domenica 20 luglio 2008

E' ITS SEVEN A TRIESTE
Il tedesco David Steinhorst vince la settima edizione del fashion contest

Donne col viso nascosto da maschere soffocanti. Donne con elmetti da guerra. Donne con la testa coperta da cappucci e becchi posticci, animali pronti al combattimento. Donne con occhiali da amazzone urbana. Che sollievo quando esce in passerella la collezione del tedesco David Steinhorst, che veste le donne da donne, le cala con grazia in deliziosi abitini da cocktail blu notte, sotto drappeggi trattenuti da inserti metallici, in proporzioni perfette, tagli di antica sartoria. Ha vinto il premio più importante, la Fashion collection of the year a ITS Seven, David, ed è stato un giudizio sacrosanto.


Il vincitore di Its Seven  David Steinhorst




Le sue sono donne senza maschere, scudi, senza impalcature di gommapiuma o gusci da Calimero sulla testa. Donne libere da strumenti da guerra preventiva. Donne lunghe e fasciate, come le immagina il britannico Ross Barnes, infilando le sue silfidi in interminabili vestiti optical, grigi o giallo acido, bordati da decori a spirale. Va meglio agli uomini, ammorbiditi, coccolati, accarezzati da tre belle collezioni: le lane norvegesi di Siri Johansen, le trasparenze polverose del tedesco Adrian Sommerauer, le camicie e i pantaloni rigorosi dell'italiano Filippo Fanini.
Nero e magenta, per una notte, i colori dell'ex Pescheria. Luci e telecamere. La colonna sonora sparata dagli Electrosacher che fa pulsare i muri bianchi sotto il gigantesco cartello, in cima all'ingresso, come un avvertimento: «La creatività non è un peccato». Passerella conclusiva, ieri sera, per le collezioni dei diciotto giovani finalisti alla settima edizione di «Its», i più lontani arrivati da Tailandia, Cina, Giappone, Corea del Sud. Designer che avranno tempo per misurarsi col mercato, ma che in questa prima, grande prova generale del loro futuro, paiono avere una personalissima e a volte un po' deviante concezione dell'eterno femminino.
Rompono il ghiaccio, ben oltre le nove, le signore della spagnola Amai Rodriguez Coladas, con faretra sulla schiena e maschera incollata ai lineamenti come una seconda pelle (e c'è voluto un pressing mica da poco sulle modelle, giustamente riottose a uscire in passerella su tacchi vertiginosi, in apnea e due fessure al posto degli occhi...). Subito dopo ecco i vestiti dell'israeliana Jan Farhi, pantaloni simil-mimetici dipinti sulle gambe e una testa posticcia da mostro di X-Files. E ancora le creature del giapponese Yuima Nakazato, ispirato dagli studi di Leonardo da Vinci a costringere le sue femmine in armature che si aprono svelando ali metalliche, per finire con il «crazyssimo» e ipertecnologico mondo del triestino Andrea Cammarosano, dove le donne sembrano solo tappe di una fase evolutiva, dai vegetali alle rocce e ritorno.
Pazzie, eccentricità, sperimentazioni. Quella di ITS è forse l'ultima vetrina in cui gli allievi designer possono sfogare la loro visionarietà, spingersi fino ai confini di fantasia e artigianalità, prendersi qualche azzardo, prima di mettersi alla prova negli uffici stile di grandi griffe,
costretti a fare i conti con il mercato, la concorrenza, la vestibilità, la produzione industriale e seriale, i bilanci, le delocalizzazioni. Molti dei loro futuri datori di lavoro erano tra il pubblico del Salone degli Incanti, perchè mai come in quest'edizione il concorso triestino ideato da Barbara Franchin ha visto una «calata» di aziende a caccia di emergenti.
Se una piccola delusione per gli organizzatori è stato il forfait della top model Bianca Balti, impegnata in una campagna pubblicitaria internazionale, nel parterre della Pescheria c'erano rappresentanti di Vuitton, Armani, Gucci, Moschino, Vivienne Westwood, Raf Simons, Margiela, Hogan, Adidas, Morellato, Moroso, Rinascente. C'erano Giovanni Acconciagioco, socio di Lapo Elkann nella griffe del rampollo Agnelli, Italia Independent, insieme al designer del marchio, Andrea Compagnone, e ancora la londinese Mandi Lennard, cacciatrice di talenti, l'americana Diane Pernet, pure lei potentissima «fiutatrice» (era quella affascinante signora che spiazzava i non addetti ai lavori con un look preso a prestito da un telefilm di Zorro...), c'era Elisa Palomino, braccio destro di Diane von Fürstenberg a New York e la direttrice del museo di design e arti applicate contemporanee di Losanna, Chantal Prod'hom, sempre sensibile alle manifestazioni al confine tra arte e moda. Renzo Rosso, il signor Diesel, principale finanziatore del premio, è arrivato col suo jet privato direttamente dalla
Spagna. Non ha mai mancato una finale, perchè dal «serbatoio» di Its sono usciti ed escono ancora molti dei creativi che lavorano alle sue tante linee, dal denim agli accessori al pret-à-porter di lusso.
Ex Pescheria zona franca della creatività. E, per una notte, davvero Salone degli Incanti, nel senso traslato. La passerella di una delle grandi capitali della moda, con la stessa maniacale e puntuta organizzazione, calata negli spazi immensi del fu mercato ittico, mai come in questa occasione apparentemente compressi, insufficienti, vibranti, vivi.
Victoria Cabello conduce la serata in inglese a ritmo serrato, senza i birignao che rendono insopportabile il cerimoniale dei premi. Tra le autorità locali, un parterre abbastanza nutrito: sindaco Dipiazza e signora, la presidente della Provincia Bassa Poropat, gli assessori comunali Greco e Rovis e il consigliere regionale Bucci, fan della prima ora, quando in piazza Unità a «Its» credevano in pochi, forse nessuno. Non si avvistano assessori, o assessore, regionali. Dopo la proclamazione dei vincitori, l'ultima passerella è per tutti. Un frullato, più che un incrocio, di nazionalità, di lingue, di pelli, di tratti. Come gli abiti che sono appena usciti: quelli di un giapponese sedotto da Leonardo o di un'italiana, Alithia Spuri Zampetti, che guarda all'architettura di Tadao Ando. Di un cinese, Yang Du, affascinato dall'Egitto, e del tailandese Ek Thongprasert, il vincitore dell'anno scorso, che ha portato a Trieste il risultato del premio, una raffinata collezione nelle sfumature di Renoir e Van Gogh.



Diane Pernet
Società globale sembra una parola fuori posto, sfruttata e inadeguata. Qui gli incastri sono infiniti e più sottili, come quelli di un caleidoscopio. E il gene comune è la capacità di immaginare e intercettare il futuro, proprio quello che Trieste aspira a fare.

martedì 15 luglio 2008

MODA & MODI: vestaglietta "wrap"

Il "Linda" wrap dress di Diane von Fürstenberg

Nell'epoca delle mamme si chiamava la «vestaglietta» e non aveva un sapore tanto glamour. Anzi, quelle fantasie fiorate mettevano perfino un po' tristezza, facevano casalinga disperata ante litteram sull'orlo della passeggiata della domenica pomeriggio. Oggi la modesta vestaglietta da casa è diventato il molto più sciccoso, a partire dal nome, wrap dress, ritornato improvvisamente negli armadi delle star e rispolverato in grande stile proprio dalla stilista che lo inventò, Diane von Fürstenberg.
Era il 1974 e la nobildonna conquistò l'America con un abituccio semplice semplice, che si allacciava davanti, ma riusciva a evidenziare le curve e quello che allora le mamme, appunto, chiamavano «personale», in modo tutt'altro che pudico, soprattutto se il tessuto scelto era il fasciante jersey. A Firenze Diane ha rispolverato la sua creazione più fortunata e ne ha popolato un'intera collezione «da crociera», insieme a short, prendisole, sciarpe.
Chi non avesse conservato l'archeologia dei capi di famiglia puntando con lungimiranza sui periodici «ritorni» della moda, nei negozi vintage può trovare wrap dress fascinosamente anni Settanta, quintessenza e ortodossia della casalinghitudine, con i colori sgargianti, le fantasie a spirale, le righe eccessive o i fiorami annegati nelle nuance zuccherose, azzurro e arancione in testa. Abito di seduzione antica e datata come ci ricordano le Loren, le Mangano, le Lollobrigide di una lunga stagione cinematografica, ma anche una più recente icona della mediterraneità caliente, la Penelope Cruz di Almodóvar, un'attrice intellettuale con Julianne Moore o la curvosa cantautrice Beyoncé.
La neo-vestaglietta o meglio il wrap dress sta bene alle sinuose, fascia seno, vita e fianchi e detesta le ossa sporgenti. Si appoggia sui chili in più e, per una volta, li valorizza. Ama le occasioni diverse: stampato, a righe o a fiori - com'era in origine - si indossa al lavoro ma anche a mezza sera, di seta è adatto a un'occasione importante senza essere troppo ingessato. Ha due contro-indicazioni: chi è troppo magra e senza seno rischia di sembrare un attaccapanni. Chi non sa portare i tacchi, si rassegni: il wrap dress con ciabatte o infradito rimane solo una «vestaglietta», da contemporanea e molto poco allettante «desperate housewife».
@boria_a
Diane von Fürstenberg

martedì 1 luglio 2008

MODA & MODI

Se le mezze maniche fossero le mezze stagioni

La moda maschile è appena scesa dalle passerelle milanesi. Sarà per questo che l'occhio cade più facilmente sulla galleria dei piccoli orrori quotidiani da cui siamo circondati e che in estate, col caldo e l'allentamento dei freni inibitori, anche in un luogo super-istituzionale come l'ufficio, tende ad allargarsi pericolosamente.


D'accordo: il cellulare al collo è - meno male - in netto ribasso, ma c'è ancora qualche irriducibile che si ostina ad appiccicarselo alla cintura, in quelle spaventose custodie di pelle e plastica trasparente che sembrano uno dei gadget di Star Trek. E le crocs? A nulla serve ripetere che ormai se le mettono solo i tedeschi e i fintissimi infermieri delle fiction ospedaliere italiane: c'è proprio chi non si decide a scrostarsele, letteralmente, dai piedi e che esibisce tutta la serie taroccata, acquistata sulle spiagge a un terzo del prezzo dell'originale (dal punto di vista estetico tra l'autentica e l'imitazione non c'è alcuna differenza, ma la plastica nelle seconde è talmente scarsa che porta l'epidermide al punto di fusione...).

Anche il sandalo di cuoio conquista in questi mesi nuovi pimpanti estimatori. Normali signori che d'inverno si muovono in mocassini, simil-pedule, pseudo-clark, scoprono improvvisamente com'è bello avere il piede costretto in quelle armature di cuoio marroni e si aggirano, del tutto estemporanei, in pantaloni con la riga del ferro da stiro e calzature da frate trappista.


Le espadrillas? Pensavamo di averle relegate all'estate da dimenticare (almeno dal punto di vista modaiolo) degli anni Settanta, insieme alle zeppe di corda allacciate intorno alla caviglia. Invece no, sono tornate, bisex e brutte come allora e senza neppure quella carica di allegra contestazione, quel senso di avvolgere il piede in un tessuto naturale, quell'etnico magari un po' scomodo ma molto politico di quarant'anni fa.


Le estremità sono il punto di caduta, una zona franca del gusto. Le calze spariscono e rispuntano i fantasmini, quei copri-dita, spesso bianchi (ma si vedono lo stesso, anzi, si vedono di più...) che dopo un viaggio in lavatrice, a patto di ritrovarli, si sono trasformati in vermiciattoli informi, difficili da riportare alla sagoma di un piede umano. Ma il caldo improvviso induce anche ad altre indulgenze. 


La camicia, per esempio. Se le mezze stagioni non esistono più, le mezze maniche invece resistono. Tristi camiciole tipo pigiama, sbottonate sul petto con buona pace dell'irsutismo diffuso (avete mai incontrato uno che si mette la camicia con le mezze maniche e che si fa anche la ceretta?), che la cravatta non affranca, tutt'altro.
I pantaloni color stabilo boss? Valentino dice che dopo i vent'anni è meglio che una donna si dimentichi la minigonna. Questi pantaloni, per la reciprocità, sono consigliati solo sotto i quaranta e oltre il metro e ottanta.


Ci sono in giro anche giacchettine estreme, nere e con qualche guizzo argentato, tipo prestigiatore. Se ne avete ricevuta una in regalo e ve la siete tenuta (insieme a chi ve l'ha regalata), le recenti sfilate insegnano come portarla: sotto ci va una canottiera (sì, proprio lei, alla Bossi...) a coste larghe. Ma dai pettorali agli addominali, sempre secondo la passerella, la «tartaruga» dev'essere perfetta.
twitter@boria_a