domenica 17 dicembre 2023

ARTE

Arturo Nathan, un dipinto ricompare dopo 90 anni

Era conservato in una cantina

 


 


Aveva in casa un dipinto di Arturo Nathan e non sapeva di possedere un piccolo tesoro. Di più: un’opera che da tempo si considerava dispersa. E che ha passato gli ultimi vent’anni in una cantina. Si intitola “L’onda”, anno 1932, un olio su compensato esposto da Nathan, un’unica volta, alla VIII Mostra d’Arte del Sindacato Interprovinciale Fascista delle Arti della Venezia Giulia, tenutasi nel Padiglione Municipale di Trieste tra giugno e luglio 1934, e pubblicata sul catalogo dell’esposizione. Da questo momento se ne perdono le tracce, quasi novant’anni fa.


Il quadro viene citato su tre numeri del Messaggero Veneto del settembre 1948, dove Cesare Sofianopulo scrive della partecipazione di Nathan e Vittorio Bolaffio alla Biennale, poi nel catalogo della mostra tenutasi alla Galleria dei Greci a Roma tra novembre e dicembre 1990, in entrambi i casi senza illustrazione. Nella monografia su Nathan di Enrico Lucchese per la Collana d’Arte della Fondazione CrTrieste del 2009 il dipinto viene riprodotto in bianco e nero ma senza indicazioni di tecnica e dimensioni. Sotto il quadro si legge: ubicazione ignota.


“L’onda” oggi è ricomparsa. E sarà venduta all’incanto martedì 19 dicembre 2023 a Milano, alla casa d’aste “Il Ponte”, partendo da una valutazione di 25-30 mila euro, la più alta tra quelle delle 150 opere della tornata, che offre uno scorcio sulla produzione artistica a cavallo fra i due secoli. Saranno battuti quadri di due maestri dell’impressionismo come Camille Pissarro e Alfred Sisley, del russo Maljavin, del polacco Wojciech Weiss, oltre agli italiani Angelo Morbelli, Achille Befani Formis, Ettore Tito.


La storia del ritrovamento del quadro di Nathan ha dell’incredibile. Lo racconta Elio Gaetano, a capo del dipartimento di Dipinti e Scultura del XIX e XX secolo della casa d’aste, che ha assicurato a “Il Ponte” la vendita dell’opera lavorando con la sua assistente Sofia Mattachini. «Veniamo contattati spesso dai clienti sia per alienazioni che per il servizio di valutazione gratuita - dice Gaetano -. In questo caso ho ricevuto una serie di fotografie di quadri, tra cui c’era “L’onda”. Quando l’abbiamo vista siamo rimasti gelati. Personalmente mi sono occupato della dispersione di beni di famiglie ebree dopo le leggi razziali, ho visto la firma, ho riconosciuto Nathan. E dalla monografia di Lucchese ne ho avuto conferma. Era vicino ad altri quadri privi di importanza, quasi da mercatino. Il proprietario, dalla Lombardia, non aveva consapevolezza del pittore e del valore dell’opera. Nel frattempo - aggiunge Gaetano - la fotografia ha cominciato a circolare, erano infatti stati contattati altri possibili venditori. Ma noi abbiamo capito subito di che cosa si trattava e alla fine con grande soddisfazione siamo riusciti ad assicurarcela. La riscoperta de “L’onda” è un contributo importante agli studi monografici sul pittore triestino. Naturalmente la valutazione che abbiamo assegnato è da asta, per suscitare il maggiore interesse possibile sul dipinto».


L’onda”, olio su compensato firmato e datato in basso a destra, reca sul retro il nome di Arturo Nathan, l’indicazione dell’indirizzo dell’abitazione-studio di via San Francesco 12, Trieste, e il titolo. Sotto, cancellato con un taglio, compare un probabile titolo antecedente, “Spiaggia”. C’è anche l’indicazione della provenienza: Daisy Nathan Margadonna, la sorella di Arturo.

 


 


Per vent’anni il quadro è rimasto in una cantina e il suo stato era pessimo. «Abbiamo provveduto a restaurarlo - spiega Gaetano - consolidando la pittura che veniva via e il compensato. Ora possiamo dire che è in buone condizioni. Fa certamente parte del lotto di opere che Carlo Sbisà inviò, a Roma, dopo i bombardamenti, a Daisy Margadonna. Alla fine della seconda guerra mondiale, la sorella di Nathan vendette delle opere, tra cui “L’onda”. Impossibile risalire ai passaggi che ha fatto da allora, oggi si trova in Lombardia, ricevuta in eredità dall’attuale proprietario».


“L’onda” - dipinto enigmatico, tra paesaggio marino e psichico, come recita la scheda dell’opera - si può vedere dal vivo ancora oggi, nella sede de “Il Ponte” in via Pontaccio 12 a Milano (10-13, 14-18), oltre che sul catalogo online della casa d’aste.


Sembra che Nathan restituisca un frammento alla volta i pezzi mancanti della sua esistenza e della sua esperienza pittorica. Appena un mese fa è stata messa online l’immagine della tomba dell’artista triestino - morto nell’ospedale del campo di Biberach il 25 novembre 1944, a 53 anni - la cui ubicazione era anch’essa sconosciuta. Nathan è sepolto nel cimitero ebraico di Laupheim, in Germania, fila nord 29, lapide 10, come ha testimoniato il conservatore del camposanto, Michael Schick, che non aveva idea di chi fosse il defunto di cui stava curando il sepolcro. Dal 10 gennaio 1946, quando le spoglie di Nathan furono traslate a Laupheim dal cimitero evangelico, nessuno ha mai chiesto informazioni su di lui e sulla sua tomba.


Oggi, da una cantina spunta un dipinto di cui si aveva traccia solo cartacea. «È una perfetta espressione della fase più matura del’artista. Può essere avvicinato a “La sentinella” e “Il forte”, i cui soggetti militari sono probabilmente ispirati dalla lettura delle gesta di Napoleone» si legge nella scheda preparata dagli esperti de “Il Ponte”. I cannoni distrutti portati a riva dalla tempesta, il cielo incombente negli stessi toni della spiaggia: una sintesi efficace degli elementi emblematici della pittura di Nathan, di un travaglio interiore che si fa universale.

lunedì 11 dicembre 2023

MODA & MODI

Il rosso che fa rumore

 

Max Mara, autunno inverno 2023/2024

 

 La modella Liya Kebede avvolta da un fiammante abito di lana sulla copertina di dicembre di Vogue Italia. Poche pagine dopo, le lunghe gambe di Kaia Gerber, distesa su un divano nello scatto di Steven Meisel, sfuggono da un mini abito di Valentino, con pelliccia abbinata, entrambi nella nuance a cui lo stilista ha dato il nome. Da un’altra copertina, quella dell’ultimo 7, l’attrice Elizabeth Debicki, la lady Diana di The Crown, in pantaloni e pull ciliegia, seduta su una sedia di identico colore, fissa l’obiettivo simulando con impressionante verosimiglianza una delle espressioni della principessa.


Il rosso è dappertutto. Sulle riviste e nelle vetrine, non soltanto quelle prevedibili dell’intimo festaiolo. È un rosso totale, non un accenno: si veste dalla testa ai piedi. Forte, imperativo. Ha conquistato anche la Scala nonostante il perentorio anatema di Lella Curiel, la couturier triestina delle prime di Sant’Ambrogio, che ha messo in guardia le signore dal preferire il colore che le farebbe confondere con poltrone e arredi del teatro e quindi sparire, o peggio far tappezzeria.


Che fosse una delle tinte di tendenza per l’inverno 2023-2024 si sapeva da tempo, anticipato sulle passerelle di tutti gli stilisti in una gamma di sfumature che si arricchisce di definizioni, prima fra tutte il rosso Ferrari del film che esce a giorni con Adam Driver. Tomato, lipstick, ruggine, barolo (ma i riferimenti enologici sono molti, ci sono anche l’amarone, il chianti...) per vestiti, tailleur, pellicce, cappotti che bucano i pastosi e soporiferi beige e grigi del quiet luxury, il lusso sotto traccia, mai urlato. Questo rosso invece urla. Ha cancellato il fastidio legato alla lingerie di Capodanno, con tutto il suo scontato e usurato immaginario di aspettative e promesse beneauguranti. Quelle vetrine sempre uguali, anno dopo anno, tra slippini e bustier con pizzi e boxer allusivi, da indossare una volta sola, non per tradizione ma per l’insofferenza verso un acquisto d’impeto, che dopo poche ore è già tristemente datato.


Il rosso di questo scorcio d’anno fa venire in mente quanto scrive Riccardo Falcinelli in Cromorama (Einaudi): “nel mondo contemporaneo il rosso, spiccando rispetto al circostante, è prima di tutto una maniera importante di occupare lo spazio, una presenza egocentrica e volitiva. Più che un significato, è un tratto caratteriale. La Ferrari, il Campari, la Coca-Cola o gli estintori antincendio sono rossi perché il loro ruolo è distinguersi con forza”.


Rosso di consapevolezza, di testimonianza ma anche di rivolta. È stato pensato molti mesi fa, ma ha incrociato una fase planetaria delicata e l’urgenza della cronaca. Così ha perso ogni stucchevolezza festivaliera, per trasmettere piuttosto energia, determinazione, sentimenti di unione e solidarietà trasversali ai sessi, alle generazioni. Un rosso che dice: ho fiducia in me e nelle mie forze, ci sono. Un rosso che fa rumore.

sabato 2 dicembre 2023

IL PERSONAGGIO

Arturo Nathan, scoperta a Laupheim la tomba del pittore triestino morto nel 1944



 

Si aggiunge un tassello alla biografia del pittore triestino Arturo Nathan, il “contemplatore solitario”, come lo definì la mostra del 2022 al Mart di Rovereto, tappa importante nella sua più recente riscoperta. Nathan morì il 25 novembre 1944, a 53 anni, nell’ospedale del campo di Biberach nel Baden-Württemberg, dove era stato trasportato in treno dal lager di Bergen-Belsen. Il pittore era arrivato il 17 novembre minato nel fisico, spirò pochi giorni dopo per un “avvelenamento del sangue”, come si legge negli elenchi del campo. Ma che fine fecero le sue spoglie? Dov’è la sua tomba? Neanche l’articolata biografia firmata da Enrico Lucchese nel 2009 per la Collana d’Arte della Fondazione CRTrieste ne riporta un’immagine (e anche come data di morte, tutt’ora incerta, nel libro si indica il 20 novembre).


Arturo Nathan è sepolto nel piccolo cimitero ebraico di Laupheim. Oggi, dopo quasi ottant’anni, circola online una fotografia della sua tomba. Nella fila nord 29 di Laupheim, sulla lapide numero 10, c’è un’iscrizione in inglese: “In memoria di Arthur Nathan, 53 anni, che morì nel campo di internamento civile britannico Biberach il 25 Novembre 1944”. L’immagine è stata pubblicata da Michael Schick, conservatore del camposanto, a corredo di un suo articolo dedicato al pittore triestino. A sua volta uno studioso di storia tedesco, Reinhold Adler, di Pfullingen, impegnato in una ricerca sul campo di Biberach, l’ha trasmessa ad Alessandro Rosada della Galleria Torbandena di Trieste, da sempre attiva nella tutela e promozione dell’opera di Nathan. Dell’artista, in questi giorni, si può ammirare in galleria “Costa con rovine”, anno 1932, nell’ambito della mostra “Masters”, accanto a un taglio di Fontana, un paesaggio di Morandi del 1913, a una “Danseuse” di Severini.

 

Arturo Nathan sull'Harley Davidson ritratto dall'amico Carlo Sbisà: "Il motociclista", 1932 (già Collezione Lanfranchi, Milano)

 

 «Non sapevo nulla di Nathan - dice Schick - ma quando Adler mi ha segnalato il suo nome ho fatto delle ricerche e sono rimasto sopraffatto dalla scoperta di quale personalità sia sepolta a Laupheim. E sono orgoglioso che, come custode del cimitero ebraico, mi sia permesso occuparmi della sua tomba. Finora non abbiamo avuto contatti con persone interessate a Nathan. Qualche anno fa, forse, c’è stata una richiesta al nostro museo, ma nessuno si è reso conto che si trattava di un artista importante».


Com’era arrivato Nathan a Biberach? Nell’aprile 1943 le SS crearono un altro campo nella parte sud di Bergen-Belsen. Era riservato a gruppi di ebrei che SS e Ministero degli Esteri intendevano scambiare con prigionieri tedeschi internati all’estero, o con valuta straniera e merci, e che quindi avevano salva la vita.
Per gli scambi venivano scelti ebrei in possesso di documenti ufficiali rilasciati dall’autorità britannica, o cittadini di stati occidentali nemici dei nazisti o che avessero ricoperto alte cariche nelle organizzazioni ebraiche. Nathan aveva anche la nazionalità inglese, perchè inglese era suo padre Jacob, sposato con la triestina Alice Luzzatto.
Le SS avevano organizzato campi separati per i prigionieri da scambiare: il Campo Stella per gli olandesi, il Campo Ungheria per gli ungheresi, il Campo Speciale per gli ebrei polacchi e il Campo Neutrale per i cittadini di stati neutrali. Secondo i numeri forniti da Schick, da luglio 1943 a dicembre ’44, almeno 14.600 ebrei furono trasportati nel campo di scambio di Bergen-Belsen, tra cui 2.750 bambini e ragazzi. I cancelli si aprirono solo per 2560 di loro.

 

"Pomeriggio d'autunno", 1925 (Courtesy Galleria Torbandena Trieste)

 


A Bergen-Belsen non c’erano camere a gas, ma le condizioni di vita erano terribili e i prigionieri morivano a migliaia. Al campo di scambio si sopravviveva: gli internati potevano portare un bagaglio personale, vestire abiti civili e, di nascosto, praticare il loro culto. Era un campo per famiglie, non per persone singole. Questo potrebbe spiegare la presenza negli elenchi di Jeannette Nathan, erroneamente indicata nell’articolo di Schick come la moglie di Arturo. Jeannette, nata a Londra da genitori italiani, Enrico e Carolina Piazza, di dieci anni più vecchia di “Arti”, era stata internata a Fossoli, vicino a Carpi, il 29 ottobre 1943. Anche Nathan passò di là, proveniente dal confino nelle Marche, prima a Offida poi a Falerone, dove restò fino l’8 settembre 1943, quando fu deportato dalle truppe di occupazione tedesche. I due si dichiararono coniugi ai nazisti per evitare l’eliminazione immediata una volta entrati nel lager in Germania. A Bergen-Belsen furono trasportati insieme a un gruppo di ebrei con passaporto britannico arrestati dagli italiani a Tripoli e Bengasi e poi passati nei campi di transito in Italia. Tutti soffrivano di malattie infettive agli occhi e di ulcere.

 

"Rupi vulcaniche", 1933, Collezione privata

 


Nel gennaio 1945, grazie alla mediazione della Svizzera, era previsto uno scambio tra prigionieri tedeschi e americani. Trecentouno ebrei di Bergen-Belsen, tra cui Nathan e le famiglie di Lazar Schönberg e John Hasenberg, furono caricati su un treno della Croce Rossa diretto a Costanza, città individuata per la consegna degli americani. Il treno si fermò a Biberach, dove fu scaricato il corpo di John Hasenberg, morto sul convoglio. Quaranta prigionieri vennero fatti scendere e portati nel campo Lindele, mentre il loro posto fu preso da quarantadue americani destinati allo scambio. La tappa successiva fu Ravensburg. Stessa procedura: salirono prigionieri americani e altri ebrei dovettero abbandonare il treno, per essere trasferiti in caserma a Weingarten e il giorno dopo al campo Lindele di Biberach, che dal ’42 accoglieva prigionieri con documenti britannici.
Nathan vi fu lasciato il 17 novembre 1944. Otto giorni dopo moriva di stenti e della cancrena che gli aveva divorato la gamba. Il 28 novembre trovò sepoltura nel cimitero evangelico. Fu Jeannette a comunicare alla sorella Daisy Nathan Margadonna, a Roma, la morte di Arturo: lo dice lei stessa al Piccolo in un’intervista di Gabriella Ziani, nell’edizione del 20 settembre ’96. Dopo la guerra, le spoglie dell’artista furono traslate nel cimitero ebraico di Laupheim, dove giacciono dal 10 gennaio 1946. Nella stessa fila in cui si trova la tomba del pittore sono sepolti anche Lazar Schönberg e John Hasenberg, con cui era salito sul treno a Bergen-Belsen.

 

"L'incendiario", 1931, Museo dell'Ermitage, San Pietroburgo

 

Il Journal of Italian Translation, rivista letteraria di New York, che dedica ogni numero all’approfondimento di un artista italiano, nell’edizione della primavera 2023 pubblica le immagini di quindici opere di Nathan, corredate da una biografia dell’artista firmata da Marilena Pasquali, storica dell’arte e presidente del Centro Studi Giorgio Morandi e da un racconto di Alessandro Rosada, “Nathan nelle città”, tradotto da Anthony Molino. Apre la selezione di immagini “L’esiliato” del 1928, chiude “L’asceta” del 1924: in mezzo una galleria di rupi, frammenti, resti di barche, bastimenti persi in un orizzonte lattiginoso, torri spezzate, come fu spezzata la vita di Nathan all’annuncio delle leggi razziali. E l’“Autoritratto con gli occhi chiusi” del 1925, dietro i quali rimane insondabile il suo mistero.

MODA & MODI

Demna, il re è nudo

Anzi, con l'asciugamano 



 

Genialata o provocazione? Demna (è il Gvasalia direttore creativo di Balenciaga, ma ha vezzosamente abbandonato il cognome anche per marcare le distanze dal fratello Guram, rimasto alla guida dell’ex marchio comune, Vetements) insiste nel suo codice di comunicazione: prendere un oggetto banale, brandizzarlo, e mandarlo in passerella come oggetto del desiderio. È successo con la shopping bag Frakta di Ikea (0,75 centesimi) che in pelle versione Balenciaga svettava a quasi 1700 euro, proprio come la Trash Pouch dell’anno scorso, il sacco dell’immondizia riconvertito in borsa a mano per lo stesso prezzo. E così via di stagione in stagione, con i media che assecondano il gioco e si interrogano sul concetto, anzi sul “concept” sotteso alle crocs col tacco, ai sacchetti di patatine come pochette, alle sneakers distrutte in edizione limitata, il cui modello di punta tocca i 1450 euro.

 L’ultima trovata è la più estrema, senza neanche la foglia di fico della materia prima di pregio. Un asciugamano beige di spugna, due bottoni interni e il logo stampigliato frontalmente, da portare a portafoglio, effetto uomo docciato o che si cambia il costume in spiaggia. È la ”Towel Skirt”, prezzo in pre-order sul sito 695 euro, con l’avvertenza “dry cleaning” che porta l’operazione a livelli sublimi di presa in giro. Appunto: genialata o provocazione? Giornali e riviste online si dividono tra chi pontifica con sprezzo del ridicolo su “Demna che vuole rendere glamour anche la doccia del mattino” e chi riflette sull’abilità del designer georgiano, ora lussuosamente radicato a Zurigo, di denunciare la perversione dei loghi. Insomma, sarebbe una sorta di spavaldo attacco dall’interno del sistema alla clientela esclusiva che può spendere centinaia di euro per un asciugamano logato con le due B a specchio, del tutto uguale a quello replicato per scherzo su Instagram da Ikea Uk per 16 sterline.


Genio o provocatore? Demna sembra piuttosto scollato rispetto al tempo e ai tempi. Dopo che un anno fa l’intero mondo della moda gli ha dato addosso per la campagna pubblicitaria con le borse-orsetto sadomaso sui bambini, ci si aspettava un cambio di linguaggio, anche per non irritare il gruppo del lusso Kering, a cui conti, posizionamento e reputazione del brand certo non sfuggono. Invece, con la gonna in spugna, il designer persevera nell’“ironia da saper cogliere”, come la definiscono molti giornali, mentre i post dei consumatori propendono per la porcheria griffata e la presa in giro (non con le stesse parole).


Non c’è nulla in queste proposte della grazia e dell’ironia di Moschino o di Gaultier, sempre sostenute da taglio e materiali, nulla dell’esigenza di sostenibilità, durata, qualità, riutilizzo che il Covid ci ha lasciato. L’impennata dei prezzi dei beni di lusso va esaurendosi, come l’ansia obnubilata da revenge shopping post-pandemia. Nel ripetersi Demna non trasmette la convinzione di un’idea ma solo la sua mancanza. E la difficoltà a leggere i segnali di un mondo cambiato. Il re è nudo, o con l’asciugamano?