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domenica 11 luglio 2021

IL LIBRO 

 Madeleine St John e il cuore segreto delle cose

 

 


In tre anni, dalla prima pubblicazione de “Le signore in nero” nel 2019, l’editore Garzanti ci ha fatto scoprire il talento di Madeleine St John, unica scrittrice australiana candidata al Man Booker Prize e proprio con il romanzo, il suo terzo, appena arrivato in libreria, “Il cuore segreto delle cose” (pagg. 206, euro 16, traduzione di Mariagiulia Castagnone, in originale "The Essence of the Thing", anno 1997). Come in “Una donna quasi perfetta”, il secondo titolo di St John, uscito nel 2020, tutto succede nelle prime due pagine: là era la scoperta di un tradimento, qui una rottura.
«Non c’è un bel modo per dirlo, ma ho deciso... sì, insomma, sono arrivato alla conclusione... che dobbiamo lasciarci». In un salotto di Notting Hill a Londra - dove la stessa autrice, morta nel 2006, visse a lungo facendo la commessa in librerie e antiquari - Jonathan, avvocato, pronuncia queste parole con una «maschera di tranquilla sicurezza». La sua compagna Nicola, il cappotto ancora indosso e le mani chiuse sul pacchetto di sigarette appena comprato, sente «che lo stomaco si era fatto di ghiaccio, le caviglie erano diventate acqua».

 


 


Dopo anni di convivenza, l’annuncio della fine arriva senza apparenti segnali premonitori. «Mi dispiace, ma è meglio essere chiari. Questa cosa tra noi non funziona, lo sai bene anche tu», continua lui, snocciolando un elenco di faccende pratiche da sbrigare: se ne andrà il weekend dai genitori (e siamo a giovedì) così lei avrà il tempo di lasciare la casa, lunedì verrà l’agente per una valutazione aggiornata, naturalmente sarà lui a rilevarla. Tre giorni prima hanno fatto l’amore? Irrilevante per Jonathan: «Gli uomini hanno un atteggiamento verso il sesso diverso da quello delle donne, cosa che d’altronde succede in molti altri campi». Non dà spiegazioni, il rapporto è liquidato come una pratica legale, sono le donne che hanno bisogno di frugare nell’anima altrui perchè “devono compensare il loro vuoto interiore”...


Da questo momento le loro vite si separano. Jonathan mente ai genitori sulla rottura, ma si rincuora al pensiero che il peggio è passato e che tra poche ore sarà definitivamente libero da esami continui, intimità, condivisione di sè. “Libero e solo, perchè la solitudine equivaleva alla libertà”: così si convince. Nicola, invece, nell’appendice della convivenza forzata che precede il suo trasferimento, continua a stirare le camicie di lui e a scervellarsi, cercando di rivivere il passato e di trovare il punto il cui tutto ha cominciato a incrinarsi. Saranno stati quei black out inspiegabili di attenzione nei suoi confronti? Il periodo di pausa dalla pillola anticoncezionale, che obbliga a fare i conti con un possibile futuro familiare? Ma mentre combatte per nascondere la disperazione, trova in sè un’energia insperata: detta le condizioni perchè in casa non si incrocino e pretende di sapere la verità. Non c’è un’altra, ha detto Jonathan. E allora? 


Quando riesce finalmente a metterlo all’angolo, dismettendo quel distacco e quella freddezza che ha indossato facendosi violenza per difendere la sua vulnerabilità, il responso di lui non lascia spiragli: “stiamo perdendo tempo”, “non voglio più vivere con te”, “questo rapporto non ha futuro”. E il definitivo: “io non ti amo”.


Madeleine St John e un’artista nel non far succedere più niente, se non nell’anima della sua sconquassata protagonista. Come ne “Le signore in nero” o “Una donna quasi perfetta” (che chi non ha letto avrà il piacere di scoprire avendo a disposizione oggi in italiano tre dei quattro romanzi della St John), sono gli interstizi delle relazioni a interessarla, quei confini labili dove l’abitudine diventa indifferenza, la confidenza nell’altro egoismo, la convivenza sottile prova di forza, l’autocompiacimento abuso del partner.


Jonathan resta lì, nel bell’appartamento di Notting Hill, che improvvisamente ha “smesso di respirare”. Nicola va avanti, attraversando tutte le fasi della fine di una relazione: l’incredulità, il senso di colpa, la devastazione, il sostegno delle amiche, i primi tentativi di reagire affacciandosi a una vita diversa, che non è fatta per lei ma la riporta a galla.


Le donne di St John sono sempre delle sopravvissute, com’è stata lei, colta e irrisolta, in bilico tra mondi diversi. Donne raccontate senza femminismo militante, senza frustrazione o vittimismo, colte nella loro scomposta, disarmata, tenace volontà di darsi altre opportunità e rimettersi in gioco. Le ultime pagine del romanzo sono un piccolo colpo di teatro, che rimette i protagonisti l’una di fronte all’altro, a ruoli già invertiti. Nessuno vince, perché St John preferisce al lieto fine consolatorio fermarsi sulla soglia degli smottamenti dell’animo, al bivio di scelte. Lasciando a Nicola, a tutte le altre, a noi, la responsabilità, forse il privilegio di sbagliare ancora, magari di tornare indietro.

lunedì 27 luglio 2020

IL LIBRO

La moglie, l'amante, l'amica:
quasi perfette
le donne di Madeleine St John



Dopo “Le signore in nero”, le commesse di un grande magazzino che nell’Australia degli anni Cinquanta, cercavano l’indipendenza e la realizzazione in un mondo dominato da ipocriti e rigidi codici maschili, uscito per la prima volta in edizione italiana nel 2019 e diventato per passaparola un piccolo caso editoriale, Garzanti propone il secondo libro di Madeleine St John, “Una donna quasi perfetta”, pubblicato nel 1996 (il titolo originale è “A pure clear light”), tre anni dopo il precedente, nella traduzione di Mariagiulia Castagnone.



È un piacere scoprire o riscoprire la penna affilata e ironica di questa scrittrice, aguzza e mai soffocante femminista e prima australiana candidata al Man Booker Prize, che esordì ultracinquantenne, a Londra, dove si era trasferita lasciandosi alle spalle un’infanzia segnata dal suicidio della madre, depressa e alcolizzata, un padre anafettivo e distante, un matrimonio fallito.

Seguendo il percorso della scrittrice, abbandoniamo l’Australia, ambientazione solo del primo dei suoi quattro romanzi, e ci ritroviamo in una Londra intellettuale e alto borghese, che St John disseziona dal suo osservatorio privilegiato, le librerie e gli antiquari di Notting Hill e Kensington, dove visse - lei fumatrice accanita, elegante e snob, amante delle delicatessen di Harrods - con alterne fortune facendo la commessa, fino alla morte, a 64 anni nel 2006, per enfisema.



Madeleine St John


La storia. Flora, mamma di tre figli, mentre per noia rispolvera la fede religiosa, non si rende conto che il marito ha trovato altrove ciò che tra loro riscalda saltuariamente solo il gin. Simon, sceneggiatore velleitario e partner tiepido ed elusivo, a sua volta riscopre qualcosa fuori dalle mura domestiche, la tempesta del desiderio rotolandosi sui tappeti con Gillian, commercialista della City, indipendente nel lavoro e nel privato. Lydia, l’amica di Flora, che Simon detesta perchè bruttina e poco curata, in realtà ai suoi occhi ha una ben più fastidiosa, duplice colpa: aver inopinatamente risvegliato in lui il desiderio, con l’impulso di baciarla, e averlo sorpreso in un locale con l’amante.


Il romanzo si apre mettendo in scena tutti i protagonisti di questa rarefatta commedia delle parti, quando quel poco che accade nel libro è già tutto accaduto: la coppia clandestina in un ristorante, Gillian che nota l’occhiata insistente di una sconosciuta dall’altro capo della sala, Simon a cui lo specchio rimanda il volto familiare dell’amica della moglie.


È qui il “quasi” del titolo: il quasi di un uomo che sa di non voler scegliere («Flora e i ragazzi erano la bandiera che orgogliosamente sventolava sull’orlo dell’abisso”), il quasi dell’«altra», che vorrebbe di più che “essere scopata fino a istupidirsi”, ma preferisce accampare la sua autonomia che metterlo alle strette, il quasi dell’amica che tace l’adulterio scoperto, suo malgrado attratta dalla doppiezza del “verme”, del “vero porco”. E anche Flora ha un “quasi” che si insinua nella perfezione di organizzatrice familiare, madre presente, imprenditrice: «Come faceva da tanto tempo, tenne per sé la sensazione dolorosa che qualcosa non andava, qualcosa che non era in grado di identificare, a cui non poteva porre rimedio».

Quando Lydia cattura lo sguardo di Simon in quel ristorante tutte tre le donne dovranno scegliere come porsi di fronte all’unico uomo che le lega: Lydia si vendica e pretende la rottura con l’amante in cambio del suo silenzio con l’amica. Ma la parola fine l’ha già pronunciata Gillian: «Proprio non capisci, vero? Che dover raccontare una storia plausibile è brutto, bruttissimo. Sai, mai scusarsi, mai spiegare - una volta che si imbocca quella strada, è tutto finito. Mi dispiace ma è così». E Flora?


Con una scrittura lieve, perfidamente salottiera, Madeleine St John ci introduce negli interni eleganti dei quartieri alti di Londra, ci fa partecipare ai fitti scambi di battute che impastano ipocrisia e borghese decoro, allontanando qualsiasi sospetto, qualsiasi “quasi” possa intaccare l’armonia del quadro familiare, del ruolo sociale conquistato, delle aspettative che un deragliamento portato allo scoperto potrebbe diminuire. St John non demolisce l’istituzione del matrimonio, su cui è scopertamente scettica, piuttosto ne registra con acume gli impercettibili smottamenti, l’inaridirsi dei rivoli, il senso di colpa sufficiente al maschio per assolversi. E si schiera sempre dalla parte delle sue donne, anche quando la ricerca della felicità finisce per essere solo la resilienza che impedisce il disastro coniugale.

domenica 11 agosto 2019

IL LIBRO


Le signore in nero di Madeleine St John 





C’è una bella differenza tra il reparto “Abiti da cocktail” e quello “Modelli esclusivi” nei grandi magazzini Goode’s di Sydney. Lo sanno bene “Le signore in nero” di Madeleine St John, il romanzo con cui la scrittrice australiana debuttò ultracinquantenne nel 1993, e che ora è pubblicato per la prima volta in Italia da Garzanti (pagg. 197, euro 16), con una prefazione di Helena Janeczek. Chi sono le signore in nero? Patty, Fay, la neodiplomata stagista Lesley, che presidiano quel paradiso dei desideri femminili nelle loro uniformi discrete, pronte a soddisfare ogni richiesta delle clienti facendosi precedere dall’immancabile “Scusi se l’ho fatta aspettare”.

Una bella differenza, sì, perchè tra i “Modelli esclusivi”, in una sorta di grotta rosa con divani in broccato color ostrica e armadi di mogano, si muove la “serpentessa” Magda, sensuale, travolgente, l’unica a poter aggiungere un tocco di bianco o di rosa alla divisa, l’unica, con le sue radici slovene, a portare con sè la sapienza del Vecchio Continente e a custodire i modelli più esclusivi del negozio, che da lì arrivano, firmati dai sarti della regina d’Inghilterra, sir Norman Hartnell o sir Hardy Amies, dalla geniale Chanel, dall’«ineguagliabile» Dior. Siamo nel 1950, nell’acerba e ancora “inclusiva” Australia, che scopre il piacere del consumismo e dà rifugio ai profughi del dopoguerra.


I reparti sono una metafora in questo delicato e insieme pungente romanzo, l’unico, di quattro, che St John, prima australiana candidata al Man Booker Prize, abbia ambientato nel suo paese. Metafora di differenze sociali, culturali, di genere, ma anche di aspirazioni femminili all’emancipazione, allo studio, all’indipendenza, a una nuova consapevolezza di sè e del proprio corpo.



Madeleine St John (ph Jerry Bauer)


Patty è una trentenne già sfiorita, che si consuma sognando la maternità e cuocendo bistecche per un marito distratto. L’indipendente Fay, soubrette mancata, è approdata ai magazzini dopo tanti lavori e altrettanti uomini, nessuno disposto ad andare al di là delle lenzuola. La piccola Lesley Miles, o Lisa, come ha scelto di farsi chiamare in un primo, piccolo atto di resilienza, divora romanzi russi in pausa pranzo e si dà coraggio con i versi di Blake (“tigre, tigre, che bruci luminosa nelle foreste della notte”) contro un padre che gioca la paga ai cavalli e le vieta di andare all’Università. 


Su tutte loro, le “signore in nero” australiane, cresciute nel miraggio del principe azzurro e finite a compiacere compagni ottusi e maschilisti, domina la “continentale” Magda, che legge, parla il francese, sa imbandire una tavola “esotica” con vini e formaggi abbinati. Suo marito non può che essere diverso dal laconico Frank o dall’ordinario signor Miles: si chiama Stefan Szombathelyi ed è un ungherese conosciuto nel campo profughi australiano, con cui condivide (oltre, addirittura! a qualche incombenza domestica...) un inglese infarcito di locuzioni antiquate, apprese da Shakespeare e Dickens.


Due mondi, femminile e maschile, due continenti, si guardano con reciproca diffidenza. E a mettere in comunicazione gli “abiti da cocktail” con i “modelli esclusivi” sarà Lisa, lo scricciolo dalla coriacea volontà di studiare che Magda inizierà all’alta moda, alle feste con lo champagne, al “savoir vivre”, a quel «particolare tipo di amore a prima vista che di solito coglie una donna quando è più giovane, ma che prima o poi tutte provano: l’improvvisa consapevolezza che un particolare vestito non è solo bello, non si limita a stare a meraviglia, ma al di là di queste caratteristiche risponde profondamente all’idea che una ha di sé stessa». Anche Faye, sedotta da “Anna Karenina” prevedibilmente troverà il suo Vrónskij nella vecchia Europa...


Nonni materni romeni, emigrati in Francia, dove lei faceva la sarta, poi in Australia. Sono loro i “M. e Mme. J.M. Cargher” cui la scrittrice dedica il libro. Mamma nata a Parigi e cresciuta a Sydney, trascinata nella depressione da un matrimonio infelice e morta probabilmente suicida. Papà brillante avvocato, rigido e distante. Madeleine St John lasciò l’Australia per Londra, dove vivacchiò facendo la commessa in librerie e antiquari, fino a morire di enfisema, sola, nel 2006.


Le “signore in nero” della sua tardiva favola amara escono da questo passato di dolore e radici spezzate, determinate a lasciarlo alle spalle. Meglio se con un po’ di stile. 

twitter@boria_a

mercoledì 10 aprile 2019

L'INTERVISTA

Claudio Magris compie 80 anni: "Una polena mi ha salvato"




 

Claudio Magris compie oggi, 10 aprile 2019, ottant’anni. Un traguardo, per lo scrittore triestino, che va al di là della semplice tappa anagrafica.

Ottanta. Se li sente? «Beh, incidono soprattutto sulle mie camminate. Ma ne prendo atto, la ruota è giusta e continuo a fare quello che posso. Infatti, quando apro il giornale la mattina, la prima cosa che guardo è la temperatura del mare».


Quest’amore sembra alimentarsi ogni anno che passa... «È cominciato prestissimo, mia mamma si tuffava dal trampolino dell’Ausonia ancora in tarda età. Il mare è l’abbandono, la felicità. Non ho stile, non ho mai fatto scuola di nuoto, ma amo lasciarmi andare nelle braccia del mondo. E quello che mi piace di più è il mare disteso, immobile. Curiosamente la letteratura triestina ha potenziato il versante continentale, incappottato, il versante del disagio, mentre il mare per me è l’eros, l’amore, l’armonia, dove si desidera fare esattamente quello che si sta facendo in quel momento e non altro».


Sta pensando a un nuovo libro? «Mi affascinano le polene, queste figura di prua, in genere femminili, messe a prendere per prime le sberle del mare, col seno generoso che fa da scudo, con gli occhi dilatati che sembrano vedere catastrofi inevitabili che gli altri ancora non vedono. Le polene mi hanno aiutato mentre scrivevo “Alla cieca”, ci ho messo degli anni su questo libro. Un giorno, ad Anversa, andai a vedere il Museo navale. E lì, davanti agli occhi spalancati di alcune splendide polene, ho capito cosa mi bloccava. “Alla cieca” è una storia in cui tutto si spacca, si rompe. Io la raccontavo in un modo lineare, ed era lì che sbagliavo, perché anche la narrazione a un certo punto deve buttarsi nel mare della storia, rischiare il naufragio. La Capria diceva che i grandi romanzi del ’900 sono capolavori falliti, perché si assumono il carico dell’impossibilità di raccontare armoniosamente, di far finta di non vedere il disordine, quello che spacca tutto. Sto scrivendo un libro sulle polene, non sarà di invenzione, parlerà dei costruttori di polene, dei cimiteri di polene, delle polene nella letteratura».


I libri che hanno inciso sulla sua formazione? «“I misteri della giungla nera” di Salgari ha influito enormemente su di me. Me lo leggeva a voce alta mia zia Maria, poi quando ho imparato a leggere l’ho finito da solo. L’ho conosciuto come racconto orale, non sapevo nulla del suo autore, né me ne importava, e mi è rimasta sotto sotto quell’idea dell’infanzia che le storie sono per aria, come palle sospese, e chi è più bravo ne afferra una prima degli altri. Letterariamente, gli autori fondanti sono stati Tolstoj, Musil, Kafka e forse più di tutti l’Odissea, un libro molto più contemporaneo dell’Ulisse di Joyce, molto più inquietante. E ancora Dante, tantissimo, e naturalmente Svevo...».


Cosa significa per lei Svevo?
«Aveva ragione Bazlen quando diceva che non era tanto intelligente, ma aveva genio. Forse nemmeno lui se ne rendeva conto, l’aver visto come nessun altro il niente, il nulla, l’assenza di desiderio. Perché Svevo aveva capito che la cosa più terribile non è non essere amati, ma non amare».
Cos’è Trieste oggi?
«Ho vissuto a Trieste fino a diciott’anni poi sono andato a Torino. Avevo letto Dostoevskij e altri grandi autori, ma neanche un triestino, tranne Marin perché era un amico. Ho cominciato a farlo a vent’anni. Dal punto di vista generazionale sono stato fortunato, l’età mi ha preservato dalla guerra, mi sono affacciato al mondo del lavoro agli inizi degli anni ’60, appartengo a quella generazione che per la prima volta vive meglio della successiva. La generazione prima della mia, quella di Giraldi, di Kezich, di Vidusso non ha mai perdonato a Trieste il fatto di essere stata costretta ad andarsene. Io questo sentimento non l’ho mai provato. Torino per me è stata importantissima, nei miei anni di studio era in pieno cambiamento, c’erano l’immigrazione dal Sud, i rifiuti identitari, la mafia, l’Università era il centro della vita sociale e culturale. La popolazione cresceva, mentre allora Trieste declinava. A Torino ho cominciato a leggere Saba e Svevo e mi sono innamorato di Trieste. Oggi la vedo decisamente più vivace, meno fissata su se stessa, meno ripiegata. In passato c’era un’aria più mesta».


Un rimpianto, uno solo. «Non aver potuto né saputo fare il regista cinematografico. Il primo racconto, “Illazioni su una sciabola”, l’avevo pensato come soggetto di un film. Raccontare il gesto, il volto, con la macchina da presa è fantastico, ma non ho quel tipo di sintassi».


I viaggi. Partire è un po’ morire? «Si viaggia per ritornare, come insegna l’Odissea, come faccio con Trieste. Per viaggio intendo il fascino di valicare un limite, una frontiera, ma non necessariamente statale, linguistica o politica, anche culturale e sociale. Intendo il viaggio come idea di incontrare le diversità. Il viaggio che è anche capacità di erigere confini, perché è facile dire che bisogna superare le frontiere di culture diverse, ma se una cultura è portatrice di violenza e sopraffazione, bisogna alzare una barriera. Per me il simbolo del viaggio rimane il confine. Quando andavo da ragazzino a giocare sul Carso esisteva una barriera che non era un confine qualunque, ma la cortina di ferro, invalicabile. E dall’altra parte terre che erano state italiane, un mondo che conoscevo benissimo. L’idea che il noto è anche ignoto è stata fondamentale per me, perché mi ha fatto capire che ogni viaggio può essere andare da una stanza all’altra della propria casa».


L’esperienza politica? «Ha coinciso con il periodo più brutto della mia vita, quando mia moglie Marisa era malata. L’ho sentita come un dovere, non potevo dire di no alla candidatura voluta da cinque partiti diversi, che si erano alleati al tempo dell’ascesa di Berlusconi. Non ho un brutto ricordo degli avversari, non si sono mai approfittati della mia debolezza, diciamo che sono debitore di un colpo in canna. Ma la rappresentanza mi era ostica. Solo una volta ho perso le staffe, quando insultarono Margherita Hack al Tergesteo: mi scaldai, dissi che andava abolito il suffragio universale».


Si faccia un augurio. «Gli anni della malattia di Marisa sono stati una traversata, un viaggio negli inferi, ma mi hanno svuotato dalle pulsioni di morte. Dopo sono stato più capace di vivere e questo processo va avanti. Sono stato fortunato i miei figli Francesco e Paolo sono realizzati, la vita di chi mi circonda è molto più importante della mia, quindi farei da parafulmine volentieri se servisse. Vorrei continuare a fare il bagno a Barcola, farmi offrire una birra se ho dimenticato il portafoglio, andare in giro col mio cane Jackson, a cui devo la celebrità».


Si confida con lui?«Gli confido molte cose legate al momento, soprattutto se qualcosa va male». 


@boria_a

sabato 6 maggio 2017

IL LIBRO

Elegia Americana, con J. D. Vance

dentro l'America dei perdenti

 

J.D. Vance



J. D. Vance è un americano bianco, ma non è wasp, white anglosaxon protestan, discendente degli originari coloni, facoltoso e classista. Non è neanche un democratico newyorkese con molti soldi e una famiglia creativa e patologica da raccontare al suo psichiatra. Viene da Jackson, nel Kentucky, dove i discendenti degli immigrati irlandesi o scozzesi sono chiamati con disprezzo “hillbilly”, gente di collina, o “redneck”, colli arrossati dal sole o, ancora, white trash, spazzatura bianca. Comunità di contadini, poveri e ignoranti, che negli anni ’50, per sfuggire all’endemica avarizia di questa terra, e degli Appalachi e del West Virginia, emigrarono in massa verso gli stati industrializzati dell’Ohio, del Michigan, dell’Indiana, lungo la “rust belt”, la cintura del carbone e dell’industria pesante, inseguendo quel sogno americano che resterà un miraggio. Quando le industrie cominciarono a licenziare, le famiglie, prive di reti sociali, vennero devastate da alcol, droga, violenze, indolenza. L’«yes, we can» di Obama qui non ha mai avuto alcun senso, anzi, ha un suono sinistro. Qui Trump ha vinto, con il suo linguaggio duro, diretto, misogino e “politically incorrect”, contro l’avversaria Hillary, la signora dell’upper class che parla una lingua incomprensibile in periferie senza sogni nè ambizioni, che non hanno mai preso l’«ascensore sociale».

J. D. Vance è oggi un avvocato laureato in una delle facoltà di legge più prestigiose del mondo, la Yale Law School. Ma la sua storia è cominciata lì, a Jackson, la città dei suoi nonni, tra la gente che vive nelle roulotte ammassate nei parcheggi o nei casermoni popolari, ed è proseguita a Middletown, cittadina industriale dell’Ohio, dove la famiglia si ritrova prigioniera dello stesso scenario desertificato che ha lasciato alle spalle.


Quando, nel 2016, è uscito negli Stati Uniti “Hillbilly elegy”, autobiografia diretta e urticante ma anche saggio spietato sul proletariato bianco americano, l’editore HarperCollins non avrebbe mai immaginato un successo simile: un milione di copie vendute, i vertici delle classifiche per settimane, J.D. Vance promosso commentatore e politologo, inseguito dai media. Il libro è ora pubblicato in Italia da Garzanti col titolo di “Elegia americana” (pagg. 254, euro 18,00), un viaggio dolente e violento dentro l’America profonda, lontana dalle metropoli e dall’immagine stereotipata che spesso ne hanno i turisti, piena di “I love” col cuoricino rosso, di loft e miliardari siliconati. L’America che molti hanno scoperto il giorno dopo la vittoria di Trump: disorientata, impoverita, incattivita, xenofoba, pronta a credere al candidato più lontano da sè, ma che sa prenderla per la pancia. L’uomo che dice “America first” come se lo dicesse proprio a te, per tirarti fuori dall’angolo. 


J. D. Vance ha avuto una mamma drogata, che cambia compagno prima ancora che i figli si orientino nella nuova casa. Un nonno alcolizzato e una nonna che combatte a modo suo con assenze, aborti, infedeltà, alzando le mani e qualche volta un’arma. È cresciuto in un contesto degradato, dove il lavoro e l’istruzione non sono valori e i sussidi statali un alibi per continuare a non far nulla, maledicendo Obama che ha chiuso le miniere e i cinesi che hanno rubato i posti degli americani. Ma la famiglia, con tutti i suoi limiti, gli dà un messaggio positivo: sua madre, bugiarda seriale, lo porta in biblioteca, la nonna lo spinge a migliorarsi. «Se vuoi un lavoro che ti permetta di passare i weekend con la tua famiglia, devi diventare qualcuno». Era l’essenza del suo genio, dice Vance, non solo imprecare e pretendere, ma farti intravedere ciò che era possibile e spiegarti come ottenerlo.


Dopo l’esperienza nei Marines, la vita dell’autore cambia. A casa aveva imparato a rassegnarsi, nell’esecito gli instillano la “determinazione appresa”. Smette di credere che c’è un qualche difetto genetico o caratteriale se i ragazzi di Middletown non arrivano all’Ivy League. Al primo tentativo rinuncia all’Università perchè non sa chiedere il finanziamento, dopo l’esercito si laurea. «Quando ha scoperto che volevo andare alla facoltà di Yale - racconta - mio padre mi ha chiesto se, nel modulo informativo, avevo “finto di essere nero o di sinistra”. È così che sono crollate le aspettative dei proletari bianchi americani».


Se la ricetta alla fine ci sembra paternalistica - impegno, dedizione, stabilità familiare, responsabilità, ottimismo - e la parte migliore del libro è la storia di una strordinaria redenzione sociale, l’autore offre più di un tema su cui riflettere, nell’Europa impoverita che si affida al pupulismo: «La retorica dei neoconservatori (e lo dico da neoconservatore!) - scrive Vance - volta le spalle ai veri problemi della base elettorale di riferimento. A separare le persone di successo dalle persone di insuccesso sono le aspettative che si sono date per la propria vita. Eppure il messaggio della destra va sempre più in questa direzione: “Se sei un perdente, non è colpa tua; è colpa del governo».
@boria_a

mercoledì 20 aprile 2016

 IL LIBRO

Le antenate delle escort, portavano le mutande e mostravano i piedi


"Con Stile" (Garzanti) di Alessandro Marzo Magno

Boxer di sinistra e mutande di destra? Periodicamente questa disputa ideologica sull’intimo maschile compare nelle riviste di moda, attizzando il dibattito, di solito nei già roventi mesi estivi, sulle preferenze in fatto di biancheria di politici e personaggi pubblici. Ma il binomio tra lingerie e schieramenti non è un’invenzione dei giorni nostri. Nell’Ottocento la disputa si giocava sulle mutande femminili, a fronti capovolti. I progressisti le apprezzavano e i conservatori le respingevano. I precursori del socialismo, come il conte Henri de Saint-Simon, le consideravano un aiuto all’emancipazione femminile, mentre le suore orsoline vietavano alle ragazze di inserirle nei corredi da portare in collegio, giudicandole peccaminose.

Pochi altri capi hanno suscitato lungo i secoli così viscerali condanne o entusiasmi, rifiuti o adesioni. Nel medioevo non le portava nessuno, nè uomini nè donne, con conseguenze rischiose per promiscuità e igiene. Non solo. L’assenza di biancheria intima costrinse nel Cinquecento a commutare in altre forme di estremo supplizio la condanna a morte per impiccagione comminata alle donne, per evitare che i passanti sbirciassero sotto le gonne dei cadaveri appesi, oppure a infilare le malcapitate in pantaloni o in sottane cucite sul fondo prima di farle penzolare. Vale lo stesso per gli uomini, cui il cappio al collo produce conseguenze ancora più fastidiose, almeno da morti, come eiaculazione o erezione prolungata, tant’è che i criminali non venivano mai impiccati con i genitali nudi. Lo testimonia un particolare dell’affresco “San Giorgio e la principessa”, nella chiesa di Sant’Anastasia a Verona, dove i due uomini appesi alla forca sono provvisti dal Pisanello di adeguate mutande.


Lo scrittore e giornalista Alessandro Marzo Magno

Delle oscillazioni di storia, politica e costume in fatto di lingerie dà conto Alessandro Marzo Magno, scrittore e giornalista, in uno dei capitoli più gustosi del suo nuovo “Con stile” (Garzanti, pagg. 195, euro 18,00), una sorta di ricognizione tra gli abiti, gli accessori e le pratiche estetiche che hanno interessato nei secoli le diverse parti del corpo, dalla testa ai piedi.

Il libro verrà presentato dall’autore giovedì 21 aprile 2016, proprio nel giorno dell’uscita, alle 18 alla libreria Lovat di viale XX Settembre a Trieste e, il 29 aprile, alla profumeria Belle et Beau di via XXX ottobre 6/b a Trieste.

Arrivando dalle parti del bacino, non si poteva che registrare le vicissitudini delle mutande, adottate nel Cinquecento dalle signore di alto lignaggio per evitare gli inconvenienti delle cadute di cavallo, ma poi abbandonate. Piacevano di più alle signore francesi. Maria Stuarda, cresciuta alla corte parigina al tempo di Caterina de’ Medici, pose la testa sul ceppo indossandone un paio di fustagno bianco, alla moda d’oltralpe.

Le cortigiane, al contrario, ne andavano pazze, come attestano gli inventari compilati alla loro morte, dove le “braghesse”, così le chiamavano a Venezia e Ferrara, erano tessute con fili d’oro e d’argento, o di colori accesi come quelle “di raso paonazzo ricamado d’oro” che furono catalogate tra i beni di Paulina Povesin Vignon (1606), escort di classe.
Per quanto lunghe e orlate di merletti, secondo il figurino pubblicato nel Journal de Mode nel 1807, le mutande non convincevano le signore, che le ritenevano capo per ballerine e prostitute, mentre nella pudibonda Inghilterra vittoriana venivano addirittura definite “le innominabili”.


Sarà l’Ottocento, con le crinoline di ferro che allargano e sollevano le gonne ad ogni passo, scoprendo le gambe fino al ginocchio, a sdoganare i mutandoni anche nei collegi come “custodi di virtù”. Dalla fine del secolo in poi nessuna signora ne può più fare a meno e i modelli sono sempre più raffinati e preziosi. «Mi piacerebbe - scrive da Trieste James Joyce alla moglie Nora - che portassi mutande con vari strati di pizzi sovrapposti che risalgono dalle ginocchia in su per le cosce, e con nastri grandi rossi: non le mutande da collegiale con un bordo sottile di tristi merletti, aderenti alle gambe e così fini che la carne traspare, ma mutande da donna (o se preferisci la parola) da signora, con un fondo largo e abbondante, e le gambe ampie, tutte pizzi e nastri e merletti, e cariche di profumo».

Se le mutande femminili vivono alterne fortune, i peli superflui, dall’età romana a oggi, sono una costante da eliminare. Addirittura il trattato di cosmesi “L’armonia delle donne” di Trotula de Ruggiero, colta nobildonna salernitana vissuta nell’XI secolo, si apre con preparazioni depilatorie, a testimonianza dell’attenzione data al problema. Che, peraltro, veniva affrontato in maniera piuttosto radicale, con una pomata a base di calce viva, corredata, in caso di uso azzardato, da un apposito unguento antiustioni. Delle pratiche depilatorie esiste un curioso e poco conosciuto bassorilievo del XII secolo, conservato, in posizione defilata, al Museo Sforzesco di Milano, raffigurante una donna che con una mano si tiene sollevata la gonna e con l’altra si taglia i peli pubici utilizzando una grossa forbice.


Il bassorilievo si trovava murato nell’arco della Porta Tosa, uno dei dieci varchi nelle mura milanesi, e proprio dalla raffigurazione della ragazza (tosa, in dialetto) intenta a depilarsi, avrebbe tratto il suo nome. Una leggenda vuole che si tratti della moglie di Barbarossa e che il suo fosse un gesto di scherno rivolto ai milanesi, sconfitti dal marito nel 1162. Un’altra storia, di segno opposto, racconta che una popolana, radendosi il pube, abbia distratto i soldati dell’imperatore e favorito una sortita contro di lui. Tutto suggestivo ma falso, perchè, se la depilazione è pratica antica, delle origini del bassorilievo non si sa nulla.



Ciopine veneziane, antenate dei plateau






Gli "Armadillo" di Alexander McQueen, pericolosi come i calcagnetti
Dai cappelli ai tacchi, passando per petto, tronco, braccia, bacino e gambe, intrecciando storia e aneddoti, luoghi e personaggi Marzo Magno ci guida in un viaggio leggero ma accurato su come l’Italia ha vestito e svestito il mondo, ma anche sulle origini delle trasformazioni e decorazioni del corpo. Sulla tintura dei capelli, per esempio, ci vengono in soccorso sia la solita Trotula, con un lavaggio a base di mallo e corteccia di noce, allume e polvere di ghiande di quercia, sia, cinque secoli dopo, l’udinese Eustachio Celebrino che, nel 1526, pubblica “Venusta”, considerato il primo trattato di cosmetica a stampa di epoca moderna, in cui descrive una “acqua de bionda per capelli perfettissima” e molti altri rimedi - che ci dimostrano come la ricerca della bellezza segua sempre gli stessi percorsi - per eliminare le rughe, sbiancare i denti, togliere le macchie del viso e lenire le ustioni solari, nonchè una ricetta “ad restringendum vulva” dedicata alle cortigiane che avevano bisogno di tonificare la parte del corpo che dava loro da vivere.

In fatto di mastoplastica, poi, la chirurgia moderna ha certo perso in poesia rispetto ai seni artificiali in pelle di camoscio, raso imbottito e caucciù in vetrina all’Esposizione universale di Anversa del 1885, dove venne presentato l’antesignano delle protesi, il “Mammif”, una coppia di mammelle posticce adattabili al corsetto e gonfiabili a volontà.

Per le scarpe funziona all’opposto rispetto alle mutande: le donne caste coprono il piede, le prostitute lo scoprono, perchè mostrare le estremità è simbolo di libertà sessuale. Quanto ai plateau dell’epoca, i "calcagnetti" (che arrivano a 60 e 50 centimetri, come gli esemplari custoditi al museo Correr di Venezia e al museo Bardini a Firenze , probabilmente mai utilizzati), non servono a camminare nell’acqua alta, ma a ostentare ricchezza (pensate alla stoffa aggiuntiva per far toccare terra ai vestiti), privilegio (non si poteva certo far nulla a quell’altezza) e la disponibilità di servitori, indispensabili per appoggiarsi sulle loro spalle ed evitare di franare a terra. Per la monaca benedettina scrittrice Arcangela Tarabotti, vissuta a Venezia nella prima metà del secolo XVII, l’altezza delle calzature simboleggia la superiorità spirituale femminile. Agli uomini, però, interessa piuttosto l’utilizzo dei calcagnetti come strumento di controllo sulle femmine di casa, tant’è che quando la moda comincia a declinare, un anziano senatore veneziano, nel 1655, chiede di far alzare per legge la misura delle “zeppe”, in modo che mogli e figlie non potessero circolare liberamente. «Tutte le feste - si rammaricava - avebbero voluto per sè, trascurata la casa, et il mal governo avrebbe posto in scompiglio la famiglia».
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venerdì 3 aprile 2015

IL LIBRO

Tiramisù e cotolette: è guerra in tavola




Su un punto tutti sono d’accordo, storici, storici della tavola, gourmand e semplici appassionati: il destino del “tiramisù” è scritto nel nome. Poco importa che si trattasse di fare recuperare le forze a una giovane puerpera, quella Alba Campeol che, nell’inverno 1969-70, appena diventata mamma di Carlo, era la datrice di lavoro dell’inventore del fortunato dessert, Roberto “Loly” Linguanotto, all’epoca ventiseienne e all’opera dietro i fornelli “Alle Beccherie” di Treviso.


Oppure, come invece sosteneva lo scrittore Giovanni Comisso, assiduo frequentatore del “Toulà” di Treviso, dove il “tiramisù” si serviva quotidianamente fuorchè d’estate, che quel dolce nato nella tradizione degli “sbatudìn” di uova fosse un corroborante per le ragazze delle “case chiuse”.
 
Quel che appassiona lo scrittore e giornalista Alessandro Marzo Magno è l’investigazione sulle origini dei piatti, al punto da aggiungere due capitoli importanti al suo “Il genio del gusto” (Collezione storica Garzanti, pagg. 412, euro 22,00), che torna in libreria ampliato da altrettanti thriller gastronomici: dov’è nato il “tiramisù”? E chi ha il copyright sulla “cotoletta”? Ovvero, è la dorata fetta di carne un prodotto italianissimo o è figlia dell’austriaca Wienerschnitzel?

 
La querelle sul tiramisù - lemma che, singolarmente, entra nell’Oxford English Dictionary, dov’è registrato nel 1982, un anno prima che nel Vocabolario della lingua italiana Zanichelli - incrocia anche il Friuli Venezia Giulia, come se non bastassero a contendersene la paternità le “Beccherie” e un altro trevigiano, l’albergo “Al Fogher”, distante circa due chilometri e orgoglioso ideatore della quasi identica “coppa imperiale”. In tempi recenti sono stati gli eredi del celebre “Roma” di Tolmezzo a rivolgersi a un avvocato per rivendicare l’invenzione del dolce italiano più famoso al mondo, subito rintuzzati da un’analoga pretesa arrivata da Mario Cosolo del “Vetturino” di Pieris, nel goriziano, e poi dal romano bar Pompi, che dice di aver creato il dolce nel 1960, quando era una semplice latteria, prima di cavalcare il business e fondare una piccola holding delle variazioni del tiramisù. A complicare la faccenda ci si è messo addirittura il New York Times con un articolo del 6 marzo 1958 dal titolo illuminante “What’s Tiramisu? Well, it depends...”, dove vengono registrate oltre duecento varianti, mentre sulla provenienza l’autorevole quotidiano spazia con ipotesi ad ampio raggio, dal Piemonte alla Campania, passando per Veneto, Lombardia, Toscana. E riporta anche il parere di Anna Mosca, manager del meneghinissimo Sant Ambroeus di Madison Avenue a Manhattan, che epura dalla ricetta il più lombardo dei formaggi: “nel tiramisù dell’Italia settentrionale non c’è mascarpone...”.

 
Sono però proprio i corregionali i più accaniti oppositori dei veneti nella battaglia del tiramisù. E in qualche modo c’entra anche Trieste, perchè Cosolo, a sentire la figlia Flavia, desunse il nome della sua coppa semifredda dal commento di un avventore triestino che, a dolce finito, se ne uscì con un soddisfatto “Ah, mi ha proprio tirato su”. Ennio Furlan, però, che al “Vetturino” fu cuoco per anni, sostiene che il dolce nativo di Pieris era a base di panna montata, panna al caffè e panna normale, mentre il mascarpone sarebbe arrivato negli anni Ottanta. Inoltre, a suo dire, Cosolo e Beppino Del Fabbro, titolare del “Roma”, erano amici (masterchef e precursori di Bastianich già all’epoca, entrambi dotati di auto, vera rarità del povero Friuli anni Sessanta...) e quando il goriziano saliva a mangiare in Carnia e gustava la versione locale del tiramisù, questa con mascarpone, scherzava col collega: «Ma come! L’ho inventato io e tu gli dai lo stesso nome?». La lontananza e la diversità di clientela, però, come saggiamente conveniva Beppino, permettevano una più che pacifica convivenza dei tiramisù friulani.

 
Gli eredi dei titolari del “Roma” la pensano diversamente. Questione di ingredienti, quanto basta per scatenare la battaglia legale. L’invenzione del dolce autentico - dichiarano, vantando documenti per ora “secretati” - è della moglie di Beppino, Norma Pielli, che negli anni ’50, lo confezionò modificando il dolce morbido di Pellegrino Artusi, con la sostituzione del mascarpone al burro. E il marito, fatalmente, avrebbe esclamato: «Questo è un dolce che tira su. Chiamiamolo tiramisù».

 
L’ultima parola sui natali la diranno i giudici, ma nell’offensiva mediatica dei giornali friulani, si è intanto infilata pure la politica. Quando il presidente del Veneto, Luca Zaia, decide di avviare la procedura per riconoscere al tiramisù il blasone di Specialità regionale garantita, rispuntano i ricordi di una novantatreenne Norma Pielli e la querelle tra friulani e veneti rimbalza addirittura su “Guardian” e “Daily Telegraph”.

 
Purtroppo, però, il dolce di Loly Linguanotto non è bastato a risollevare economicamente Carlo Campeol come aveva fatto con il fisico di sua mamma Alba. Dopo 75 anni, alla terza generazione di ristoratori, “Alle Beccherie” ha chiuso, proprio come il tolmezzino “Roma”. Nonostante il tiramisù, la serranda è stata tirata giù.



Alessandro Marzo Magno


Vicenda ancora più intricata e complessa quella della primogenitura della cotoletta tra Italia e Austria, dove entra in campo un esercito di variabili, tra osso, non osso, impanatura, infarinatura, frittura, larghezza e altezza. All’origine del presunto primato lombardo, ci dice Marzo Magno, c’è una bufala: in un documento del conte Attems, aiutante di campo di Francesco Giuseppe, si cita un rapporto del maresciallo Radetzky in cui, tra cosucce di maggior peso, viene esaltata la sublime ricetta dei milanesi della costoletta intinta nell’uovo, impanata e fritta nel burro... Nella lunghissima storia, a far da ponte tra Austria e Italia, entra anche il ricettario di Ottilia Visconti Aparnik, maestra di cucina al civico liceo femminile di Trieste.

Purtroppo, però, in nessuna biografia della monarchia asburgica c’è traccia del fantomatico conte Attems, nè tantomeno pare che Radetzky abbia messo il naso tra le padelle. Ma le bugie, si sa, sono più affascinanti della realtà, e le guide austriache continuano a ripetere che Vienna, capitale di un grande impero, importò i pezzi forti delle gastronomie suddite: le palacinke dai Balcani, il gulash dall’Ungheria e la dorata cotoletta da Milano...
@boria_a




martedì 15 aprile 2014

IL LIBRO
Alessandro Marzo Magno: dal "cappuccetto" al prosecco, il genio italico del gusto
Il libro di Alessandro Marzo Magno (Garzanti)

Cos'è il "macchiatone"? Persino a Trieste, dove il caffè al bar si ordina almeno in una settantina di modi diversi, il superlativo in tazza è sconosciuto. L'ha inventato una dipendente Enel di Cannaregio, a Venezia, Silvia Bonotto, che tra gli anni '80 e '90 lancia tra i colleghi la moda del "cappuccetto", bevanda con meno latte di un cappuccino e più latte di un macchiato. Tra superlativo e vezzeggiativo la lotta è dura, mentre la popolarità del nuovo "formato" viaggia da laguna a terraferma, quando l'Enel sposta la sede a Mestre e i suoi dipendenti sciamano in altri locali, esportandone l'uso. La definizione ortodossa è "cappuccetto", come racconta Adelaide, figlia della detentrice del copyright, Silvia: «Macchiatone pare una cosa riuscita male, mentre cappuccetto comunica tutta la dolcezza e l'accuratezza nel versare quel pochino in più di latte...». Fatto sta che a Venezia e a Mestre si può ordinare senza suscitare sorprese dietro al bancone, con grande sollievo di un giornalista inglese, Lee Marshall, che nel suo blog sull'«Internazionale», nel 2012, confessa il suo sconforto per l'esiguità dei bar (uno umbro, uno romano) in cui trovare la giusta via di mezzo, che lui chiama "cappuccino corretto".
E il carpaccio? Nome, anch'esso, dall'origine singolare per un «infante» della gastronomia, con solo mezzo secolo di vita, contro fossili come la pizza, citata da Virgilio, o la pasta, nota agli arabi già nella prima metà del X secolo.
L'ha inventato, nel 1963, Giuseppe Cipriani, fondatore dell'Harry's Bar di Venezia, espressamente per la contessa Amalia Nani Mocenigo, malata di fegato: carne cruda freschissima, tagliata in fettine sottili come fosse un prosciutto, "irrobustita" da un tantinello di salsa a base di un mix di maionese e Worcester. «Col carpaccio - dice Cipriani - gli imbrogli sono proibiti. Il suo segreto è nell'essere interamente svelato, nudo come mamma l'ha fatto». Sì, ma il nome? Cipriani padre e il figlio Arrigo, dovendo inserire l'anonimo nel menù, escono in calle Vallaresso, dove si affaccia il loro locale, e si illuminano: affisso al muro di fronte c'è un manifesto che reclamizza la mostra di Vittore Carpaccio a Palazzo Ducale. Il maestro veneziano amava le tonalità scarlatte, e il suo cognome transiterà al celebre piatto di carne sfilettata, rendendo il carpaccio più famoso del Carpaccio.
D'altro canto, restando in tema, ai Cipriani il connubio tra pittura e tavola ha già portato bene. Pensiamo al "bellini", aperitivo nato nel 1949, quando Palazzo Ducale rende omaggio all'omonimo artista Giovanni, morto nel 1516. Pesche a pasta bianca di Sant'Erasmo, isola della laguna veneta detta l'«orto di Venezia» per la qualità dei suoi prodotti, schiacciate nel passapatate e mai frullate, prosecco ghiacciato di Conegliano: «Vidi che piaceva molto a tutti i clienti - racconta Giuseppe - e siccome era l'anno della mostra antologica del Giambellino, lo chiamai bellini. È diventato un classico».

Il bellini prende il nome dal Giambellino

In un momento felice per l'editoria intorno alle cose di cucina, arriva in libreria "Il genio del gusto" del giornalista Alessandro Marzo Magno (Garzanti), che attraversa mille anni di storia dei prodotti e dei piatti della nostra tavola per raccontare la costruzione, intorno al cibo, della cultura e identità collettiva. Dal 997, l'anno della pizza, al 1979, quando vede i natali lo spritz, si dipana un processo ricco di apporti, di contributi, di "contaminazioni" - come direbbero le star di Masterchef - a dimostrazione che la cucina italiana è andata alla conquista del mondo sapendo accogliere lavorazioni e ingredienti da altri paesi, facendoli propri e reinventandoli in modo originale, quasi a renderli - per restare tra i fornelli - non più "tracciabili".


Lo scrittore Alessandro Marzo Magno, storico gourmand

Prendiamo la pizza, autentico condensato di orgoglio identitario nazionale. Che, scopriamo, insieme al pane è uno dei cibi più antichi della storia, di cui vi è traccia nell'Eneide di Virgilio, almeno nella forma di piatta focaccia di farro, su cui viene sistemata la frutta (ma i troiani, in preda a una fame epica, finiscono per avventarsi e sbafare anche questa antenata povera dell'odierna "pizza bianca", nata in forma di stoviglia...). Anche l'etimologia ci riporta in Grecia, alla "pita", pane di grano che si consuma in tutto il bacino del Mediterraneo un tempo parte dell'impero bizantino, non troppo dissimile dal pane indiano "naan".
E la pasta? Stando al più completo trattato geografico dell'antichità, il "Libro di Ruggero", compilato nel 1154 dall'arabo Al-Idrisi alla corte del re di Sicilia Ruggero II, gli spaghetti vengono prodotti in gran quantità a Trabia, una cittadina sul Tirreno a una trentina di chilometri da Palermo, dove si sviluppa un fiorente export di vermicelli verso mercati cristiani e musulmani, settecento anni prima della rivoluzione industriale. Sono spaghetti ancora molto sottili, come conferma il termine arabo utilizzato da Al-Idrisi, "itryya", di cui rimane traccia nella "tria" con cui ancora oggi, in Sicilia, si definiscono i capelli d'angelo.
Per l'identificazione tra pasta e italiani, bisogna però aspettare la prima guerra mondiale, quando gli austroungarici li adottano per prendere in giro i nemici. Lo storico e collezionista triestino Roberto Todero ha rinvenuto in val Travenanzes, vicino a Cortina d'Ampezzo, i resti di una tabella in legno che indica le posizioni italiane come Maccaroni, e vicino al rifugio Corsi, nel Tarvisiano, un cartello con scritto Spaghetti Stellung, "posizione spaghetti".
1652, anno cruciale del prosecco, vino di baruffe per eccellenza. La sua prima citazione è nel poema eroicomico "L'asino", di Carlo de' Dottori, in cui si narra di una guerra tra Padova e Vicenza a colpi di cibo e vino. A un certo punto sul campo di battaglia irrompono i friulani, cui «'l bottigliere è lor sempre vicino/ con vino di Prosecco e cacio asìno...»: così, almeno, verseggia il letterato, con una confusione profetica tra le diverse comunità regionali.


Prosecco: doc allargata a dismisura
Il prosecco si fa a Valdobbiadene, la località di Prosecco (quella "furlanizzata" dal De' Dottori...) è sul Carso triestino: in mezzo ci sono 165 chilometri e la storia, molto attuale, di una "doc" allargata a dismisura da un ministro italiano, una doc ipertrofica che ingloba nove province tra Veneto e Friuli Venezia Giulia per rispondere allo scippo del tocai da parte dell'Ungheria e blindare le bollicine autoctone da ogni rivendicazione della Croazia, terra di "prosek", e fresca entrata nell'Ue. 
Marzo Magno ricostruisce con minuzia tutti i passaggi di questa disfida del vino, a colpi di glera e barbatelle, che si chiude con l'istituzione, nel 2013, del "poliziotto del prosecco". Uno 007 delle bollicine autentiche, che sanziona fino a centomila euro i "tarocchi". Di genio e di gusto.
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