lunedì 27 gennaio 2020

MODA & MODI

Empowering femminile? No, se la manica è all'Enrico VIII... 



Olivia Colman



Battuti all’asta poco più di un mese fa, gli abiti del guardaroba di Joan Collins, molti indossati anche negli episodi della serie cult Dynasty, parevano destinati a cadere sotto un marmoreo oblio. Estinzione per naturale dispersione. Ma l’immarcescibile Alexis è dura a morire, anche sulle passerelle. Prima sono rispuntate le spalle imbottite, simbolo contundente di potere, ora, per restare nei paraggi, ecco un’altra inconfondibile caratteristica della perfida tycoon: le maniche a sbuffo. E non solo. Maniche ad ala di pipistrello, maniche da regina cattiva, maniche teatrali con cascatelle di volant o palloncini più o meno gonfi che rendono la figura statuaria e imperativa. Elemento, non più dettaglio, le maniche rubano la scena.

Le avvisaglie si sono avute agli ultimi Golden Globe, quando perfino la sobria Olivia Colman, vincitrice per la sua regina Elisabetta nella serie “The Crown” su Netflix, si è lasciata prendere la mano e, con un salto indietro di cinquecento anni, si è infilata nell’epoca Tudor uscendone in un abito lampone con tanto di strascico e maniche a corolla fino al gomito.


Ma se di empowering femminile si tratta, non era meglio ispirarsi al suo personaggio, la zuccherosa ma inossidabile regina Elisabetta, piuttosto che vestirsi da Enrico VIII (che in tempi di #metoo non è neanche un gran testimonial)? Il revival ha contagiato Cate Blanchett, Zoey Deutch, Dakota Fanning, un’esagerata Beyoncè, ciascuna ultra ammanicata.


Enrico VIII nel ritratto di Hans Holbein




Dal red carpet ai negozi il passo è lungo e le versioni in commercio non saranno così scenografiche, seppure altrettanto pericolose. Questione di proporzioni, prima di tutto. Maniche a sbuffo e palloncino nelle alte fanno effetto installazione, nelle piccole contribuiscono a schiacciare e accorciare. E poi c’è quella leziosaggine un po’ compiaciuta, da eterna bambolona, che nemmeno Alexis riusciva a scrollarsi di dosso, quando veniva trascinata in prigione fasciata di rosso e con l’unica manica come un guantone...



Joan Collins, Alexis in Dynasty


Le maniche espanse ritornano dall’edonismo reaganiano, per noi dall’entusiasmo spendareccio degli anni “da bere”. Oggi insostenibili.

lunedì 13 gennaio 2020

MODA & MODI

L'armadio social e sostenibile delle moderne Piccole donne 




Saoirse Ronan, Jo, e Timothée Chalamet, Laurie




La macchina da presa corre lungo la gonna gonfiata dalla crinolina, scivola sui mutandoni bordati di pizzo e si ferma sul tocco glamour: gli stivaletti neri. L’inquadratura di Amy che dipinge in piedi davanti al cavalletto sembra uscita dal suo account Instagram. Siamo a fine ’800 ma basta un accessorio a catapultare questa burrosa signorina nella contemporaneità e a farci desiderare i suoi ankle boots più che se li promuovesse una it-girl. Il guardaroba delle Piccole donne di Greta Gerwig, firmato da Jacqueline Durran, già premio Oscar per i costumi di Anna Karenina, vale tutto il film (e un’altra candidatura). Non si tratta tanto di correttezza filologica, che da sola non differenzierebbe l’ultima e modernissima rilettura del capolavoro di Louise May Alcott da quelle precedenti.

Al contrario, è il dettaglio atemporale, il capo, l’accessorio, il modo di indossare un golf o un vestito, che fa amare queste sorelle March anche a chi non le ha mai sentite nominare. I loro espedienti per minimizzare le ristrettezze economiche sono attualissimi e virtuosi esempi di moda sostenibile, senza rinunciare all’inventiva per rimbalzare sulle bacheche social. Un esempio? Gli scialletti, che non fanno miseria, anzi, stretti come scaldacuore sopra le gonne di lana, con disegni a contrasto, diventano mini pull, quintessenza del bon ton.







Quando scrive a lume di candela, Jo indossa una giacca militare con gli alamari, forse un reperto dell’esercito in cui vorrebbe arruolarsi. Sembra il denim fintamente frusto delle passerelle ed è l’uniforme che sceglie per puntare sulla parità in un ambiente maschile, ieri come oggi. Perfino la virtuosa Meg nell’abito rosa, prestato, da debuttante, ha l’apertura alare di una lady Gaga sul palco degli Oscar. Delle piccole donne di ieri desideriamo le mantelline, le camicie a fiori, gli stivaletti coi lacci, il camicione blu della protagonista sulla spiaggia. Sotto traccia il suggerimento di una moda fluida: Jo non porta il busto e Laurie scambia con lei le sue morbide giacche maschili.





Ha 150 l’armadio delle piccole donne: riciclo, moda slow e intercambiabile. A guardarci dentro con la sensibilità (o il senno) di oggi c’era già tutto lì.

sabato 11 gennaio 2020

IL LIBRO

I trenta Natali di Maruša Krese, in viaggio per fuggire il Natale 




Si possono ancora leggere racconti di Natale, anche se il Natale più vicino è ormai passato e archiviato. Si possono leggere se il Natale è un pretesto per esplorare fino in fondo la propria vita, andando avanti e indietro nel tempo, tra le città, le strade e i continenti che l’hanno attraversata. Se è un momento simbolico per rievocare gli amori, gli strappi, le infelicità, le inadeguatezze, gli stupori che l’hanno accompagnata. Anche la Storia, racchiusa nelle tante minute storie di un diario familiare, dalla Jugoslavia del compagno Tito, all’indipendenza della Slovenia, ai giorni dell’assedio di Sarajevo.

È un piccolo, prezioso collage di trenta Natali, edito da Besa Muci nella traduzione di Lucia Gaja Scuteri, quello che ci lascia la poetessa, scrittrice, giornalista e psicoterapeuta slovena Maruša Krese, scomparsa nel 2013 a 66 anni e per la prima volta tradotta in italiano. Laurea a Lubiana e negli Stati Uniti, studi e lavoro in Inghilterra, il trasferimento in Germania dopo la dissoluzione della Jugoslavia, quando in quella patria slovena, diventata repubblica indipendente, non si ritrovava più.


“Tutti i miei Natali”, s’intitola la raccolta, dove il Natale è spesso un transito “fisico”, un vero e proprio passaggio dell’autrice da un paese a un altro, un viaggio che compie in auto, in aereo, in bicicletta, a piedi, prima da single, poi da sposata o divorziata, prima sola poi incinta, infine con uno, due, tre bambini da padri diversi ma nel racconto ugualmente sbiaditi, voci al telefono in una mattina con pochi soldi e senza regali. E in questi spostamenti e spaesamenti del Natale, consciamente cercati («viaggiando alla vigilia sfuggiamo a baci e agli abbracci e alla ricerca di inutili menzogne») che Maruša Krese ci porta dentro la sua vita, con brevi, poetiche, ironiche, a volte dolenti istantanee, tutte senza data (accompagnate da immagini di domestica solitudine firmate dalla sorella Meta).





Lei bambina coi fratelli, la notte della vigilia di Natale, mentre mamma e papà sono alla riunione di partito (“perchè in questo giorno i miei genitori non ci sono mai a casa?”), o dalla famiglia paterna, a Bogneča Vas, a dormire sul forno del pane con i cugini, mentre la nonna spiega che loro, i bambini diversi, i bambini dei “comunisti”, a messa non ci vanno perchè il parroco ha tradito il padre partigiano. E ancora lei, con i piedi bagnati per la corsa nella neve, che scopre il presepio, gli occhi pieni di animali, di magi, di pastori, dietro l’altare di una chiesa, “iniziata ai misteri del Natale” dalla cuoca Pepca, di nascosto ai genitori.


Ci tornerà, in chiesa, molti anni dopo, i figli lontani per cui accende candele, all’alba di un altro, imprecisato Natale, piena di rabbia e di disincanto, chiedendosi dove ha sbagliato. E gli sbagli, tali solo per chi li giudica, sono scelte precise, direzioni intraprese a un incrocio dell’esistenza, su cui nei giorni di festa capita di fare bilanci. Ecco allora Maruša in bicicletta nella Valle dei Re, in Egitto, con i bambini morti di sete che pensano all’albero, mentre lei ha scelto quella destinazione irrituale per andare «lontano dall’inverno e dalla tristezza causata dalle mille bugie dette in famiglia», lontano «dalla vacua aspettativa che a Natale succederà qualcosa di bello».


Eccola a Lubiana, sotto la neve e con la benzina razionata, a ripensare a quell’unico regalo di matrimonio di valore, il quadro di un pittore in voga, messo in vendita per comprare da mangiare e pagare le bollette («spero non venga nessuno a farmi visita, perchè oggi ho preso la decisione di disfarmi in qualche modo dell’inutilissima tragedia in cui mi sono andata a infilare»). E ancora a Sarajevo sotto granate e cecchini, nel ricordo dell’impegno dei genitori, su un volo per San Francisco con l’ultimo nato piangente in braccio («che avevo per la testa per farmi incastrare di nuovo? In ogni matrimonio finisco per assumere il ruolo maschile al posto loro»), in un ospedale berlinese col secondogenito in dialisi («mi dicono che ero troppo giovane, che vestivo i bambini troppo leggero e spesso avevano freddo»), in auto da Berlino al confine sloveno, con i tre piccoli guardati con compassione agli autogrill per quella mamma hippie e irresponsabile: «Vi siete persi il Natale».

E per quanto mettendosi in strada si scavalla, si rimanda il confronto con se stessi, rimane «tutto quel chiedersi con lo sguardo perso nel vuoto: “E ora che si fa?”». E la voglia di tornare, in un luogo alla fine da poter chiamare casa.