domenica 16 luglio 2017

MODA & MODI

Il soft power degli abiti parlanti






Le first lady hanno un potere “soft” ma determinante. Sono i messaggi che le signore in primo piano nella politica internazionale lanciano attraverso gli abiti delle occasioni ufficiali.
Scelte tutt’altro che casuali o affidate solo al gusto e alle predilezioni personali. Al contrario, la selezione del guardaroba per questi appuntamenti è preceduto da un certosino studio delle date, delle tinte, degli anniversari, dei designer, dei significati espliciti e impliciti. Veri e propri manifesti. Codici subliminali che sono altrettanti omaggi al paese ospitante quanto sottolineature della leadership del proprio.


Michelle Obama è stata un’indiscussa maestra della strategia

dell’abito, riuscendo a coinvolgere e coordinare nella comunicazione visiva entrambe le figlie, in un’apparente e studiatissima spontaneità. Ha indossato vestiti per veicolare idee, impegni, adesioni, senza un designer designato, un prescelto, ma pescando tra tanti, noti e quasi ignoti, americani e stranieri, come a dire: nel mio guardaroba e nel nostro paese c’e posto per tutti e tutti troveranno qualcosa per loro.


Melania Trump, nei giorni scorsi a Parigi, ospite col marito Donald per la festa nazionale francese, ha un approccio diverso, più controllato e meno fantasioso, ma ugualmente efficace. Tailleur rosso all’arrivo, firmato Dior, in un tributo ai settant’anni della maison francese con uno dei suoi pezzi iconici, la giacca Bar su gonna a corolla, lo stesso pezzo che apre la mostra storica del couturier al Musée des Arts Décoratifs. Il rosso, insieme al bianco e al blu, sono colori di entrambe le bandiere, e Melania, tessitrice di una sottile diplomazia cromatica, li ha ripresi sia alla cena con i padroni di casa Macron alla Tour Eiffel, sia alla parata alla Bastiglia, scegliendo un abito senza maniche di Valentino (italiano sì, ma che sfila a Parigi) cosparso di tulipani rossi e fiordalisi, quest’ultimo per i francesi fiore del ricordo (nell’occasione il centenario dell’ingresso degli Usa in guerra al fianco della Francia).


Ma c’è un altro elemento che parla: la lunghezza delle gonne di Melania, sempre sotto il ginocchio. Ovvero: discrezione, consapevolezza del ruolo e della solennità del momento. Una scelta intelligente, che ha fatto sembrare le ginocchia scoperte della première dame Brigitte, per ora sempre fedele ai miniabiti cernierati della nazionalissima maison Vuitton, poco chic e un po’ cheap. Relegandola, e a casa sua, al ruolo di comprimaria.

@boria_a

mercoledì 12 luglio 2017

IL LIBRO

Baby modelle, un mestiere da dure


Flavia Piccinni, scrittrice e giornalista




 A quante bambine viene detto «Che carina! Ha un visetto da pubblicità». Solo un complimento un po’ abusato, generalmente a beneficio delle mamme? No, per molte di loro, dai due ai dieci anni, la pubblicità è un lavoro. Set fotografici, passerelle, concorsi per mini miss, riviste e cataloghi, un mondo dove le piccole devono imparare presto a muoversi, a sorridere a comando, a essere attraenti e simpaticamente maliziose ma disciplinate come soldatini. A non bere, non dormire, a trattenere la pipì e soprattutto non fare capricci. Con uno spettro all’orizzonte, quasi una data di scadenza: il metro e venti, misura limite per “divine” e “lolitine”, superata la quale il mondo delle baby passerelle si chiude senza pietà.

“Bellissime” (Fandango, pagg. 199, euro 16) della scrittrice e giornalista Flavia Piccinni è un reportage inquietante e interessantissimo all’interno di un ambiente di cui si sa poco, anche per la sua stessa chiusura a riccio: i set, la pubblicità, le passerelle che coinvolgono bambini. L’autrice ha attraversato l’Italia, ha seguito casting e sfilate, ha fatto parlare le bambine, i loro genitori, ha raccontato come lavorano (e si fanno la guerra) le agenzie dei “modellini”, i fotografi, i truccatori. Ha sentito esperti ed ex baby noti. Ha registrato sogni, ambizioni (spesso follie) di mamme e papà, ha raccolto le parole, le ingenuità e le frustrazioni, dei piccoli protagonisti, che a volte piccoli ormai non sono più.
Quello che ne esce è un ritratto inedito e a volte sinistro, di un universo dell’immagine, dove, fin dalla culla, si formano e si perpetuano modelli di comportamento e stereotipi che possono lasciare segni indelebili nella psiche dei bambini.


«Mi ha incuriosito - racconta Piccinni - questo piccolo mondo in miniatura che produce un immaginario in grado di influenzare tanto i bambini italiani quanto – poiché l’Italia è uno fra i più importanti produttori al mondo di moda bimbo – l’intero pianeta. E mi interessava anche capire il rapporto dei bambini con la bellezza, con questo universo di adulti che gravitano loro intorno e non sono né genitori nè amici. Mi interessava capire il terrore della demonizzazione che dilaga fra gli addetti ai lavori, e soprattutto guardare cosa si nascondeva dietro le sfilate e le riviste patinate perché prima nessuno nel nostro Paese lo aveva fatto». 

Come sono le bambine che ha incontrato? «Molto diverse fra di loro. Ci sono piccole starlette in miniatura che sognano di fare le attrici e le modelle, e considerano quello che fanno come un lavoro, e quelle che invece hanno un rapporto di vero gioco, un rapporto inconsapevole, a tratti innocente, con le sfilate e le pubblicità. Altre dicono invece che si tratta di un gioco, ma hanno rapidamente imparato il potere delle fotografie e dei social network dove la loro immagine viene diffusa. Generalizzare è rischioso, ma quasi tutte sono bambine modelle, non solo bambine. Alcune, come mi ha raccontato Giovanna Goglino, nota negli anni Novanta per essere la protagonista di quasi tutti gli spot di Barbie, ci mettono poi anni per metabolizzare che cosa facevano: “Quando mi guardavo in tv mi imbarazzavo, non mi sembravo io”. Ecco, mi piacerebbe sapere che cosa proveranno fra dieci anni queste bambine».


Una delle piccole intervistate le ha detto “I bambini brutti sono tristi”. Che cosa c’è dietro una frase del genere? «C’è il mondo degli adulti che non sa fare da filtro. C’è la crudele innocenza di una bambina che ha imparato a dividere il mondo in base all’apparenza».


E le madri? «Le generalizzazioni, come ho detto poco fa, sono sempre pericolose. Ma il rapporto che lega madri e bambine, madri e immagine, madre e mondo della moda ha spesso dei confini inquietanti. Ci sono madri che accompagnano il bambino in un percorso di crescita alternativo, e lo fanno con allegria e divertimento. E ci sono mamme esaltate, che esercitano sulle figlie un transfer meticoloso e ossessivo. Un esempio? Ho visto bambine disperarsi per non essere state prese a dei casting. Il loro problema non era non essere state scelte, ma il giudizio che le mamme avrebbero espresso su di loro, non considerandole all’altezza».


Che cosa spinge genitori a svenarsi per un casting? «La necessità di apparire e l’aspirazione a un salto sociale, o anche solo l’istantanea appartenenza a un mondo di lustrini, ambitissimo ed esclusivo». 


In America il fenomeno è un business miliardario. Che cos’è la “principessizzazione”? «È un processo che spinge le bambine a diventare piccole principesse, proponendo loro dei rigidi schemi corporei ed emozionali. È un meccanismo perverso e rischiosissimo, che devasta e annulla le aspirazioni infantili, trasportando i bambini in un mondo di adulti».



Honey Boo Boo, star di Little Miss America


Quali sono i possibili danni psicologici? «Esistono pochi studi scientifici, promossi su campioni sempre molto bassi. Gli esperti con cui ho parlato concordano nel sottolineare che il mondo che il bambino abita porta con sé l’equilibrio precario che costituirà l’adolescente e dunque l’adulto. Il rischio più comune sollevato dagli studi scientifici, oltre a una distorta percezione di sé, è quello relativo ai disturbi alimentari che si manifestano già nella pubertà. Molte bambine, quando chiedevo loro cosa volesse dire “essere belli”, mi hanno risposto “essere magri. Molto magri”. Penso che sia una risposta su cui riflettere». 


La bellezza prima della scuola, dello sport, degli amici… Che stereotipi assorbono soprattutto le bambine? «Quelli che il patriarcato suggerisce da sempre, e che oggi si mostrano nel loro agghiacciante anacronismo: l’importanza del compiacere, la necessità obbligatoria per una donna di essere graziosa, bella, gentile e accudente. Sono stereotipi presenti nella nostra società in modo trasversale, che spesso non riescono ad essere elaborati neanche da donne mature. Figuriamoci da bambine che vivono di rapporti disequilibrati, come sempre sono quelli fra adulti e bimbi». 


Lei accenna alla tragica vicenda della piccola Fortuna, abusata e uccisa a Caivano. Aveva sei anni e le pose di una lolita in miniatura… «È un caso molto complesso, difficile da sintetizzare in poche parole. Posso però dire che spesso ho trovato nelle madri che cercavano involontariamente di adultizzare le figlie, modellando su di loro dei criteri di bellezza adulta, l’inconsapevolezza di quello che stavano facendo. Il loro desiderio era quello di creare figlie belle e forti, gli unici mezzi a disposizione quelli esercitati sul loro aspetto. Il risultato? Un’apparenza adulta su corpicini e menti acerbe». 


Si è concluso da poco Pitti Bimbo. Che cos’è dietro le passerelle? «È festa e gioco, ma anche sfilate che si rivelano incubi: a gennaio 2017 ho partecipato a un evento che ha avuto una risonanza nazionale, di cui tutti gli insider sono a conoscenza, dove ai bambini non era stata data l’acqua durante le prove. Successe un putiferio nell’ambiente, ma nessuno nella stampa ne parlò. La moda bimbo è un ambiente che teme la demonizzazione e tende a chiudersi. Eppure per le ricadute che ha sull’immaginario collettivo è un tema che riguarda tutti noi». 


E quando finisce l’età per essere baby modelli? «Si entra in un girone infernale che si chiama vita. Non si è più abbastanza piccoli per sfilare nel mondo bimbo, e non si è abbastanza grandi per sfilare in quello adulto. Dunque ci si ferma, si prova con le pubblicità e con la televisione, alcune volte con il cinema. Ma spesso si lascia. Una bella bambina difficilmente diventa una bella ragazza. E se da piccolissimi non sono richieste competenze, crescendo le cose cambiano e l’impegno necessario per emergere demoralizza molti». 


C’è una storia emblematica che le è rimasta impressa? «Due. Una bambina molto bella che mi ha detto: “Da grande voglio fare la popstar, e so che per questo mi dovrò impegnare tanto e studiare”. E un’altra che mi ha detto: “Voglio fare l’attrice perché mi piace quando mi fotografano”. La prima rivela, al contrario della seconda, un mondo in cui il bambino vive una realtà mediata da una madre attenta. Purtroppo, devo ammetterlo, sono di più le seconde».
@boria_a

sabato 8 luglio 2017

IL LIBRO

 Giulia Gianni, la bionda e la gravidanza arcobaleno






Giulia, la bionda, e un piccolo nanetto sdentato che attende di venire al mondo. La ricerca della maternità è un percorso accidentato e pieno di imprevisti per molte coppie, figurarsi se quella protagonista di questa storia è omosessuale e, prima ancora che come famiglia omogenitoriale, deve farsi accettare proprio come “famiglia” tout court. Perchè siamo in Italia, le unioni civili sono materia recente e ancora incandescente e i bambini arcobaleno sono costretti a sfilare fin dalla carrozzina per rivendicare i loro diritti, a cominciare da quello di avere due mamme o due papà. E perchè il paese, ma soprattutto il web, pullula di “esibizionisti”, “mistici” e “omafobi” (sì, proprio con la “a”), tutti attestati su diversi livelli di avversione per gay e lesbiche e, nel caso dell’ultima categoria, pure seriamente convinti di essere campioni di apertura mentale e tolleranza. Della serie, “non sono omofobo, ma...”, dove in quel “ma” si aprono abissi inesauribili di astio.


Giulia Gianni


Giulia e la sua “bionda” sono una famiglia. Di nome e di fatto, ma soprattutto per amore. E le loro tragicomiche avventure alla ricerca e poi nell’attesa del figlio - il nanetto che hanno messo in cantiere, per il momento solo nella loro testa, su un’isola spagnola - riempiono di leggerezza, ironia e allegria le oltre cinquecento pagine di “Stiamo tutti bene” (La Nave di Teseo, euro 18,00), firmato da una delle due aspiranti mamme, Giulia Gianni, di professione sceneggiatrice.


Il libro nasce dall’omonimo blog che Giulia ha cominciato a scrivere nel 2014 per raccontare la sua storia, quella della sua compagna, degli amici e degli “omafobi” che vivono loro intorno, ma soprattutto il lungo viaggio, durato sette anni, verso quell’isola misteriosa dove il “nano” sta aspettando che le sue due mammme vengano a prenderlo. Un diario virtuale che, con intelligenza, delicatezza e molto umorismo, affronta i temi dei diritti degli omosessuali, senza partire lancia in resta, senza proclami o talebanismi, ma semplicemente condividendo, giorno per giorno (e con qualche gustoso flashback su infanzia, genitori, pregresse esperienze “etero”) l’emozione della maternità. Che accomuna tutti, etero e omo, con le stesse ansie e aspettative. Come tutte le famiglie, se si fondano sull’amore e sul rispetto, sono in fondo accomunate.


Del blog - oltre a Elisabetta Sgarbi per la versione libro - si è innamorato il regista Ivan Cotroneo, che ha acquistato i diritti per trasformarlo in una serie televisiva. Tempi, linguaggio, situazioni sono perfetti, una sceneggiatura quasi pronta, e senza traccia di quella fastidiosa artificiosità dei polpettoni seriali italiani, dove omosessuali, disabili, soggetti in preda a dipendenze varie sono spesso ammucchiati a esclusivo beneficio dell’audience (e del politically correct).


Eccoci dunque a vivere anche noi con Giulia e “la bionda”, giorno per giorno, la confezione del nano. Che comincia, visto che siamo in Italia, dalla scelta del paese per la fecondazione eterologa, prima caduta su un’algida ed efficientissima clinica danese, poi, causa ripetuti insuccessi e il tempestivo consiglio di Remedios, ex fidanzata della bionda, virata su una clinica di Alicante, con dottoressa meno Barbie Regina dei Fiordi e più “almodovariana”. Decollato finalmente il nano, la gravidanza di Giulia non si discosta troppo da quella di ogni futura mamma - acquisti compulsivi, ormoni impazziti, corsi pre-parto, casting di pediatri - se non per un piccolo dettaglio: occorre spesso chiarire - a “omafobi” e sanitari - che la signora che assiste trepidante alla lievitazione del pargolo sotto l’occhio gelatinoso dell’ecografo viene definita “compagna” non per un rigurgito marxista-leninista della gestante...


Quanto ai futuri nonni (che un gay in carne e ossa non lo avevano mai conosciuto...), la loro prima reazione è di incredulità e scetticismo. Sarà che Giulia esordisce con quell’invito a sedersi che, a scadenza scientificamente decennale, annuncia sfracelli in arrivo: a nove anni un inconsapevole acquisto di rari francobolli che minaccia la stabilità economica della famiglia, a diciannove, l’interrail della maturità in compagnia, altrettanto inconsapevole, di un assassino evaso. Ma quando Giulia esibisce le prove, referto e foto del nascituro, i genitori vanno in visibilio e si attaccano al telefono per comunicarlo a parenti e amici, anche quelli di cui l’interessata aveva perso memoria.


La società non è pronta ai figli di coppie gay? Non è vero, ci dice Giulia Gianni, perchè una società rispettosa di tutti sta già nascendo, anche solo per il fatto che un omafobo, o un indifferente, cambiano percezione e prospettiva. Nella busta con la prima ecografia del nano c’è un mondo già in trasformazione. E questo non è un finale da fiction.

@boria_a

lunedì 3 luglio 2017

IL PERSONAGGIO

Le foto segrete di Marcello Dudovich


Marcello Dudovich negli anni Quaranta (tutte le foto appartengono all'archivio di Salvatore Galati)


La foto e il bozzetto per il manifesto della Rinascente (1926-1928)


Un caso che si trasforma nella passione di una vita. Salvatore Galati era un ventiquattrenne studente di Medicina a Milano quando un antiquario, con il negozio vicino alla sua abitazione, incominciò a interessarlo alla grafica pubblicitaria. Gli mostrò i lavori di Marcello Dudovich e fu l’inizio di un’avventura che dura tutt’ora, a trent’anni di distanza, fatta di acquisti, di pazienza, di dedizione, di incontri. La collezione di Galati, oggi uno psichiatra con studio a Milano, è la più completa sul celebre pittore e cartellonista triestino. Centocinquanta tra tempere, dipinti a olio e disegni, messi insieme battendo antiquari e aste. Con una caratteristica: «Raccolgo - spiega - solo opere non a stampa. Mi piace che si vedano le incertezze, il guizzo dell’artista».

C’è però un’altra parte importante della vita di Dudovich che Galati conserva: l’intero archivio fotografico della famiglia, circa seicento immagini, inedite. Un corpus ricchissimo che restituisce l’infanzia di Marcello, fin dai primissimi mesi, i genitori, poi la moglie, la giornalista di moda Elisa Bucchi, la figlia Adriana, le sue amiche, il marito pittore Walter Resentera, le tantissime donne che di Dudovich furono muse e modelle.


La collezione fotografica è stata già prenotata per la prima mostra integrale, in calendario nel 2019 al m.a.x. di Chiasso, il museo di arte grafica che in questi giorni ospita “La Rinascente. 100 anni di creatività d’impresa attraverso la grafica”, omaggio al primo secolo del lussuoso grande magazzino milanese, allestito in contemporanea al tributo principale, a Palazzo Reale di Milano, intitolato “Rinascente. Stories of Innovation” (fino al 24 settembre 2017). Dopo Chiasso, l’archivio fotografico potrebbe essere esposto a Monaco, dove Dudovich fu chiamato nel 1911 dalla casa editrice “Albert Langen” per lavorare come inviato speciale del periodico di satira politica e sociale “Semplicissimus”, rimanendovi fino al 1915.



Marcello Dudovich con la figlia Adriana su una decapottabile negli ani Venti







 
"Acquisto ad occhi chiusi alla Rinascente" (1948-1950), bozzetto per la copertina e relativo catalogo


 
Una modella di Dudovich (1926-1927)


L’interesse intorno agli album di casa Dudovich si è riacceso proprio in occasione degli allestimenti sull’anniversario della Rinascente, perchè a entrambi Galati ha prestato pregevoli pezzi, come fece anche per la prima monografica organizzata tra il 2002 e il 2003 al Museo Revoltella di Trieste e curata dall’allora direttrice Maria Masau Dan e dal giornalista e scrittore Roberto Curci. Le collezioni dell’archivio Galati contano duemila pezzi dall’Art Noveau alla seconda guerra mondiale, tutti originali: bozzetti, fotografie, stampe, documenti e curiosità varie.


È nel 1921 che Dudovich comincia una lunghissima collaborazione con la Rinascente, firmando manifesti che, nell’arco di trent’anni, sono una testimonianza straordinaria dell’evoluzione dell’estetica, della moda, del gusto. «A Palazzo Reale - dice Galati - di mio sono in mostra una trentina tra immagini, tempere e disegni preparatori dei manifesti. C’è un grande bozzetto inedito a colori formato manifesto e alcune immagini di Nives Comas Cattani, figlia della sorella di Dudovich, Itala, sua allieva e poi modella, che sono direttamente riconducibili ai manifesti degli archivi della Rinascente. A Chiasso un’intera sala è stata dedicata a Dudovich, dove ho esposto una decina di opere, un quaderno, cartoline e disegni preparatori per le grafiche».


Galati si è assicurato l’archivio fotografico dell’artista triestino con pazienza e un po’ di fortunata strategia. Due i destinatari del patrimonio lasciato da Dudovich: il principale è Gianpaolo Resentera di Schio, nipote di Walter, il marito di Adriana Dudovich; l’altra erede è Antonella Casati Cattani, nipote di Nives.
Difficile conoscere i passaggi di mano, unici o plurimi, delle preziose immagini. A un certo punto, però, finirono sul mercato ed entrarono in possesso dell’emittente televisiva Telemarket, fondata nell’82 da Giorgio Corbelli e specializzata in quadri, tappeti, gioielli, antiquariato, che proponeva al pubblico in colorite aste televisive. Telemarket mise subito in vendita mille disegni e lasciò per ultimi sei album e tutte le fotografie dell’archivio, affidandoli alla Finarte, casa d’aste milanese gestita dallo stesso Corbelli. Le foto di Dudovich andarono all’incanto a decine di migliaia di euro. Troppo, anche per un cultore come Galati.


Nel 2012 fallì la Finarte, un anno dopo Telemarket. Cominciò l’alienazione di tutto il magazzino a prezzi più abbordabili e fu allora che lo psichiatra si assicurò l’archivio (rimasto invenduto) di casa Dudovich. «È un materiale ricchissimo, che sto provando a ordinare. Nessuno sapeva che Dudovich avesse fatto tante fotografie», assicura. «Nelle immagini sono ritratte alcune modelle che ritrovo nei disegni e nei bozzetti che posseggo, quindi nel manifesto finale. È emozionante seguire tutto lo sviluppo dell’opera».


Galati possiede anche rari bozzetti pubblicitari di Nives Comas Casati - nipote di Marcello e a sua volta pittrice, costumista, decoratrice, donna brillante e fascinosa, animatrice negli anni Trenta della vita mondana di Ferrara - correlati a corrispondenze con lo zio in cui gli suggeriva come attualizzare il suo stile, disegnando donne moderne in tute sportive e non più con abbigliamento “alla Lollo”. Tra i bozzetti della vasta collezione Galati, anche una decina di un altro celebre triestino, Leopoldo Metlicovitz (1868-1944), considerato uno dei padri del moderno cartellonismo. Fu grazie a lui, amico del padre e già affermato, che Marcello fu assunto come litografo alle Officine Grafiche di Milano nel 1897.


Intorno a Dudovich, e ai suoi tratti così eleganti e contemporanei, l’interesse non si spegne. Nel 2006, a Berlino, una mostra intitolata “La tavolozza di Marcello Dudovich”, con catalogo Modiano, aveva presentato schizzi e disegni dell’archivio Galati, da cui emergevano la sensibilità dell’artista nel ritrarre la figura femminile, l’attrazione verso la vita mondana, il ruolo del paesaggio. L’anno dopo l’esposizione veniva replicata a San Donà di Piave.


E Trieste, quattordici anni dopo l’allestimento al Revoltella? «Nel 2014 avevo scritto agli uffici Cultura dell’amministrazione - racconta il collezionista - ma non ho mai avuto risposta». Così, per vedere le seicento foto dell’archivio Dudovich per la prima volta tutte insieme, bisognerà aspettare un paio d’anni, e far visita al museo della grafica di Chiasso. A meno che, nel frattempo, nel 2018, da queste parti succeda un miracolo.

@boria_a

domenica 2 luglio 2017

MODA & MODI

Le espadrillas vampirizzate 














Ci aveva già provato la birkenstock, un paio di anni fa. Mettersi un po’ di puzza sotto il naso e scrollarsi dai piedi la rassicurante, germanica bruttezza. Aveva venduto l’anima a un brand di lusso, che l’aveva subito rinominata “field sandal”: una mano di colore alle cinghiette e alle suole, un po’ di make-up sulle inconfondibili forme tagliate con l’accetta, e pretendeva di assurgere al livello 2.0, di essere promossa “glam” a suon di centinaia di euro. Quest’anno l’operazione “reloaded” prende di mira le espadrillas, scarpette estive e spensierate per eccellenza, trasversali e transgenerazionali, versatili e poco capricciose.

Con la tela scolorita dal sole e bordata dal bianco della salsedine, con la suola di corda mangiata dalla strada e dalla sabbia, questa ciabattina dalla storia antica, calzatura dei contadini dei Pirenei nel Trecento, nell’estate 2017 è stata vampirizzata dalle griffe. Che ne hanno fatto una scarpa ogm, più grande, più colorata, senza imperfezioni: l’hanno montata su un plateau di quaranta centimetri, l’hanno coperta di borchie per renderla rock, le hanno disegnato sopra fiori e frutta adatti alle passerelle “cruise” (quelle schizofreniche che in pieno inverno propongono abitini svolazzanti, perchè per i top spender, gli acquirenti che non badano al portafoglio, le stagioni sono un’opinione e c’è sempre una nave da prendere in qualche angolo del pianeta...). Infine, l’hanno sventrata e trasformata in un anonimo sandaletto modaiolo, con cinghie e lacci intorno alla caviglia, privandola della sua incommensurabile qualità: poter essere tolta e calzata con un dito. Senza armeggiare, senza perdere tempo, occasioni, momenti di libertà.

Ma lo sfregio peggiore è l’espadrilla brandizzata. A questo servono le borchie e gli altri superflui ammenicoli piazzati sulla tomaia: a disegnare loghi inconfondibili, per renderla desiderabile a torme di ragazzine Instagram-dipendenti che altrimenti non la degnerebbero di uno sguardo. A riconvertire la calzatura della rilassatezza vacanziera, anonima e global, vagamente qualunquista, in una scarpetta “must have”. L’originale piaceva a Audrey Hepburn e Brigitte Bardot, la versione riveduta e corretta va bene a qualsiasi “influencer”. Con un marchio addosso, l’espadrilla è diventata più anonima che mai.
@boria_a