martedì 31 dicembre 2019

MODA & MODI

Per una notte liberiamo la material girl 




A conclusione dell’anno della paillette, quale migliore occasione per brillare un’ultima volta? Stasera è il momento giusto, forse l’unico, per cedere alla tentazione della squama d’oro o d’argento, per abbandonarsi allo sbrilluccichio che ha percorso tutto il 2019, sul filo della nostalgia degli anni Ottanta. Alla vigilia di un altro giro di boa del nuovo Millennio, in mezzo a tempi globalmente inquieti e pensosi, ci siamo rifugiati nel decennio più gridato, smaltato, gonfiato, infarcito di roushes e di balze, tappezzato da pelle e animalier, con spalle combat pronte a tutte le sfide, fuseaux da pantera e stiletto come spiedi per infilzare il mondo. La questione ambientale era allora una preoccupazione di là da venire, e su ogni capo o accessorio si accendeva un fuoco glitter, riscaldasse o no il pianeta. 

L’anno che salutiamo ha molto citato gli spensierati Eighties, inchiodando la moda al bello delle sue contraddizioni. Mentre nei telegiornali rimbalza la severa ragazzina che rampogna i grandi della terra, in ogni vetrina c’è un reperto a ricordarci il tempo in cui tutto sembrava fluo e non per gli acidi inquinanti dell’industria della moda: un guanto, un berretto, una borsa percorsi da una scia di piccoli dischi luminosi, e poi miniabiti, pantaloni, top e camicie, perfetti per cambiarci la pelle in quella di rettilesse urbane.


Paillettes effetto placebo? Chissà. Anche Madonna, di recente, è diventata una Madame X qualsiasi e, azzoppata, ha fermato l’omonimo tour. Infiliamoci allora nelle nostre squame colorate, senza esagerare. Anche se servono piuttosto a consolare che a colpire e affondare. Prima di Greta, dentro di noi c’era una material girl, che amava e consumava tutto quello che era fast, cibo, amori, vestiti.


Per stanotte soltanto, grazie a un pugno di stelle da metterci addosso, la liberiamo, la facciamo tornare a splendere.

@boria_a

sabato 21 dicembre 2019

IL LIBRO

Abir Mukherjee: Successione di sangue in India tra diamanti e concubine



Il primogenito del maharaja del minuscolo e ricchissimo regno di Sambalpore, il principe ereditario Adhir, viene ucciso a colpi di pistola da quello che ha tutta l’aria di essere un fanatico religioso. Si apre con un altro cadavere scomodo e un assassino troppo scontato per essere plausibile, il secondo giallo storico di Abir Mukherjee, “Un male necessario”, la cui uscita in Italia, ancora una volta per i tipi di Sem, segue di un anno quella del thriller d’esordio, il pluripremiato “L’uomo di Calcutta”.




In campo ritorna la singolare coppia di investigatori che ha catturato lettori in tutto il mondo: il tormentato capitano Wyndham, ufficiale di Scotland Yard e veterano della Grande Guerra, che in India fugge i fantasmi del passato tra bottiglie di whisky e fumerie d’oppio, e il colto sergente indiano Banarjee (detto Surrender-not, non arrenderti, per facilitare la pronuncia ai non nativi), proveniente da una famiglia di bramini e laureato in Inghilterra, con la pelle scura e i modi di un gentiluomo british. Due personaggi in cui l’autore, attento ai chiaroscuri, sintetizza e dosa le contraddizioni del British Ray: la superiorità morale di cui i dominatori si credono custodi, sgretolata dalle debolezze e dalle seduzioni della vita coloniale e l’espressione di una nascente classe indiana moderna e istruita, i cui sogni di libertà si infrangono nella frustrante subordinazione ai reggitori stranieri.

Siamo a Calcutta, in un torrido giorno di giugno del 1920. Il paese è percorso da fremiti indipendentisti e venti principi indiani sono stati convocati dal governo britannico alla Government House per sondare l’assenso alla costituzione di una Camera, sull’esempio di quella dei Lord, che acquieti le tensioni. È in questa occasione che Adhir, compagno di studi di Surrender-not nelle università inglesi, uomo talmente ricco da incastonare i diamanti nella barba non avendo più spazio su volto e dita, viene assassinato in strada, mentre a bordo della Rolls-Royce sta tornando in albergo per mostrare al vecchio amico alcuni messaggi di morte che ha trovato nelle sue stanze al palazzo reale. Si apre una successione complessa al maharaja di Sambalpore, anziano e malato. Tolto di mezzo Adhir, in prima linea c’è ora il fratello Punit, un dongiovanni vanesio, e dopo di lui il piccolo Alok, figlio della terza moglie legittima, la maharani Devika.


Lasciata alle spalle la magmatica Calcutta, Wyndham e Surrender-not viaggiano sul treno di stato, insieme alla salma del principe, fino al ricchissimo regno di Sambalpore, perso nelle terre selvagge dell’Orissa, dove prima l’oppio, poi le miniere di diamanti assicurano ai reali una vita faraonica. Nei giardini curati come quelli di Versailles, al centro dei quali si erge il Palazzo del sole, imbustate nelle uniformi le governanti inglesi portano a spasso i più piccoli tra i duecentocinquantasei figli che il maharaja ha avuto da 126 concubine, mentre nelle cucine spadellano chef francesi e la caccia si fa su Rolls mimetiche guidate da autisti italiani. Le pietre preziose assicurano ricchezze enormi e alimentano gli appetiti di entrambi, indiani e inglesi, in una rete di commistioni tra apparati e di interessi macchiata di sangue.


Ma lo spostamento dell’azione da Calcutta non è solo geografico. E l’omicidio per avidità è una soluzione troppo facile per Mukherjee, che ha abituato il lettore, nella cornice di un sorvegliato impianto storico, a realtà cangianti, in cui bene e male si mescolano. Nel gotico regno fuori dal tempo, sono le donne, custodi di culture e tradizioni, a ordire occulte strategie. Le concubine che tramano nello zenana, garantendosi la complicità dei sorveglianti eunuchi, o l’intoccabile prima moglie, colpita dalla maledizione della sterilità, che muove i fili di marito e figliastri e manipola gli stranieri per controllare la successione, quindi il potere. Ai funerali di Adhir spicca nel sari bianco l’inglese Pemberley, la straniera che l’illuminato erede al trono voleva portare a palazzo come seconda moglie, rompendo tradizioni millenarie e sfidando la devozione del popolo, mentre Annie, la misto sangue anglo-indiana che Wyndham ama, flirta col vacuo principe Punit, attaccato ai privilegi della sua casta.


Nella ricerca della verità il capitano si trova a fare i conti prima di tutto con i suoi pregiudizi. La contaminazione che mina all’interno il gioiello dell’impero britannico è ormai un male necessario al cambiamento. 

@boria_a

lunedì 16 dicembre 2019

MODA & MODI

La borsa invisibile che ci rende invisibili 



La microbag di Jacquemus


La borsa? Non rappresenta più il nostro universo compatto e definito, l’estensione quotidiana in cui trasportare ovunque l’indispensabile superfluo, l’áncora, il kit salvavita, il complemento funzionale per eccellenza che tanto rivela di noi e del nostro mondo. Quest’anno rimpicciolisce fino a scomparire o raddoppia.
 La micro bag si perde nel palmo di una mano. Lanciata da un brand come invito alla sua sfilata, niente più che un innocuo gadget per le ospiti dell’evento, si è trasformata in oggetto inutile ma  distintivo dell'appartenenza a un gruppo di poche elette: al collo, a tracolla, concupita grazie ai plotoni di like sulle pagine Instagram delle “influenzatrici”, la borsa-collana o bandoliera non è in grado di contenere alcunché se non un messaggio: posso farne a meno (dalla borsa vera, ovviamente).

Quella doppia, o sdoppiata, è composta da due contenitori sovrapposti, di solito forniti dai brand in deliziosi pendant, in cui ognuno compensa le carenze dell’altro. Se cambiare borsa stressa, qui siamo davanti al bivio estetico: come dividerci, come ripartire ciò di cui abbiamo bisogno in ogni momento della giornata? Perché nella cartella piatta, per evitare protuberanze fastidiose, possono entrare un tablet o uno smartphone, nel bauletto che la complementa come un borsellino esterno, c’è posto solo per la carta di credito, le chiavi, al più un rossetto. Ci basta?


L’investimento, in entrambe le opzioni, non è  da poco.

La borsa che si fa in due, se griffata, tocca alcune migliaia di euro, la microbag divide equamente la spesa per misura: cento euro per ciascun centimetro, qualche spicciolo nelle repliche low cost.

Ma la Mary Poppins che è in ognuno di noi si ribella. Per quanto 2.0 e moderata frequentatrice dei social, anche la tata più famosa del mondo si irriterebbe nel vedere smantellata o ridotta a un atollo la sua isola, la sua riserva inesauribile di creatività e libertà.


La borsa ci identifica, siamo noi, un portaditale con un marchio è solo chi imitiamo. È invisibile, appunto, e ci rende così.
@boria_a

giovedì 5 dicembre 2019

MODA & MODI

Le ragazze del Bauhaus si riprendono la scena a Trieste




Le ragazze del Bauhaus si riprendono la scena. Pioniere del design nella scuola di Weimar, dove entrarono in massa contro ogni previsione, di loro si sono perse le tracce, penalizzate dalla distruzione degli archivi del laboratorio, dai cambi anagrafici legati a matrimoni o divorzi, ma anche cancellate dai compagni ingombranti (chi ricorda Ise Gropius se non come moglie del fondatore Walter? O Lilly Reich, interior e forniture designer, che ebbe un ruolo centrale nei progetti attribuiti in esclusiva al partner Ludwig Mies van der Rohe...?). A parte la rivoluzionaria creatrice di arazzi Anni Albers, Alma Buscher, Marguerite Friedlaender, Gertrud Arndt, Benita Otte, Lilly Reich o Ivana Tomljenović, fotografa e grafica croata, sono solo nomi.

Per celebrare i cent’anni del Bauhaus e l’apporto di creatività, rigore, innovazione delle sue artigiane, artiste, architette, è nato a Trieste il progetto “Le ragazze vogliono imparare”, che vede per la prima volta collaborare Ines Paola Fontana e Roberta Debernardi di Studiocinque e altro, e lo spazio design di accessori e gioielli Giada di Silvia Vatta. Sono dodici le collane, pezzi unici, che Fontana ha ideato per altrettante ragazze del Bauhaus e che saranno esposte, dal 6 dicembre 2019 in via Roma 16 a Trieste, accanto alle foto dei progetti delle creative cui sono ispirate e a font tratti dai titoli di giornali dell’epoca, in un allestimento ideato da Debernardi.





Per Ise Gropius, editor e progettista, che il marito definiva Mrs. Bauhaus, è nata una collana costituita da un tubolare d’acciaio dove si muovono perle in vetro, in un gioco cinetico che sintetizza rigore ma non povertà di idee. Alma Buscher, che inventò un giocattolo tuttora in produzione, ha ispirato una collana di perle di legno nei colori primari del Bauhaus, rosso, blu e giallo, mentre i motivi della ceramista Friedlaender sono ripresi con perle bianche di pasta di vetro e inserti dorati.




I mosaici tessili di Gertrud Arndt ritornano nelle righe create attraverso un gioco di paillettes di più colori, il lavoro di Anni Albers nella collana “taglia-e-cuci”, costituita da quadrati di stoffa uniti da un unico filo. Marianne Brandt fu una delle poche donne a entrare in quel santuario maschile che era l’officina dei metalli del Bauhaus, dove ideò alcuni dei suoi pezzi più iconici, ancora in produzione e oggi esposti al MoMa di New York. Per lei, la collana esprime forza e leggerezza, alternando dischi di metallo e pezzi d’ebano.

martedì 3 dicembre 2019

MODA & MODI

L'Africa decò nella capsule di Silvia Rossi





Silvia Rossi (www.silviarossigioielli.com) si fa desiderare ma quando presenta una nuova collezione di accessori sembra che non sia mai uscita dal suo microscopico laboratorio sotto San Giusto a Trieste e che i pezzi siano la naturale prosecuzione, la messa a fuoco di un particolare di tutto il percorso precedente. Per questo - racconta la designer triestina - anche nell’ultima capsule ha sintetizzato suggestioni che da sempre le sono congeniali, ha ripreso forme, colori, ispirazioni che negli anni hanno alimentato il suo lavoro e le ha declinate in modo diverso. Il moodboard, i riferimenti visivi, rimangono immutati, le geometrie pulite, gli elementi tribali, la cultura ornamentale di altri paesi, ma ogni volta più depurati, più puliti, per arrivare a uno stile essenziale, che sia subito riconoscibile come suo.

Africa ’20s, così si intitola la piccola e compiuta collezione uscita in questi giorni, è un altro capitolo di una ricerca costante. Sei spille e trentaquattro orecchini, tutti pezzi unici, legati dal filo conduttore della geometria e della leggerezza. I materiali sono l’ottone, il legno e il plexiglass, quest’ultimo la sua cifra distintiva, che lucida, taglia, assembla fino a togliergli qualsiasi consistenza, a renderlo piumato e aereo come vetro soffiato. Sono bijoux leggerissimi da indossare, ma con una forte matericità, soprattutto le spille, tonde o asimmetriche, che giocano su incastri di linee curve e colori base: nero, bianco, rosso denso, un rosa antico incorniciato dal calore del legno.





L’Africa, le sue tinte e i suoi monili, uno dei filoni in cui Silvia Rossi si riconosce, si intrecciano ai motivi dell’arte decò, creando oggetti senza nessuna enfasi etnica. In ogni orecchino, a lobo o pendente, il plexiglass dorato è un punto luce, nelle spille, grandi e importanti, è il rosa pastoso il colore che cattura l’occhio, rompendo la palette a scacchiera. Ciascun oggetto distilla idee, geografie epoche precise, eppure riesce a essere senza tempo, slegato dalle mode.


La collezione di Silvia Rossi è in mostra nella gioielleria Crevatin di piazza Cavana a Trieste.

@boria_a

lunedì 2 dicembre 2019

LA MOSTRA

Dress code: righe, quadri fiori
per il Museo della Moda di Gorizia





Le marsine settecentesche nel nuovo allestimento del Museo della Moda di Gorizia (foto Gianluca Baronchelli)


Righe, quadri, fiori. C’è un dress code suggerito agli ospiti per la riapertura del Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia, che il 3 dicembre 2019 festeggia vent’anni con un riallestimento della collezione e una mostra temporanea. Un gioiello che custodisce novemila pezzi, tra abiti, accessori e monili dell’area mitteleuropea, abbracciando Gorizia, Trieste, Vienna per spingersi fino a Praga, rappresentata da una serie di corsetti a suo tempo acquistati in un negozio triestino e facenti parte della collezione Verchi, cuore dell’intero patrimonio.

Quello di Gorizia è uno dei pochi musei della moda in Italia, accanto al veneziano palazzo Mocenigo, dedicato al ’700, e alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze. Non a caso a festeggiare l’anniversario, oggi ci sarà una nutrita rappresentanza della famiglia Missoni, mentre lo stilista artista Roberto Capucci arriverà nei prossimi giorni: a entrambi, Capucci e il caleidoscopico Ottavio, il Museo di Gorizia ha dedicato, nel 2004 e nel 2006, due grandi mostre firmate da Raffaella Sgubin.


Sarà lei, che nel luglio 2000, a pochi mesi dall’apertura del Museo, avvenuta il 3 dicembre 1999, ne divenne responsabile, per ricoprire la carica fino a oggi in qualità di direttrice del Servizio Ricerca, Musei e Archivi Storici dell’Erpac, a fare gli onori di casa a Borgo Castello. «L’ho visto nascere e oggi lo riapro» dice con orgoglio, ricordando come, vent’anni fa, l’allora direttrice dei Musei goriziani, Maria Masau Dan, poi assessore alla cultura della Provincia, abbracciò con entusiasmo l’idea di creare un Museo della moda. Nacque in pochissimo tempo, con vecchi allestimenti disponibili e intorno a un nucleo già presente, una raccolta di oltre settecento campioncini della produzione della seta a Gorizia e nel circondario, donati al museo agli inizi del Novecento dalla famiglia di Lodovico Seculin, commerciante di mercerie. Oltre allo splendido torcitoio circolare da seta del XVIII secolo, acquisito nel 1913, il più antico pervenuto: veniva azionato da una persona che, al suo interno, camminava all’indietro, appoggiata a un sedile verticale, mentre con le mani libere eseguiva un secondo lavoro, magari quello del sarto.





«È stata Maria Masau Dan - racconta Sgubin - a gettare le basi del Museo, con tre acquisti strategici compiuti negli anni Ottanta. Nell’85 i gioielli della chiesa di Sant’Ignazio, circa duecento pezzi tra spille, orecchini, bracciali donati dai fedeli come ex voto. Poi, nell’87, tre abiti straordinari comprati da un privato goriziano: due femminili e una marsina di fine ’700. Infine, nel ’92, il colpo da maestro: l’acquisto della prima tranche della collezione Verchi. Masau Dan, con intelligenza e sensibilità, ne intuì il potenziale. Si tratta di migliaia di capi, tra abiti e accessori, dal ’700 alla prima guerra mondiale. Questo - prosegue Sgubin - è stato il punto di non ritorno per la costruzione delle collezioni dei Musei goriziani. Da allora il tessile è diventato centrale». Nel ’93 una mostra, intitolata “Il filo lucente”, raccontava duecento anni di produzione della seta e del mercato della moda a Gorizia, dal 1725 al 1915. Le premesse per la nascita del Museo c’erano tutte.








Righe, quadri, fiori. Il riallestimento delle collezioni segue lo stesso filo conduttore. La sezione tessile, con i campioni di tessuto e i macchinari, dove un’installazione multimediale consente al visitatore di cimentarsi nel design, poi la parte centrale, con gli abiti a tessuti rigati e quadrettati, dal ’700 agli inizi del ’900, incorniciati da un’altra installazione multimediale basata su figurini, che conduce il pubblico in un viaggio nella storia del costume, di ieri e di oggi. Perchè la moda non inventa nulla. Prova ne sia una delle superbe scarpine che vedremo enfatizzate dal video, con calzetto incorporato e bottoncini laterali, che fa parte di una recente acquisizione: un raccolta di dieci paia di calzature dell’800, di pelle e seta, viola mammola, blu cobalto e verde smeraldo, uscite miracolosamente, e in perfetto stato, dalla soffitta di un’abitazione della periferia triestina.




L’ultima parte del percorso espositivo permanente, curata da Thessy Schoenholzer Nichols, si intitola “Nel regno di Flora”. Lungo il filo conduttore dei fiori spicca una vetrina con un altro acquisto recente, una serie di marsine del ’700, il cui lato B, presenta sulle code spettacolari ricami floreali, perchè l’uscita di scena dei gentiluomini doveva essere altrettanto emozionante che l’entrata. In questa sezione il pubblico potrà ammirare anche due abiti della designer Maria Monaci Gallenga (1880-1944), busti, gilet, ombrellini, un abito da sposa e un’installazione streetwear dove, su una base di sanpietrini identici a quelli della strada davanti al museo, spicca una serie di vestiti floreali dagli anni ’50 agli ’80.



Nella mostra temporanea, una tavola del tempo racconta al pubblico le acquisizioni, le esposizioni, gli snodi della vita del museo. Accanto, una testimonianza delle mostre recenti, quella dedicata a Roberto Capucci, con lo spettacolare abito-scultura “Oceano” creato per l’Expo di Lisbona del ’98 (un’onda di quasi cento metri di taffetà e organza, ventisette sfumature di colore, dal bianco al blu, cinque mesi di lavoro di cinque sarte), e il “Bocciolo di rosa”, affiancato alla foto di Massimo Gardone, protagonisti dell’allestimento “L’atelier dei fiori”; poi tre pezzi del ’71, esposti in “Caleidoscopio Missoni””, infine due costumi dai film “Morte a Venezia” di Visconti e “L’età dell’innocenza” di Scorsese, per ricordare l’omaggio alla sartoria Tirelli e alle sue creazioni da Oscar.



Intanto, il Museo della moda cresce. Con scarpe e marsine, tra le acquisizioni recenti tre abiti dell’atelier delle sorelle Callot provenienti da Parigi, una fibbia preziosa del pittore secessionista Josef Maria Auchentaller, vestiti e una veste da camera maschile in broccato della famiglia Stonborough (Margaret era sorella del filosofo Wittgenstein), il completamento della collezione Verchi, in parte donata.


Nel palazzo di Borgo Castello a Gorizia è custodita e ben rappresentata la storia della moda dal ’700 al 1940. «Non passa giorno che non riceva una lettera che mi propone un nuovo pezzo» dice Raffaella Sgubin. La lunga storia intessuta di fiori, quadri e righe continua. 

@boria_a