mercoledì 29 gennaio 2014

 IL LIBRO

La prof Ottilia nel 1892 bruciò la Parodi 



Benedetta Parodi

Il "Cotto e mangiato" di Benedetta Parodi ha un antenato illustre a Trieste. Correva l'anno 1892 quando l'editrice Styria di Graz pubblicò la versione italiana del fortunato Süddeutsche Küche, uscito originariamente nel 1858 e firmato da tale nobildonna Katharina Prato, nata Polt, che ricavò il nome d'arte accorciando il cognome del primo marito, Eduard Pratobevera, mantenuto anche quando, rimasta vedova, convolò a nuove nozze. Era un vademecum per chi si metteva ai fornelli, certo con più tempo rispetto alle odierne lettrici della Parodi, ma con altrettanta scarsezza di nozioni base.

"Nelle mani delle donne" Maria Giuseppina Muzzarelli



L'edizione italiana del testo della Prato, si intitolò "Manuale di cucina per principianti e per cuoche già pratiche" e ad adattarlo ai gusti e ai costumi nazionali fu chiamata Ottilia Visconti Aparnik, maestra di cucina al corso di economia domestica del Civico liceo femminile di Trieste. L'approccio era da insegnante, didattico e pratico: ecco allora che, alle "donne di casa" cui si rivolgeva Katharina, da intendersi non come "desperate housewives" con la debolezza dei fornelli, ma come addette a dimore borghesi e nobili, la signora Ottilia aggiunse le esordienti assolute, da equipaggiare con un corredo adeguato di nozioni premilinari, spiegazione dei termini di cucina, glossari.
Il manuale triestino fu un successo, come lo era stato quello in lingua tedesca. Venne adottato nei corsi di economia domestica, lo si rintracciava nelle cucine degli alberghi di montagna, è citato nei manoscritti dei ricettari popolari. Un vero e proprio abbecedario, che precede di otto anni il primo manuale interamente italiano scritto da una donna, "Come posso mangiar bene?", firmato da Giulia Ferraris Tamburini e pubblicato nel 1900 da Hoepli. Da allora, si moltiplicarono le scritture femminili sul tema, fino alle odierne guide veloci di Antonella Clerici, Federica de Denaro, Tessa Gelisio, che occupano intere sezioni di librerie. Prima di Ferraris, nulla o quasi. È infatti datata 1397 una ricetta scritta da una donna ma giunta fino a noi grazie all'importanza di suo marito, il mercante Francesco di Marco Datini. Lui ha nostalgia dei piatti di casa, la consorte Margherita gli fa pervenire la ricetta dei piselli e il messaggio inequivocabile della sua insostituibilità domestica: "sono un pocho malagevoli", "non ve ne maravigliate perchè lei non gli sapi chuocere...".
Curioso, ma lo scrivere di cibo per le donne è conquista recente. Mentre le prime femministe si liberavano dalla "casalinghitudine", fornelli inclusi, la trattatistica sul cibo rimaneva saldamente in mano agli uomini. Sono i maschi a dettare le regole dell'esecuzione culinaria, sia in età romana, col ricettario di Apicio, sia nel medioevo, quando Maestro Martino da Como compilò, tra il 1464 e il 1465, il Libro de arte coquinaria, dopo essere stato alla corte di Francesco Sforza e quindi del patriarca di Aquileia. Due curiose eccezioni: suor Maria Vittoria Verde che, intorno alla fine del 1500, nel monastero di San Tommaso a Perugia, mise insieme un ricettario con intenti di edificazione spirituale e la monaca messicana Juana Inés de la Cruz, donna molto erudita, che, un secolo dopo, teorizzò come in cucina, tra budini e sgonfiotti, si potesse anche far filosofia: "se Aristotele avesse cucinato, avrebbe scritto molto di più".


Maria Giuseppina Muzzarelli


Nelle mani delle donne (Editori Laterza, pagg. 200, euro 16,00) di Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di Storia medievale e Storia delle città a Bologna e di Storia del costume e della moda a Rimini, è un saggio affascinante sul rapporto tra donne e alimenti, che va a ritroso nel tempo, da Lady Gaga vestita di bistecche al sangue (messaggio: mi concedo in pasto ai fan come un oggetto da divorare) a Ildegarda di Bingen, badessa di San Disibodo vicino a Magonza, che all'inizio dell'anno Mille nel suo "Libro delle creature", non dà ricette ma fornisce pratiche nozioni di cucina. La sua "dieta", poco ascetica, era basata su salmone, luccio e trota e, tra le carni, su manzo, agnello, lepre, quaglia, pernice, oca, gallina e anatra selvatica: di ciascun alimento, indicava modo di cottura, proprietà e destinatario ideale.

 
Lady Gaga nell'abito ideato da Nicola Formichetti


Donne e cibo: ovvero donne nutrici nell'allattamento, donne dall'appetito vorace e, per proprietà transitiva, a letto seduttrici, donne continenti a tavola e quindi penitenti, donne custodi dei segreti di erbe e pozioni, utilizzati per curare e, in molti casi, per avvelenare mariti e nemici. E donne che scrivono di cucina, come la celebre Petronilla della "Domenica del Corriere", al secolo Amalia Moretti Foggia, terza donna laureata in medicina in Italia e prima pediatra: la rubrica "Tra i fornelli", che iniziò nel 1927 (del '35 il suo primo libro di cucina), era tutt'altro che una superficiale guida per combinare quattro pietanze, ma un insieme di suggerimenti che sposavano buona tavola, salute e budget limitato, in un periodo in cui le donne si trovavano ad assumere funzioni e impegni maschili, con un occhio a far quadrare il bilancio.


 
Amalia Moretti Foggia, Petronilla


La cucina e l'economia del tempo di guerra, la cucina autarchica, le ricette per tempi eccezionali, i "desinaretti": negli anni precedenti e poi durante il secondo conflitto mondiale, i fornelli diventano il luogo di resistenza e combattimento delle donne. C'è anche il "last minute market" ante litteram, con il moltiplicarsi di testi che insegnano a non sprecare, a ricavare menù da torsoli di verze e interiora di pollo, a non buttare nell'immondizia ciò che può essere riutilizzato.
Dai pochi ingredienti al poco tempo. La cucina rapida è una conquista delle donne che sempre più lavorano fuori casa (nel 1961 sono il 40%, tra i 20 e i 50 anni), la sottrazione a un destino dato per scontato. Quando poi, a conflitto concluso, si diffondono in Italia frullatori, microonde, tostapane, frigoriferi ultimo modello, il manuale non può essere che il "Contaminuti" di Elena Spagnol, uscito nel 1967. Dieci anni prima negli Stati Uniti era stata pubblicata "La mistica della femminilità" di Betty Friedan che smontava la costruzione maschile secondo cui l'altra metà del cielo dovesse accontentarsi di curare al meglio casa e famiglia e, tre anni dopo, un significativo "The I hate to housekeep book", che, usando il verbo "odiare" riferito al regno domestico della regina della casa, enfatizzava velocità e convenienza degli ingredienti, per ottimizzare tempo e spesa.


 
Betty Friedan autrice de "La mistica della femminilità"


Da qui, alle religiose davanti alle pignatte, come la celebre Suor Germana con la rubrica su "Famiglia Cristiana" e i libri di angeli cucinieri, ai quattro salti in padella di giornaliste e conduttrici televisive, il passo si fa più rapido. Man mano che le donne escono dalle cucine reali, entrano a pieno diritto in quelle letterarie: compilano manuali di rapido consumo, scrivono memorie a partire dalle ricette di famiglia, indagano la storia individuale o collettiva attraverso sapori, vivande e quaderni domestici. È nato un canone letterario, nel quale anche l'insegnante triestina Ottilia Visconti Apparnik ha messo il suo tassello. Perchè, come insegnano il Sessantotto e Lévi-Strauss, i veri rivoluzionari e conservatori si svelano proprio a tavola. 

twitter@boria_a

giovedì 16 gennaio 2014

IL LIBRO

Edna O'Brien da mandare al rogo


Edna O' Brien


Nella sua casa di Londra, durante gli "swinging Sixties", Shirley MacLaine le leggeva la mano, svelandole con tutta serietà che, nelle sue vite passate, era stata "più volte madre e prostituta". Roger Vadim, carismatico e autoritario, mieteva vittime femminili a dispetto di Jane Fonda, e intanto aiutava ad arginare i disastri che provenivano dalla cucina, come un'anatra finita a terra durante il trasferimento dal forno e ricomposta nel piatto a beneficio degli ospiti. La figlia dei fiori Marianne Faithfull, dai lunghi capelli e le mille collane, girava a piedi nudi cercando la musica adatta per i versi di Yeats, e la principessa Margaret, all'epoca sposata con Lord Snowdon, tracannava whisky, ma solo di una marca, The Famous Grouse. Una sera, sul divano del salotto, ci finì anche una malinconica e confusa Judy Garland, la Dorothy del Mago di Oz, che non vide l'ora di sgattaiolarsene via, senza dire una parola a nessuno.
C'erano feste scatenate e molto alcol in quegli anni nella casa della scrittrice irlandese Edna O'Brien, autrice delle "Ragazze di campagna" scritto furiosamente in sole tre settimane nel 1960 e nel suo paese bruciato sui sagrati per la franchezza con cui le protagoniste rivendicavano il diritto a vivere e parlare della sessualità. I suoi due figli, Sasha e Carlo, che per il fine settimana tornavano dal collegio, giravano tra gli invitati con tuniche rosse ricamate, imparando a confezionare spinelli. Una notte Paul McCartney cantò loro una canzone, mentre erano a letto quasi addormentati, e la mattina dopo i due ragazzini si svegliarono col dubbio che fosse stato solo un sogno. Quando, una volta al mese arrivava a Londra la madre di Edna, Lena, che aveva fatto la cameriera a Brooklyn ma era tornata nella cattolicissima Irlanda per tirar su una famiglia dai solidi principi, se ne stava seduta in poltrona, al riparo della spalliera e con i capelli tirati sul cranio da pettinini di tartaruga, chiusa nella sua riprovazione. «Per un breve periodo - racconta la scrittrice - facevo party ogni sabato sera. Stappavo champagne, cucinavo. Le feste erano bohemien, ci venivano molte persone meravigliose. Ma in fondo sapevo che trascuravo la mia vera vocazione, la scrittura, e che avrei dovuto tornare a quello. E l'ho fatto».
Una vita, e un'epoca, straordinaria. Vorticosa, libera, spregiudicata, affollata di incontri e di personaggi, da Londra a New York. Gli amori, l'Lsd, la battaglia per i figli, i pianti e le ribellioni, ma anche momenti fervidi di solitudine e scrittura. Edna O'Brien oggi è una signora di 83 anni con una carriera costellata da trenta opere tra romanzi, raccolte di racconti, poesie e testi per il teatro, tanti premi e riconoscimenti e l'ammirazione dei colleghi, da Philip Roth all'ultimo premio Nobel, Alice Munro, che la considera una delle autrici che più l'ha influenzata: «Scrive le più belle e doloranti storie di sempre».
La sua ultima fatica è inevitabilmente "Country girl", l'autobiografia che aveva giurato di non scrivere mai, accolta con grande clamore in Gran Bretagna e negli Stati Uniti e uscita in Italia da Elliot Edizioni (pagg. 378, euro 18,50). Un romanzo, più che il resoconto di una vita, la storia di un periodo febbricitante di cambiamenti, i cui protagonisti, letterari e mondani, si muovono vivi tra le pagine, senza la melassa degli anni e la cornice della saggezza postuma: Richard Burton che le recita Shakespeare, Marlon Brando che beve latte nella sua cucina poi passa con lei una notte "casta", Harold Pinter, consumato dalla malattia ma ancora pronto ad attaccar briga al ristorante a proposito del whisky.



Edna O'Brien in una foto dal libro "Country girl"
Nata da mamma timorata e padre etilista, in una casa piena di breviari e libri religiosi, educata in convento, dove si invaghì di una suora, Edna O'Brien, con il suo bel diploma di farmacista in tasca, disse addio per sempre all'asfittico paese di Tuamgraney, nell'Irlanda del nord, e si trasferì a Dublino. Lo scrittore Ernest Gébler, che conobbe casualmente, le parlava di James Joyce con assoluta familiarità e chiamava Leopold Bloom "Poldy". Edna ne restò estasiata e fuggì con lui, sposato, gettando la famiglia nella costernazione. Il loro matrimonio, da cui nacquero due figli, andò in pezzi con il successo di "Ragazze di campagna": «Sai scrivere e questo non te lo perdonerò mai», le disse Ernest dopo aver letto in libro in una notte, prostrato dal talento della moglie più che da un tradimento.
La guerra per la custodia dei figli non le risparmiò accuse di ambizione smodata e libertinaggio, mentre, con i libri successivi, "La ragazza dagli occhi verdi" e "Ragazze nella felicità coniugale", cominciarono a piovere assegni a tanti zeri per la sua prima casetta da madre single. Quando uscì "August is a wicked month" un giornale titolò: "La O'Brien lancia una molotov contro la campana di vetro del matrimonio".
Londra, poi New York, dove viene spesso chiamata per lezioni nelle università. Inseguendo quelle parole che a volte "non venivano", Edna va alla ricerca delle tracce della madre, cui vuole dedicare un libro. E gli incroci nei salotti americani - dove ci ritroviamo a guardare con i suoi occhi i cuscini a piccoli punto sui divani che riproducono le sembianze del cane di casa - valgono da soli un romanzo nel romanzo di una vita: da Gunter Gräss, che le scrive il suo primo biglietto in inglese ("gentile signora O'Brien, se scopriremo di piacerci dopo cinque minuti potremmo andare insieme a mangiare un grosso pesce o qualche altro animale...") a Miloš Forman che, al primo incontro, la interroga: "Come si fa a chiedere a una donna di togliersi il cappotto senza che si tolga anche i vestiti?". E poi l'«acido» Norman Mailer, con cui va in giro per la città a far ricerche per il libro, Hillary Clinton che la invita alla Casa Bianca, dove cena tra lei e Jack Nicholson, l'eremita Philip Roth, John Houston, Gore Vidal. E Jackie, «leggiadra come una piuma, fanciullesca, appassionata, capricciosa e caparbia», con cui Edna strinse un'amicizia che durò dieci anni.
"Un pianoforte rotto": così le dice l'infermiera dopo un controllo dell'udito in una clinica londinese. "Molly Bloom in saldo", scrittrice che ha fatto il suo tempo, legge di sè su alcuni giornali. 


 
Edna O'Brien (foto Bryan O'Brien)


Così, a 78 anni, un giorno tornando a casa Edna decide di fare due cose: il "soda bread", pane irlandese con il lievito di birra, e il libro che non doveva scrivere. «Pianoforte rotto o meno, mi sentii più viva che mai mentre l'aroma del pane infornato si spandeva nell'aria. Era un aroma antico, portatore di ricordi...». Sarà per questo che anche la storia della sua vita sembra ancora piena di capitoli da sfogliare.
twitter@boria_a

venerdì 3 gennaio 2014



 MODA & MODI
Tomoko Tokuda e il tempo da  indossare


Tomoko Tokuda, jewels designer

Tutti i suoi gioielli ruotano intorno a un unico pezzo, sempre lo stesso, purchè vecchio, rotto e abbandonato: l'orologio. Tomoko Tokuda, designer giapponese e italiana per elezione, da sette anni, da quando cioè, a Milano, dove vive, ha fondato il marchio col suo nome, batte mercatini e rigattieri per accaparrarsi la materia prima delle sue creazioni, gli orologi non più in grado di segnare le ore. Li smonta e ne salva ogni pezzo e ingranaggio per poi restituire loro una nuova vita trasformandoli in collane, orecchini, bracciali, spille. Pezzi aerei e poetici, che imprigionano il tempo passato e ne guadagnano un altro, con un'altra funzione ma sempre a contatto col corpo e con la vita.
Finalista nel 2010 per gli accessori a ITS Nine di Trieste, ha lasciato un segno negli archivi del concorso come una delle creative più raffinate, in grado di convincere un pubblico internazionale, come ha dimostrato ancora una volta appena pochi giorni fa al "Fuori Salone" di Milano. «Trieste mi è rimasta nel cuore - racconta - con quell'odore di mare che mi ha invaso appena scesa dal treno».
Ricorda qualcosa della sua vita in Giappone?
«Solo flash, immagini isolate. Sono nata vicino a Tokio, ma la mia famiglia si è trasferita subito a Saitama. A quattro anni siamo venuti a Milano per il lavoro di mio padre, che era direttore della filiale di un'azienda di occhiali giapponese. Del mio paese ricordo un asilo pieno di bambini e una festa con i fuochi d'artificio».
Dopo le medie in Francia e poi ancora in Italia. Pensa che questo girovagare abbia influenzato il suo attaccamento a oggetti che sono un po' immutabili, ovunque?
«Veramente mi è sempre piaciuto lavorare con le mani e andare per i mercatini con mia madre. A Milano ho frequentato una scuola media giapponese, che mi ha aiutato molto a imparare la mia lingua, difficilissima. Vivendo in un contesto italiano, altrimenti non ce l'avrei fatta. In Francia ho studiato in un liceo giapponese, con ragazzi di famiglie che pensavano di ritornare in Giappone. È lì che ho cominciato a pensare di diventare designer. Dopo la laurea in storia dell'arte all'Università di Grenoble, avevo le idee chiare: volevo disegnare vestiti. Così mi sono trasferita a Parigi per studiare moda e poi di nuovo a Milano, all'istituto Carlo Secoli, per imparare la tecnica del modellismo. Più che il girovagare, però, la mia passione ha a che fare con la manualità, con l'amore per l'oggetto in sè. E ho preso qualcosa da tutti i paesi dove ho vissuto».
Come è arrivata agli orologi?
«È stata una sfida. Da piccola non riuscivo a leggere l'ora, a casa nostra c'era un grande orologio con i numeri romani che per me era un mistero. Mia madre me la chiedeva continuamente, perchè imparassi a interpretare le lancette. Così, un po' alla volta, mi sono resa conto che mi piaceva il concetto del tempo».


Gli orologi recuperati in forma di  gioiello da Tomoko Tokuda


 E un giorno si è trovata davanti a una scatola...
«Finita la scuola ho cominciato a lavorare come disegnatrice di abiti per una ditta italiana. Lì ho imparato a ricamare e ho scoperto che amavo utilizzare pietrine e paillettes. Già allora avevo tentato di applicare agli abiti gli ingranaggi degli orologi, purtroppo però macchiavano il tessuto. Un giorno, su una bancarella, ho visto una scatola che nessuno guardava, piena di polvere e di orologi rotti. Sono rimasta scioccata: erano talmente belli che non capivo come potessero essere finiti lì. Li ho comprati tutti, mi sembravano gioielli. Mia madre mi guardava stupefatta. Così ho fatto un ciondolo e un paio di orecchini per me e per regalare agli amici. Tutti mi dicevano: che idea bellissima. Ma a me non sembrava originale, piuttosto naturale».
Un oggetto piuttosto difficile da reinterpretare...
«Sono facili da lavorare: limo il retro del quadrante e ci applico il supporto principale per collane e orecchini. Il difficile è trovarne di uguali per fare una collezione. Io però, a forza di accumulare orologi, sono riuscita lo stesso a mettere insieme una serie. Utilizzo solo orologi rotti, che non hanno più un ruolo. Li smonto e non butto nessun pezzo. I più pesanti diventano ciondoli, quelli microscopici orecchini».
Non ha paura di essere ripetitiva?
«All'inizio sì. Avevo clienti soprattutto giapponesi, che a un certo punto mi hanno chiesto di cambiare, di usare oro e argento, di fare altre linee. Loro vogliono grandi quantità e ricambio rapido. Ho rifiutato e li ho persi, ma non sono pentita. È giusto accettare le richieste, ma non completamente. Io voglio continuare con i miei orologi, che sono tutti pezzi unici. Per otto anni ho fatto almeno due collezioni l'anno, con sessanta modelli uno diverso dall'altro».
Che cosa pensa davanti a un nuovo quadrante?
«Prima di tutto lo tocco, ne sento il peso, analizzo il colore. Bevo un caffè e lo studio con cura, senza fretta. So che devo utilizzarlo nel modo più adatto. Questo processo può durare un paio di giorni o un anno. Io non disegno, creo dal vivo. Quindi una volta fatto il buco, non posso tornare indietro. È come lavorare in 3D».
C'è qualcosa di orientale nel suo lavoro?
«Forse la precisione. Faccio buchi sui quadranti grandi un millimetro. Qualcuno mi dice che le mie forme ondulate sono molto francesi, ma io non mi sento francese. I miei amici giapponesi mi ripetono: non hai nulla di giapponese. Gli italiani: sei proprio giapponese. Guardo il mio passaporto e mi convinco di essere giapponese. Ma mi sento italiana e mi fa piacere».
I suoi pezzi sono sempre asimmetrici...
«Esattamente come il corpo umano. Ho cominciato con mono-orecchini, uno grande e uno piccolo. Anche nelle collane mi diverto con pesi diversi. La nostra asimmetria è una qualità, perchè non giocarci?».
Prima o poi questi orologi rotti si esauriranno...
«Per ora non ci penso. Temo di aver già fatto fuori tutti i mercatini dellaLombardia, ma ho un fornitore ufficiale che batte la Francia e la Svizzera... Davvero, non so quanto ho speso in questi anni. Prima gli orologi me li facevano pagare cinquanta centesimi, poi hanno visto il mio lavoro e siamo passati dai tre ai dieci euro a pezzo. Ma non importa: per me sono preziosi».
Come organizza la vendita?
«Lavoro direttamente con i negozianti. Mi piace conoscerli, conoscere chi compra i miei pezzi e aiutare la vendita. Dall'anno scorso lo faccio anch'io in prima persona, così arrivo al pubblico finale. Il target è vario, diciamo dai 25 anni in su».
Che cosa le ha portato "Its Nine"?
«All'epoca avevo già il mio lavoro e, quando l'esperienza è finita, sono tornata a quello. Ho avuto alcuni articoli sulle riviste e un contatto con Alessandra Facchinetti, che poi però non è proseguito. Preferisco lavorare da sola. Faccio tutto da me, anche fatture e spedizioni. Non voglio ingrandirmi, non mi concentrerei più sulla creatività. A Its ho imparato qualcosa su di me e sul mio lavoro: ecco, questa è stata la mia vittoria».
C'è un pezzo che non venderebbe mai?
«Una collana che indosso sempre, a tutti gli eventi. A Trieste l'avevo presentata appoggiata sulla sabbia. Ci ho messo due mesi a farla. Mi porta fortuna, ma soprattutto mi dà una grande serenità».


twitter@boria_a 




giovedì 2 gennaio 2014

MODA & MODI

Andrea Cammarosano, per una notte propheta in patria


Il designer triestino Andrea Cammarosano


Il suo, nel 2008, sulla passerella dell'ex Pescheria, fu un risultato "storico", rimasto finora ineguagliato. Andrea Cammarosano, all'epoca studente, è stato l'unico triestino ad aver mai conquistato la finale di ITS, concorso per talenti emergenti della moda, di solito non tenero con le giovani leve italiane. «Era l'unica collezione donna che ho mai realizzato - racconta - una sperimentazione molto particolare su materiali e tessuti, con stampe 3D luminescenti e corsetti in polietilene... Una cosa assurda, infatti dopo qualche tempo mi é stata richiesta da Lady Gaga, che non l'ha più restituita».
Quella cosa assurda, che aveva un titolo altrettanto immaginifico, "Serenade Moleculare", l'ha portato lontano. Un apprendistato internazionale, poi il lancio del brand di moda maschile che porta il suo nome, l'affermazione tra i designer migliori di "Who is on/Next" di Pitti Immagine Uomo, e oggi una collaborazione con Iceberg e una docenza.
«Ho un ricordo molto bello di quella finale a Trieste. C'erano tutte le persone importanti che in genere potevi solo intravedere a Londra, Anversa o Parigi. Ma eravamo sul Molo Audace e loro erano tutti là per incontrare noi giovani stilisti. ITS é veramente un evento importante, conosciuto ovunque nel mondo. Anche quando insegnavo a San Francisco, tutti gli studenti ne parlavano».
All'epoca era studente all'Hogeschool di Anversa, un serbatoio di talenti della moda. Com'è nata la sua decisione di iscriversi?
«Quasi per caso. Allora in Italia le scuole erano tutte di stampo un po' classico e tradizionalista, e sfogliando le riviste di moda - soprattutto, mi ricordo, i-D che mi piaceva moltissimo - continuava ad apparire il nome della Royal Academy di Anversa, sembrava quasi che non esistessero altri posti per la moda. Sono andato a fare l'esame di ammissione, mi hanno preso, e appena arrivato lì ho capito di essere "a casa".
Suo padre docente di storia, ex preside di facoltà: l'idea di un figlio stilista l'ha spiazzato?
«No, anzi lui é sempre stato molto interessato a tante cose che non riguardano la cultura accademica. Da giovane faceva anche l'illustratore e ha sempre conservato questo lato artistico e creativo. Mi ha sempre spinto molto e incoraggiato a perseguire questa carriera... Anzi, senza il suo aiuto non avrei mai potuto farlo».
Dopo Trieste, l'incontro con Walter von Beirendonck, uno dei rappresentanti "illustri" della scuola belga.
«Walter é ancora il mio grande mentore, uno degli incontri professionali più importanti della mia vita. È stato il mio tutor al terzo anno di scuola ad Anversa e con la sua guida ho realizzato una collezione che mi ha dato molta soddisfazione e che ancora adesso, dopo più di 5 anni, sta viaggiando per mostre in giro per il mondo. Quando ho finito la scuola mi ha chiesto di diventare il suo assistente, cosa che ho fatto per due anni imparando moltissimo e soprattutto ricevendo da lui molta ispirazione».
Dove si è accorto di sbagliare e quali invece i suoi punti di forza.
«Punti di forza: coraggio e immaginazione. Errore, se così si può chiamare: l'idealismo. Ma tutto sommato é un errore che vorrei vedere più spesso in giro».


L'uomo di Andrea Cammarosano

Quando ha deciso di staccarsi e creare il su brand?

«Mentre lavoravo per Walter ho comunque continuato a sviluppare dei progetti sotto il mio nome, erano cose molto speciali per la stampa e per ispirare me stesso e gli altri. A un certo punto, però, Anversa mi stava stretta, e ho deciso di fare nuove esperienze. Mi sono state offerte residenze artistiche a Vienna e Amsterdam, e per un po' ho preso questa direzione. Nel 2010 ho incontrato quasi per caso un produttore di vestiti qui in Italia, che si é offerto di sviluppare la mia collezione. Con loro ho imparato moltissimo e piano piano quello che era un progetto d'arte ha iniziato a trasformarsi in un progetto di moda. Anche se gli scambi con l'arte sono sempre molti».
Poi è andato in America...
«Sì, anzi ci ho lasciato il cuore! Ho vissuto "on and off" a San Francisco per due anni, una città specialissima. Chiaramente ho anche viaggiato, Los Angeles e New York sono città fantastiche, ma a San Francisco mi sentivo più a casa perché é una città più hippy e meno consumista, dove chi ha qualcosa di personale da dire trova più ascolto».
I concorsi per talenti della moda presentano spesso collezioni fuori dal mercato: come si impara a mettere insieme creatività e business?
«La moda é seduzione, per fare in modo che la gente desideri i tuoi vestiti non basta il prodotto, ma ci vuole anche il fascino. E quello non si decide a tavolino. Senza questo fascino i vestiti non sono moda, ma merce. Chiaramente, soprattutto per l'uomo, si tratta di un fascino tradotto in dettagli, stoffe, particolari anche funzionali. E queste sono cose che si imparano poco alla volta. Ma razionalizzare troppo non é mai una strategia vincente».
Chi immagina possa mettere i suoi vestiti?
«Un cliente di gamma medio-alta, informale ma con un gusto particolare».

 
Ancora lui visto da Andrea Cammarosano


L'anno scorso è stato selezionato tra i quattro emergenti a "Who is on/Next" di Pitti Immagine Uomo e ha vinto il premio di Yoox per vendere una capsule collection sul loro sito. Com'è andata?
«Esperienza bellissima. Ottenere non solo il premio Yoox, ma anche la menzione speciale della giuria di Pitti, che é stata molto calorosa, mi ha sorpreso. Non mi aspettavo che avrei avuto questo riconoscimento in Italia, e al Pitti poi, che é una piattaforma molto istituzionale. E invece molte cose si stanno muovendo nella giusta direzione, nel senso che c'é attenzione anche per i giovani. Il problema é che il mercato é molto in declino e quindi si fa fatica a decollare partendo da qui, bisogna iniziare col vendere al di fuori dell'Europa. Yoox mi ha dato un grande aiuto sia per le vendite che per la stampa, é una piattaforma incredibile presente in più di cento paesi, con cui spero di potere collaborare di nuovo in futuro».
Adesso un nuovo capitolo, ad Iceberg, marchio storico.
«Al momento faccio una consulenza di stile su Iceberg uomo, in cui mi occupo in particolare della linea commerciale, e dirigo un master internazionale al Polimoda. Stiamo mettendo in piedi un modello tipo "Anversa" ma con maggiore flessibilità e con un'offerta formativa più ampia. E continuo il mio brand, prodotto interamente nelle Marche».

 
Andrea Cammarosano, docente al Polimoda

Cosa non le piace della moda maschile di oggi?
«Per principio non parlo delle cose che non mi piacciono. Sono fortunato a fare quello che faccio, e ci sono troppe cose che invece mi piacciono, quindi preferisco concentrarmi su quelle. I tessuti, i colori, le forme, ma soprattutto la bellezza: il mondo della moda é così bello e bisogna concentrarsi sulle cose positive.
Che personaggio le piacerebbe vestire?
«James Franco, Adrien Brody, il musicista Owen Pallett, il giornalista Angelo Flaccavento».
Un capo per Grillo, uno per Bersani, uno per Berlusconi. E uno per il sindaco Cosolini.
«Per Berlusconi: parrucchino. Per Grillo: parruccone. Per Bersani: giacca e cravatta. Per Cosolini: maglione di lana».
twitter@boria_a


mercoledì 1 gennaio 2014

MODA & MODI

Giorgia Caovilla, il tacco dodici tagliato a metà


 Scendere, se di cognome fai Caovilla, può sembrare un'impresa ancora più difficile che salire. Lo stiletto ce l'hai nel dna e anche la filosofia del tacco dodici. Ma Giorgia Caovilla, figlia di René, il mago delle scarpe gioiello dall'altezza mozzafiato, non si è lasciata spaventare dai geni. E dopo undici anni a farsi le ossa nell'azienda paterna, nel 2010 lancia la sua griffe, O Jour, scarpe di lusso con un pregiudizio da sfatare: il mezzo tacco.

Giorgia Caovilla

Le modaiole li chiamano pomposamente "kitten heels", ma intorno ai cinque, sette centimetri, la diffidenza si addensa comunque. Si sprecano i manuali su come evitare di franare dai trampoli, ma non c'è libro a rincuorarci sul fatto che l'altezza dimezzata non equivale a zitellaggio.
Lei, la quarantenne Giorgia, i pregiudizi se li è messa proprio sotto i tacchi. E in tempi di crisi, ne ha fatto una bandiera: scarpe più discrete, eleganti ma non gridate, che si fanno guardare senza tormentare. In tre anni ha conquistato uno spazio in America, terra di "Manolo's" e Jimmy Choo, dove vende in dieci dei 72 punti vendita del department store di Neiman Marcus, e poi in Russia, Cina, Corea, Giappone. «È tutto partito da una mia esigenza - racconta - e da un prodotto che non trovavo sul mercato. Più che di dna, direi che si è trattato di consapevolezza e di voglia di creare una scarpa mettibile, piacevole, quotidiana».
Lei ha lavorato per undici anni con suo padre René. Che cosa ha portato con sè di quella lunga esperienza?
«Un grande insegnamento, in tutti i campi. L'esperienza ha rafforzato la consapevolezza di che cosa stavo per affrontare quando ho creato il mio marchio. Non è possibile partire se non c'è conoscenza del prodotto e dei suoi tempi di realizzazione. Ci vuole uno zoccolo di esperienza per mettersi sul mercato, soprattutto in un momento di crisi e con un'offerta già ampia. Questo è stato il mio valore aggiunto».
Quando ci si chiama Caovilla, lanciare il proprio brand è più facile o più difficile?
«Non è facile far passare un messaggio nuovo. È chiaro che si viene sempre associati a quello già esistente. Io invece volevo fare un prodotto diverso e soprattutto con una filosofia diversa. In questo senso, non mi ha aiutato. È stato difficile dire: guardate che ho qualcosa da dirvi che non c'entra niente con quello a cui siete abituati. La credibilità del nome, invece, mi è stata d'aiuto e non lo nego».
Suo padre una volta ha detto: un uomo è attratto dal tacco alto anche quando non lo vede. Perchè una donna è diversa con lo stiletto, anche se è nascosto dai pantaloni. Che cosa ne pensa?
«La differenza non è tra tacco alto e medio, perchè entrambi ingentiliscono la figura, è tra tacco e non tacco. Bisogna sfatare un pregiudizio: anche i "kitten heels" danno una certa postura, un certo slancio alla figura, proprio come i dodici».
Quando si dice "mezzo tacco", però, vien subito in mente un'immagine da zitella, o no?

Un modello O Jour di Giorgia Caovilla
«Invece tutte le clienti le chiedevano. La spinta è stata anche personale: non c'era sul mercato una scarpa femminile che potessi mettere tutto il giorno, facendo una vita normale e non una vita di sofferenza, a meno di non scegliere una scarpa da ginnastica, che toglie grazia. Così me la sono disegnata. È stata una sfida: molto più facile rendere bella una scarpa col tacco alto e molto più difficile col mezzo tacco, perchè le proporzioni sono tutte diverse. Non ho mai avuto paura di fare modelli da "siora", nè della crisi, che già si sentiva quando ho cominciato. Sono andata dritta come un treno, senza titubanze».
Dall'alto dei suoi cinque-sette centimetri, voleva dare un taglio al passato?
«Direi che ha prevalso la richiesta di certi mercati. Prendiamo la Russia: tacco 12 per le décolléte e tacco basso per gli stivali. Quando ci si propone e si vuol essere competitivi, non si possono ignorare le esigenze dei compratori. Faccio anche le ballerine, molto amate in Corea. Se il nostro brand lì è riconosciuto e apprezzato, perchè non venire incontro a quello che il mercato chiede?».
Se la immagina Sarah Jessica Parker, Carrie di "Sex&TheCity" con un paio di O Jour?
«Ma certo, è una fashion victim, e oggi la via di mezzo è una tendenza moda. Basta plateau e stiletti, ci vogliono equilibrio e moderazione anche nel tacco».
Però adesso fa anche lei i dieci centimetri... Pentita?
«Ma no, non ho abbandonato il mio obiettivo, solo completato la collezione. Alcuni mercati, come gli Emirati Arabi e la Russia, per cultura e forma mentis, cercano il tacco...».
Gli Emirati?
«E pensare che si stanno moderando anche loro, prima li volevano ancora più alti...».
Il sociologo Tim Edwards dice: con un tacco dodici si cammina sul set di un film porno. È d'accordo?
«Assolutamente no. Non equivale per forza a dire: sono sfacciata. Piuttosto, il plateau: l'ho fatto e messo anch'io, ma ormai è passato. Lo rigetto proprio».
Gli stiletto invece?
«Certo che lo porto. A tutte le feste, alle grandi serate».
Lei ha una testimonial eccellente, Taylor Swift. Chi le piacerebbe ancora vedere con le sue scarpe?
«Sono molto orgogliosa di Taylor, che ha 23 anni, e ha decisamente cancellato il pregiudizio che il mezzo tacco vuol dire mezza età. A parte lei, la mia cliente-modello è Charlotte Casiraghi, giovane, elegante ma non scontata, legata al mondo sportivo. Anch'io uso elementi dello sport: il cuoio, la selleria».
Come identificherebbe i mercati con un dettaglio fashion?
«L'America ama i sabot, la Corea i fiocchi, il Giappone i colori tenui, pastello».
Che cosa non le piace della moda di oggi?
«Non sento proprio i plateau. Nè certe stampe con fantasie eccessivamente spudorate. Sono troppo riconoscibili, standardizzate, identificative di un marchio. Ci rendono cartelli pubblicitari e appiattiscono la voglia di diventare qualcosa di diverso».
La prima scarpa che l'ha convinta a disegnarle...
«Non una scarpa, ma una donna: mia nonna. Lavorava in azienda ed era molto dedita al prodotto in sè. È lei che mi ha trasmesso il piacere di incollare, di creare un fiocco. Mi faceva giocare con gli strumenti, ma i miei esperimenti non restavano tali, magari poi diventavano un ornamento, lo spunto per creare un particolare della scarpe. Da lì, è cominciato tutto».
twitter@boria_a