mercoledì 12 luglio 2017

IL LIBRO

Baby modelle, un mestiere da dure


Flavia Piccinni, scrittrice e giornalista




 A quante bambine viene detto «Che carina! Ha un visetto da pubblicità». Solo un complimento un po’ abusato, generalmente a beneficio delle mamme? No, per molte di loro, dai due ai dieci anni, la pubblicità è un lavoro. Set fotografici, passerelle, concorsi per mini miss, riviste e cataloghi, un mondo dove le piccole devono imparare presto a muoversi, a sorridere a comando, a essere attraenti e simpaticamente maliziose ma disciplinate come soldatini. A non bere, non dormire, a trattenere la pipì e soprattutto non fare capricci. Con uno spettro all’orizzonte, quasi una data di scadenza: il metro e venti, misura limite per “divine” e “lolitine”, superata la quale il mondo delle baby passerelle si chiude senza pietà.

“Bellissime” (Fandango, pagg. 199, euro 16) della scrittrice e giornalista Flavia Piccinni è un reportage inquietante e interessantissimo all’interno di un ambiente di cui si sa poco, anche per la sua stessa chiusura a riccio: i set, la pubblicità, le passerelle che coinvolgono bambini. L’autrice ha attraversato l’Italia, ha seguito casting e sfilate, ha fatto parlare le bambine, i loro genitori, ha raccontato come lavorano (e si fanno la guerra) le agenzie dei “modellini”, i fotografi, i truccatori. Ha sentito esperti ed ex baby noti. Ha registrato sogni, ambizioni (spesso follie) di mamme e papà, ha raccolto le parole, le ingenuità e le frustrazioni, dei piccoli protagonisti, che a volte piccoli ormai non sono più.
Quello che ne esce è un ritratto inedito e a volte sinistro, di un universo dell’immagine, dove, fin dalla culla, si formano e si perpetuano modelli di comportamento e stereotipi che possono lasciare segni indelebili nella psiche dei bambini.


«Mi ha incuriosito - racconta Piccinni - questo piccolo mondo in miniatura che produce un immaginario in grado di influenzare tanto i bambini italiani quanto – poiché l’Italia è uno fra i più importanti produttori al mondo di moda bimbo – l’intero pianeta. E mi interessava anche capire il rapporto dei bambini con la bellezza, con questo universo di adulti che gravitano loro intorno e non sono né genitori nè amici. Mi interessava capire il terrore della demonizzazione che dilaga fra gli addetti ai lavori, e soprattutto guardare cosa si nascondeva dietro le sfilate e le riviste patinate perché prima nessuno nel nostro Paese lo aveva fatto». 

Come sono le bambine che ha incontrato? «Molto diverse fra di loro. Ci sono piccole starlette in miniatura che sognano di fare le attrici e le modelle, e considerano quello che fanno come un lavoro, e quelle che invece hanno un rapporto di vero gioco, un rapporto inconsapevole, a tratti innocente, con le sfilate e le pubblicità. Altre dicono invece che si tratta di un gioco, ma hanno rapidamente imparato il potere delle fotografie e dei social network dove la loro immagine viene diffusa. Generalizzare è rischioso, ma quasi tutte sono bambine modelle, non solo bambine. Alcune, come mi ha raccontato Giovanna Goglino, nota negli anni Novanta per essere la protagonista di quasi tutti gli spot di Barbie, ci mettono poi anni per metabolizzare che cosa facevano: “Quando mi guardavo in tv mi imbarazzavo, non mi sembravo io”. Ecco, mi piacerebbe sapere che cosa proveranno fra dieci anni queste bambine».


Una delle piccole intervistate le ha detto “I bambini brutti sono tristi”. Che cosa c’è dietro una frase del genere? «C’è il mondo degli adulti che non sa fare da filtro. C’è la crudele innocenza di una bambina che ha imparato a dividere il mondo in base all’apparenza».


E le madri? «Le generalizzazioni, come ho detto poco fa, sono sempre pericolose. Ma il rapporto che lega madri e bambine, madri e immagine, madre e mondo della moda ha spesso dei confini inquietanti. Ci sono madri che accompagnano il bambino in un percorso di crescita alternativo, e lo fanno con allegria e divertimento. E ci sono mamme esaltate, che esercitano sulle figlie un transfer meticoloso e ossessivo. Un esempio? Ho visto bambine disperarsi per non essere state prese a dei casting. Il loro problema non era non essere state scelte, ma il giudizio che le mamme avrebbero espresso su di loro, non considerandole all’altezza».


Che cosa spinge genitori a svenarsi per un casting? «La necessità di apparire e l’aspirazione a un salto sociale, o anche solo l’istantanea appartenenza a un mondo di lustrini, ambitissimo ed esclusivo». 


In America il fenomeno è un business miliardario. Che cos’è la “principessizzazione”? «È un processo che spinge le bambine a diventare piccole principesse, proponendo loro dei rigidi schemi corporei ed emozionali. È un meccanismo perverso e rischiosissimo, che devasta e annulla le aspirazioni infantili, trasportando i bambini in un mondo di adulti».



Honey Boo Boo, star di Little Miss America


Quali sono i possibili danni psicologici? «Esistono pochi studi scientifici, promossi su campioni sempre molto bassi. Gli esperti con cui ho parlato concordano nel sottolineare che il mondo che il bambino abita porta con sé l’equilibrio precario che costituirà l’adolescente e dunque l’adulto. Il rischio più comune sollevato dagli studi scientifici, oltre a una distorta percezione di sé, è quello relativo ai disturbi alimentari che si manifestano già nella pubertà. Molte bambine, quando chiedevo loro cosa volesse dire “essere belli”, mi hanno risposto “essere magri. Molto magri”. Penso che sia una risposta su cui riflettere». 


La bellezza prima della scuola, dello sport, degli amici… Che stereotipi assorbono soprattutto le bambine? «Quelli che il patriarcato suggerisce da sempre, e che oggi si mostrano nel loro agghiacciante anacronismo: l’importanza del compiacere, la necessità obbligatoria per una donna di essere graziosa, bella, gentile e accudente. Sono stereotipi presenti nella nostra società in modo trasversale, che spesso non riescono ad essere elaborati neanche da donne mature. Figuriamoci da bambine che vivono di rapporti disequilibrati, come sempre sono quelli fra adulti e bimbi». 


Lei accenna alla tragica vicenda della piccola Fortuna, abusata e uccisa a Caivano. Aveva sei anni e le pose di una lolita in miniatura… «È un caso molto complesso, difficile da sintetizzare in poche parole. Posso però dire che spesso ho trovato nelle madri che cercavano involontariamente di adultizzare le figlie, modellando su di loro dei criteri di bellezza adulta, l’inconsapevolezza di quello che stavano facendo. Il loro desiderio era quello di creare figlie belle e forti, gli unici mezzi a disposizione quelli esercitati sul loro aspetto. Il risultato? Un’apparenza adulta su corpicini e menti acerbe». 


Si è concluso da poco Pitti Bimbo. Che cos’è dietro le passerelle? «È festa e gioco, ma anche sfilate che si rivelano incubi: a gennaio 2017 ho partecipato a un evento che ha avuto una risonanza nazionale, di cui tutti gli insider sono a conoscenza, dove ai bambini non era stata data l’acqua durante le prove. Successe un putiferio nell’ambiente, ma nessuno nella stampa ne parlò. La moda bimbo è un ambiente che teme la demonizzazione e tende a chiudersi. Eppure per le ricadute che ha sull’immaginario collettivo è un tema che riguarda tutti noi». 


E quando finisce l’età per essere baby modelli? «Si entra in un girone infernale che si chiama vita. Non si è più abbastanza piccoli per sfilare nel mondo bimbo, e non si è abbastanza grandi per sfilare in quello adulto. Dunque ci si ferma, si prova con le pubblicità e con la televisione, alcune volte con il cinema. Ma spesso si lascia. Una bella bambina difficilmente diventa una bella ragazza. E se da piccolissimi non sono richieste competenze, crescendo le cose cambiano e l’impegno necessario per emergere demoralizza molti». 


C’è una storia emblematica che le è rimasta impressa? «Due. Una bambina molto bella che mi ha detto: “Da grande voglio fare la popstar, e so che per questo mi dovrò impegnare tanto e studiare”. E un’altra che mi ha detto: “Voglio fare l’attrice perché mi piace quando mi fotografano”. La prima rivela, al contrario della seconda, un mondo in cui il bambino vive una realtà mediata da una madre attenta. Purtroppo, devo ammetterlo, sono di più le seconde».
@boria_a

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