lunedì 26 agosto 2019

MODA & MODI 

Passerelle open



Addio al rito esclusivo della sfilata. Al posto riservato nella front row, dove gli occhiali schermati di Anna Wintour da sempre, come un periscopio, spiccano tra influencer, attrici, principesse, testimonial internazionali del prestigio del brand, omaggiate del posto più frontale e più mediatico. Adesso, per la prima fila, basta pagare.

A infrangere il tabù dell’inaccessibilità delle passerelle ai non addetti ai lavori è la settimana della moda inglese, (la London Fashion Week dal 13 al 17 settembre 2019), che apre al pubblico, per ora in due sole giornate (14 e 15), con biglietti che costano 135 sterline e lievitano a 245 per la prima fila. Chi compra l’ingresso, potrà assistere a sei show e a incontri con esperti, e visitare gli spazi dove la moda incrocia arte, tecnologia e musica e dove espongono stilisti d’avanguardia, attenti ai temi etici. Una piccola grande rivoluzione: il cerimoniale delle passerelle traballa, investito dal tornado dei social, che impongono immediatezza di comunicazione e intercettano un pubblico nuovo.

Da tempo le sfilate sono eventi tutt’altro che per pochi. Prima gli smartphone le hanno “uccise”, come titolava già due anni fa un articolo del New York Times, mandando all’istante in rete le immagini di nuovi trend, già usurati “visivamente” quando arrivano in negozio. Gli stilisti hanno risposto con lo streaming delle sfilate dai loro siti e da quelli delle associazioni di categoria, che permettono a tutti di godersi i brand preferiti dal divano di casa.


Il biglietto in vendita è solo l’ultimo passo di un processo di “democratizzazione”, che cerca di rendere più inclusivo quello che finora ha mitizzato l’esclusività. Segno dei tempi. La moda si confronta con sostenibilità, condivisione, taglio degli sprechi. La sfilata a invito è un monumento, ingombrante, del passato. Un po’ come Anna Wintour.

sabato 17 agosto 2019

 IL LIBRO

Benvenuti a Jalna, la saga fluviale di Mazo de la Roche

 
 


Si fa presto a diventare lettori saga-addicted. Una magione fascinosa in mezzo alla natura, famiglie precocemente allargate con qualche figlio fuori dai sacri vincoli, amori clandestini, differenze sociali, patrimoni da rivendicare, tradimenti ed eroismi, il turbinio della storia. Variamente distribuiti nel tempo e nelle dosi, questi ingredienti ritornano tutti nella serialità letteraria che Fazi sforna da tempo con successo: dai clan dei Cazalet di Elizabeth Jane Howard, agli Aubrey di Rebecca West, alle “ragazze” tedesche di Carmen Korn, tutti approdati nelle classifiche di vendita, segno che le vicende di più generazioni fidelizzano il lettore, con la lunga tenuta dei personaggi e delle trame, al tempo stesso stuzzicante e confortante.

L’ultima saga arrivata in libreria, sulla carta scorre fluviale. “Jalna”, della canadese Mazo de la Roche, è il primo di ben sedici romanzi che raccontano tre generazioni di Whiteoak, riproposto da Fazi a 92 anni dall’edizione originaria, uscita nel 1927. Un successo straordinario nella prima metà del ’900, con centinaia di edizioni inglesi e straniere, undici milioni di copie vendute nel mondo, un film (1935), una serie televisiva e grande fama e riconoscimenti per l’autrice, che visse peraltro una vita riservatissima, custodendo gelosamente il suo privato con Caroline Clement, “sorella adottiva” e poi compagna, in quello che all'epoca veniva chiamato "Boston marriage".


Non immaginatevi i leccati Crawley di Downton Abbey. I Whiteoak ricordano piuttosto l’epopea dei Poldark di Winston Graham, con cui, sebbene li separino due secoli, condividono tratti di passionalità e anticonformismo (oltre allo sviluppo torrenziale).


Siamo nel 1925, in Ontario. La proprietà di Jalna deve il suo nome alla guarnigione in India dove si conobbero i due capostipiti, il capitano inglese Philip, da tempo scomparso, e l’irlandese Adeline, che, durante una visita alla sorella nel 1848, lo incantò con «i suoi passionali occhi castani dai riflessi mogano».


Amore a prima vista, il trasferimento in Canada grazie alla provvidenziale eredità di uno zio che sottrasse la coppia al tran tran dell’insalubre vita militare, quattro figli. L’ultimo, Philip come il padre e suo preferito, a sua volta da tempo passato a miglior vita, ha lasciato sotto la maestosa ala materna un totale di sei discendenti, avuti da due matrimoni, il secondo con la governante dei bambini (“graziosa ragazza che fu sempre trattata con freddezza dalla famiglia...”).
 

All’inizio della storia, l’anziana matriarca Adeline, in trepida attesa di festeggiare il secolo di vita (non vi ricorda zia Agatha Poldark?), regna, tra vezzi e capricci, sulla composita tribù, sepolta da incastellature di nastri e con un appetito sempre vigile. Nella magione abitano con lei i due figli maschi settantenni, Nicholas ed Ernest, scialacquatori diseredati dal padre, e i nipoti di varie età: Meg, la maggiore, che ha fatto saltare il matrimonio per una pesante infedeltà del promesso, il poeta Eden, Piers, che cura campagna e bestie, l’adolescente Finch, un lungagnone alla ricerca del suo posto nel mondo, il piccolo Wakefield, e Renny, il vero reggitore della proprietà, inquieto e passionale.

Ma l’impalcatura vittoriana su cui poggia la vita di Jalna sta per essere minata. C’è un lato sfuggente in ogni inquilino della casa, compresa la genitrice, che intuiamo essere stata moglie tutt’altro che remissiva e accomodante, o Meg, che si ribella al volere maschile con un molto contemporaneo disturbo alimentare. Basterà il confronto con l’esterno per portare in superficie le inquietudini di ognuno e farle esplodere.


Saranno altre due donne - scelta non casuale, alla luce della biografia della scrittrice - a irrompere nella vita della famiglia e a costringere gli uomini di casa ad affrontare la loro autentica natura, mettendone a nudo debolezze e insicurezze. Quando entrano a Jalna l’americana Alayne, editor in carriera, impalmata in una passione solo cerebrale da Eden, e la giovanissima Pheasant, la “bastarda” che ha mandato all’aria il matrimonio di Meg e che Piers ha sposato di nascosto, le convenzioni saltano, ma i due uomini si rivelano subito inadeguati a integrare le mogli nel rigido tessuto familiare. Nulla sarà come prima: il nuovo sangue in circolo spezza “l’incantesimo sinistro” di Jalna, liberando passioni e desideri repressi e creando inedite trasversalità femminili.


Come Adeline, anche il romanzo di Mazo de la Roche si avvicina ai cent’anni. Resiste all’usura del tempo? La sua maliziosa freschezza, la lingua pungente, l’ironia di fondo e la capacità di restituire i riti della famiglia, dai pasti alla messa domenicale, con magistrali descrizioni, ci fanno propendere per il sì. Sedici romanzi sono realisticamente troppi anche per lettori seriali, ma dei Whiteoak, che ci sono stati appena presentati, siamo curiosi di approfondire la conoscenza. —
MODA & MODI

Cravatta uguale a laccio


Che cosa ci ha lasciato il #metoo? Tante legittime rivendicazioni di identità femminile naufragano in passerelle piene di simboli mutuati dal guardaroba maschile. Lo slogan della moda invernale è “empowerment”.

Potere? Ci aspetteremmo di vederlo declinato in collezioni modellate sul corpo delle donne, con sicurezza ed equilibrio, mentre molti stilisti hanno scelto di rileggere la donna alla luce dell’uomo, cucendole addosso, con qualche acconcio alleggerimento, capi del suo guardaroba. Non è anche questa un’«appropriazione» indebita che ci dovrebbe far discutere, come quando ci indignamo perché la moda sfrutta a fini commerciali i simboli e i motivi propri di alcune culture, dai kimoni ai turbanti? L’hanno definito lo stile della “bossy girl” e in quel “boss” c’è un fastidioso senso di sopraffazione.

Spalle larghe, giacche coperte di tasche, combat boots, tailleur pantaloni, doppiopetto, bomber, pantaloni cargo, dolcevita. La signora del prossimo inverno ha a disposizione un intero armamentario da guerra, dove prevale l’elemento della forza su quello della persuasione, la chiusura sulla gentilezza. La strada dei diritti e della parità è ancora lunga e accidentata, e per attrezzarci a percorrerla la moda ci mette a disposizione indumenti che incarnano ruolo e potere per antonomasia.


Quale soluzione più facile che quella di pescare capi e accessori da maschio, smorzandoli con qualche trasparenza, una spruzzata di paillettes o un abitino sottoveste qua e là? Ci vestiamo, o travestiamo, da uomini per accorciare le distanze. Ma è una soluzione illusoria e la cravatta, che ritorna alla grande sotto le giacche a doppiopetto, sembra l’ennesimo laccio. 
@boria_a

domenica 11 agosto 2019

IL LIBRO


Le signore in nero di Madeleine St John 





C’è una bella differenza tra il reparto “Abiti da cocktail” e quello “Modelli esclusivi” nei grandi magazzini Goode’s di Sydney. Lo sanno bene “Le signore in nero” di Madeleine St John, il romanzo con cui la scrittrice australiana debuttò ultracinquantenne nel 1993, e che ora è pubblicato per la prima volta in Italia da Garzanti (pagg. 197, euro 16), con una prefazione di Helena Janeczek. Chi sono le signore in nero? Patty, Fay, la neodiplomata stagista Lesley, che presidiano quel paradiso dei desideri femminili nelle loro uniformi discrete, pronte a soddisfare ogni richiesta delle clienti facendosi precedere dall’immancabile “Scusi se l’ho fatta aspettare”.

Una bella differenza, sì, perchè tra i “Modelli esclusivi”, in una sorta di grotta rosa con divani in broccato color ostrica e armadi di mogano, si muove la “serpentessa” Magda, sensuale, travolgente, l’unica a poter aggiungere un tocco di bianco o di rosa alla divisa, l’unica, con le sue radici slovene, a portare con sè la sapienza del Vecchio Continente e a custodire i modelli più esclusivi del negozio, che da lì arrivano, firmati dai sarti della regina d’Inghilterra, sir Norman Hartnell o sir Hardy Amies, dalla geniale Chanel, dall’«ineguagliabile» Dior. Siamo nel 1950, nell’acerba e ancora “inclusiva” Australia, che scopre il piacere del consumismo e dà rifugio ai profughi del dopoguerra.


I reparti sono una metafora in questo delicato e insieme pungente romanzo, l’unico, di quattro, che St John, prima australiana candidata al Man Booker Prize, abbia ambientato nel suo paese. Metafora di differenze sociali, culturali, di genere, ma anche di aspirazioni femminili all’emancipazione, allo studio, all’indipendenza, a una nuova consapevolezza di sè e del proprio corpo.



Madeleine St John (ph Jerry Bauer)


Patty è una trentenne già sfiorita, che si consuma sognando la maternità e cuocendo bistecche per un marito distratto. L’indipendente Fay, soubrette mancata, è approdata ai magazzini dopo tanti lavori e altrettanti uomini, nessuno disposto ad andare al di là delle lenzuola. La piccola Lesley Miles, o Lisa, come ha scelto di farsi chiamare in un primo, piccolo atto di resilienza, divora romanzi russi in pausa pranzo e si dà coraggio con i versi di Blake (“tigre, tigre, che bruci luminosa nelle foreste della notte”) contro un padre che gioca la paga ai cavalli e le vieta di andare all’Università. 


Su tutte loro, le “signore in nero” australiane, cresciute nel miraggio del principe azzurro e finite a compiacere compagni ottusi e maschilisti, domina la “continentale” Magda, che legge, parla il francese, sa imbandire una tavola “esotica” con vini e formaggi abbinati. Suo marito non può che essere diverso dal laconico Frank o dall’ordinario signor Miles: si chiama Stefan Szombathelyi ed è un ungherese conosciuto nel campo profughi australiano, con cui condivide (oltre, addirittura! a qualche incombenza domestica...) un inglese infarcito di locuzioni antiquate, apprese da Shakespeare e Dickens.


Due mondi, femminile e maschile, due continenti, si guardano con reciproca diffidenza. E a mettere in comunicazione gli “abiti da cocktail” con i “modelli esclusivi” sarà Lisa, lo scricciolo dalla coriacea volontà di studiare che Magda inizierà all’alta moda, alle feste con lo champagne, al “savoir vivre”, a quel «particolare tipo di amore a prima vista che di solito coglie una donna quando è più giovane, ma che prima o poi tutte provano: l’improvvisa consapevolezza che un particolare vestito non è solo bello, non si limita a stare a meraviglia, ma al di là di queste caratteristiche risponde profondamente all’idea che una ha di sé stessa». Anche Faye, sedotta da “Anna Karenina” prevedibilmente troverà il suo Vrónskij nella vecchia Europa...


Nonni materni romeni, emigrati in Francia, dove lei faceva la sarta, poi in Australia. Sono loro i “M. e Mme. J.M. Cargher” cui la scrittrice dedica il libro. Mamma nata a Parigi e cresciuta a Sydney, trascinata nella depressione da un matrimonio infelice e morta probabilmente suicida. Papà brillante avvocato, rigido e distante. Madeleine St John lasciò l’Australia per Londra, dove vivacchiò facendo la commessa in librerie e antiquari, fino a morire di enfisema, sola, nel 2006.


Le “signore in nero” della sua tardiva favola amara escono da questo passato di dolore e radici spezzate, determinate a lasciarlo alle spalle. Meglio se con un po’ di stile. 

twitter@boria_a