming.
twitter: @boria_a