lunedì 27 dicembre 2021

MODA & MODI

 Trent'anni dopo, ma con le stesse parole



 

 

Una nuova austerity”. Si intitolava così, nel novembre 1991, la prima rubrica di moda del Piccolo. Trattandosi di abiti e accessori, un’autentica antenata di quella che state leggendo. Annunciava una svolta nel vestire per l’anno successivo: il 1992 sarebbe stato all’insegna della sobrietà, con gonne lunghe, pantaloni ampi e severi, giacconi di maglia. Fotografava la fine della sbornia dell’usa e getta, all’insegna del bisogno di «qualità, confortevolezza, economicità, riciclabilità». Cortocircuito temporale: queste parole non le abbiamo già sentite, non le ho scritte anche di recente?


Tempo di bilanci, dunque. Oltre ai 140 anni del Piccolo, personalmente festeggio un altro compleanno: il trentennale di questo spazio. Tre decenni a guardare e cercare di interpretare la moda e i suoi cambiamenti da un angolo di osservazione del tutto particolare, quello di una città che ha dato i natali o ha adottato celebri designer (Renato Balestra e Raffaella Curiel, Ottavio Missoni e Mila Schön), ma dove di moda non si è mai prodotto niente (a parte lo stabilimento degli abiti senza pinces che all’inizio degli anni ’70 Roberta di Camerino varò nel magazzino Sessanta del Porto nuovo per sfruttare le agevolazioni doganali). Una città dove novità e tendenze arrivano in ritardo, pressochè ignorate, e che implacabilmente tende a vestirsi sempre nello stesso modo, pratico e impersonale, anche quando griffato. Insomma, è stata una sfida quantomeno stimolante.


Forse non è un caso che questo anniversario cada in un 2021 anch’esso spiazzante e singolare, al termine di due anni contrassegnati da chiusure, riaperture, confinamenti, progressive liberazioni e per l’abbigliamento da una profonda rivoluzione. Ci sono le opportunità da cogliere nel mondo virtuale e c’è il dovere di contribuire a salvare il mondo reale dall’inquinamento: in entrambe le dimensioni la moda conta e può dare molto. Ogni bilancio sembra oggi più impegnativo, perchè la pandemia ha annientato certezze e accelerato trasformazioni, paradossalmente rallentando processi che sembravano destinati a durare per sempre, come la bulimia delle collezioni.


Cosa ci resta allora di questo 2021? Certamente alcune parole chiave. A cominciare dalla consapevolezza. Che significa trovare la propria misura nella sostenibilità: senza mortificazioni (che resistono poco), basta circoscrivere gli acquisti seriali, poco durevoli, destinati a una rapida rottamazione. Resta la circolarità. Senza improvvisarsi esploratrici di mercatini, pratica che richiede tempo e allenamento, è più facile cominciare a guardare in casa propria, disseppellendo dall’armadio giacenze dimenticate. E poi la libertà. A partire da un modo di vestire confortevole senza essere sciatto, che dal perimetro domestico del lockdown si è trasferito sulle strade, nei luoghi di lavoro, negli spazi recuperati di socialità: un vestire che con linee e materiali rispetta la mobilità, la praticità, il benessere, eliminando rigidezze e costrizioni, uniformi e dress code ormai diventati insopportabili. Infine, ritroviamo il tatto, un senso di cui a lungo siamo stati privati e che ci accompagna a riscoprire morbidezza, lavorazione, struttura di ciascun capo, ad apprezzarne artigianalità e durata.


Non la chiameremmo più “austerity”, questa parola sì è andata fuori moda. Le altre, trent’anni fa erano già tutte lì. C’è voluto un lungo percorso e un virus molto veloce per restituircele.

venerdì 17 dicembre 2021

IL LIBRO

 Natalia Ginzburg

e la poesia di Biagio Marin

Un amore lungo una vita

 

 

 


 

Una giovane Natalia Ginzburg, studentessa al liceo Alfieri di Torino, scoprì un giorno nelle sale di lettura della biblioteca “Pro cultura femminile”, un saggio critico su un poeta che scriveva in dialetto gradese. “Cò vampa la tò cavelada/ e un bel rie la boca te imbianca/ l’anima mia se spalanca/ co’ l’ali de la tò riada”. 

Natalia, che da adolescente scriveva furiosamente poesie, non si riconosceva nel piemontese, ne sapeva poche parole e lo sentiva estraneo, perchè in famiglia si parlava un lessico diverso, fatto di altri dialetti mescolati all’italiano. Quei versi di Biagio Marin, invece, la conquistarono subito. Li imparò a memoria, li ripeteva per la strada e girò tutti i librai di Torino alla ricerca delle raccolte che il saggio - anni dopo scoprirà firmato da Silvio Benco - menzionava: “Fiuri de tapo” e “Cansone picole”. 

Le raccolte erano introvabili a Torino e Natalia, senza pensare di scrivere all’editore o all’autore, visse questa ricerca vana come una privazione. «Mi sembrò tristissimo di non essere nata a Grado e di non poter scrivere in dialetto gradese. Mi parve a un tratto di capire cosa io volevo raggiungere e dove era la poesia vera. Quando dicevo “Cò vampa la tò cavelada” sentivo ogni volta un sussulto forte e profondo di felice emozione».


Queste parole sono tratte da un articolo firmato da Natalia Ginzburg sulla Stampa nell’ottobre 1970 - circa quarant’anni dopo la scoperta casuale di Marin - e incluso nella terza raccolta di testi non narrativi dell’autrice, “Vita immaginaria”, che ora esce per Einaudi a quarantasette anni dalla prima pubblicazione di Mondadori. «Con l’animo di un poeta fallito - scrive Ginzburg sul quotidiano torinese - leggevo quelle riviste e mi struggevo di tristezza e di invidia; e mi sembrava di guardare il mondo da una perduta provincia».


Nell’estate precedente l’articolo, era uscita per Einaudi “La vita xe fiama”, raccolta di poesie di Marin composte tra il ’63 e il ’69, curata da Claudio Magris e con prefazione di Pier Paolo Pasolini. Natalia sfogliò il libro e ritrovò un filo mai interrotto. Le strade di Torino e i luoghi della giovinezza, le sale di lettura della “Pro cultura”, i desideri e le tristezze di quella ragazza che consumava il tempo a buttar giù versi piuttosto che a studiare, erano ormai lontanissimi. «A volte - confessa nell’articolo - mi riusciva difficile riconoscere me stessa nella persona immemore e inaridita che subiva strane vicende e se ne andava per città ignote. Riconoscevo me stessa quando le parole antiche e amate “Cò vampa la tò cavelada” riaffioravano al mio ricordo».
Un giorno, a Roma, Natalia Ginzburg si era imbattuta ne “I canti dell’isola” di Marin, nell’edizione del ’51 di Del Bianco di Udine. Si era avvicinata a quel volume con sospetto, con la paura segreta di una delusione, e aveva permesso che qualcuno glielo portasse via. Ma in quell’estate del ’70, sfogliando “La vita xe fiama”, tutto si ricompose: i versi in dialetto gradese le erano rimasti dentro «senza intristire nè morire», come un bene inesauribile.


Ancora una volta Natalia battè i librai di Roma cercando i volumi precedenti al ’63 e non ne trovò nessuno, pur scoprendo che Marin era famosissimo. Poi prese carta e penna e gli mandò una lettera presso l’editore che condividevano, Einaudi. Il poeta le rispose, le chiese perchè avesse aspettato tanto a dirgli che amava la sua poesia, perchè gli scrivesse solo ora che «era moribondo». E si lamentò che credeva di avere pochi lettori, non più di venti, con lei ventuno.


«La poesia di Biagio Marin - scrive ancora Ginzburg nel pezzo sulla Stampa - è una poesia immobile: come è nata, così è oggi. È modulata e melodiosa, fatta di poche cose e pochissime parole che ritornano sempre: nuvole, sabbia, conchiglie, stagioni felici, gabbiani e ragazze. I colloqui con i cari perduti; l’attesa della morte insieme amara e serena; i vincoli con la propria terra, confusi di collera, ironia e testarda tenerezza; L’addio al figlio: “Tu avevi ventiquattro anni/ el cuor come un zardin...”».


Biagio Marin fece mandare a Natalia Ginzburg una raccolta quasi completa della sua opera, stampata dalla Cassa di Risparmio di Trieste. E la scrittrice vi ritrovò un frammento del mare, citato nel saggio di Benco, che invano aveva cercato fino allora: “Anche el mar el me par ingrisinio/ elo elo ch’el xè cussí grando/ elo elo ch’el ze como Dio/ adesso el se oscura tremando”. Destinato, come gli altri imparati da ragazzina, a farle compagnia per tutta la vita.

martedì 14 dicembre 2021

MODA & MODI

 

L'anno che verrà sarà Very Peri

 

Kamala Harris in very peri al giuramento

 

 

Kamala Harris l’aveva scelto per il giorno del giuramento come vice di Joe Biden, il 23 gennaio scorso. Total blu, capospalla e abito firmati Christopher John Rogers, ma di una sfumatura particolare, con una punta di viola e di rosso. Un colore dall’impatto forte, reso ancora più asseverativo da quel lungo cappotto monopetto sotto il ginocchio che disegnava una linea imponente, forse troppo. Nulla è lasciato al caso in cerimonie come l’insediamento del presidente degli Stati Uniti, dove i colori hanno significati ben precisi, una sorta di linguaggio cromatico destinato a colpire l’immaginario del mondo e a trasmettere un messaggio. Kamala, scopriamo ora, era in anticipo sui tempi nell’esprimere energia e positività. In questi giorni infatti, quell’entità misteriosa che è il colosso americano Pantone, l’istituto che, dopo certosine valutazioni e ricerche in tutti i settori, cataloga i colori secondo criteri riconosciuti a livello mondiale e si pronuncia come un oracolo sulla tinta che caratterizzerà moda, design, beauty, arredamento per l’anno a venire, ha decretato la sua scelta: il 2022 sarà Very Peri, blu pervinca mischiato a viola e rosso, inedito e adatto a tempi fusion come quelli che viviamo.

 

Lady Gaga alla première londinese di House of Gucci

 


Avete presente Lady Gaga alla premiere londinese di “House of Gucci”? Era avvolta in un abito-mantello plissettato in chiffon di seta dell’ultima collezione Love Parade di Gucci in un viola indefinibile, un’alchimia di colori dirompente che la protagonista del film (interpreta Patrizia Reggiani e i suoi look minacciano di tormentarci nei mesi a venire...) faceva svettare sopra stivaletti stringati con platform vertiginose. Ecco, Gaga sfoggiava anche lei il Pantone 17-3938, ovvero il Very Peri. Che al di là del nome scelto, non felicissimo, rappresenta una novità: per la prima volta è un neo-colore, una tinta creata apposta per vestire la transizione che stiamo attraversando.

 

Un’anticipatrice della neonata nuance è stata anche Anya Taylor-Joy, l’attrice che ha spopolato su Netflix ne “La regina degli scacchi” (e, attenzione, le serie in streaming dettano stili quasi più delle passerelle), vestita ai Cfda Fashion Award in mini-tailleur Very Peri di Oscar de la Renta e come lei anche Nicole Kidman agli Instyle Awards, infilata in un Armani Privé viola ricoperto di paillettes. Prima del verdetto di Pantone, la nuova sfumatura era già nell’aria e sui red carpet.

 

Anya Taylor-Joy ai Cfda Fashion Award a New York

 


Dopo l’«ultimate grey» e il giallo «illuminating» del 2021, abbinata che sulla carta doveva dare forza e speranza, e che si è rivelato un matrimonio freddo e un po’ tristanzuolo, Pantone ha puntato sulla sferzata di vitalità. Leatrice Eiseman, direttore esecutivo dell’Istituto, ha spiegato che la famiglia del blu è stata il punto di partenza, perchè trasmette comfort e sicurezza. L’infusione di rosso e viola rappresenta invece una sorta di ponte cromatico verso il mondo digitale, quello che ha segnato gli ultimi mesi della nostra vita. Insomma, un colore “innaturale”, necessario per reagire a tempi innaturali. Studiato a tavolino per farci sentire Very Peri sia in presenza che da remoto. Funzionerà?

lunedì 29 novembre 2021

MODA & MODI

 Vietata la pelle di Kim Jong-un

(se si vuole salvare la pelle)

 

Kim Jong-un (Associated Press)


 

La pelle del caro leader non si tocca, se si vuole salvare la propria. L’imitazione non può insidiare l’adorazione. La notizia di moda più gustosa della settimana arriva dalla Corea del Nord, paese notoriamente aperto ai trend, dove il giovane dittatore Kim Jong-un, è intervenuto con pugno di ferro sul dress code dei sudditi. Vietato, in particolare, il suo capo preferito, il trench di pelle nero, doppiopetto, con cintura in vita, che, dal 2019, quando per la prima volta sfoggiò il marziale soprabito, insalsiccia graziosamente la sua non esile nè atletica figura. L’aveva indossato davanti a Donald Trump, altro testimonial delle ingessature, in occasione delle trattative sulle scorte nucleari della Corea del Nord.

Immediatamente i pari di Kim, la nobiltà e i dignitari del regime a lui vicini, con risorse adeguate all’acquisto del materiale pregiato, si sono “uniformati”, è il caso di dirlo, in segno di rispetto e fedeltà: tutti intubati in autentica pelle nera. Quando però anche i comuni mortali hanno copiato il gommoso cappotto del capo supremo, è scattata la repressione. Quella pelle finta, importata in Corea del Nord dalla ripresa del traffico illegale con la Cina, prima interrotto dalla pandemia, rappresentava un attentato al guardaroba del signore della nazione. Rotoloni sintetici, testimoniati da Radio Free Asia, destinati a trasformarsi in copie fedeli del capospalla del leader? Un affronto da reprimere. Solo il partito può stabilire chi ha diritto alla pelle.

Come in una riedizione delle leggi suntuarie del Medioevo in Italia, quando scopiazzare l’abbigliamento dei maggiorenti era punito con multe salate (per reprimere l’ostentazione, ma soprattutto perchè le amministrazioni potessero fare facile cassa, visto le aspirazioni al lusso di commercianti e nuovi ricchi...), la polizia si è messa in moto. Vestirsi con un’imitazione dell’orribile cappotto nero del caro leader viene punita come “tendenza impura per sfidare l’autorità della più Alta Dignità”, così come si appella il dittatore. Quindi si chiudono i negozi che vendono il tarocco e si sottraggono i capi a chi li ha, magari faticosamente, acquistati per assomigliargli, in segno di deferenza o per non incorrere in abbigliamento sgradito al regime.


Non è la prima volta che il caro leader della Corea del Nord si occupa dell’aspetto della nazione. Nel 2014, a tre anni dall’insediamento, aveva ordinato agli studenti di adottare il suo taglio di capelli, poi, nel 2017, forse infastidito dalla pletora di replicanti, aveva imposto di non imitarlo, ma di scegliere tra una quindicina di stili “socialisti” approvati dal partito. Sarebbe interessante verificare gli sforzi di fantasia dei coiffeur coreani, immaginiamo impegnati a giocare sui centimetri della “sfumatura” sul collo, una delle limitate originalità concesse a rasoiate piuttosto spartane. 


Il trench di pelle può comunque essere indossato anche dalla sorella del capo, Kim Yo-Jong, e da importanti politiche del suo cerchio magico. Se il caro leader sta cercando di staccarsi dall’immagine, e solo da quella, di padre e nonno, abbandonando giacche modello Mao e occhiali con montatura di corno a favore di un suo stile personale, il cappotto SS è molto di più di un semplice capo. Sintetizza potere supremo, distanza, intoccabilità, irraggiungibilità, ieraticità. Il caro leader per ora snobba un altro potere, quello di diventare influencer.

mercoledì 24 novembre 2021

IL LIBRO

Delitti a 33 giri di Furio Baldassi

nella Trieste sotto una palla di vetro 




 

Il gastrogiornalista rockettaro Furio Baldassi debutta da giallista. Senza dimenticare le sue passioni. Una, la musica, la infila già nel titolo, per mettere sulla strada i lettori. Dell’altra, ovvero la cucina ben innaffiata da birre e bottiglie di qualità, sono tanti i riferimenti lungo la trama del suo primo thriller, “Delitti a 33 giri” (Mgs Press, pagg. 200, euro 16,50), che ha al centro una molto contemporanea Trieste macchiata da una catena di singolari omicidi. Unici indizi, l’arma del delitto, una balestra, che il serial killer manovra con incredibile perizia, riuscendo a far fuori bersagli anche in movimento, e i 33 giri lasciati accanto ai cadaveri. Il libro verrà presentato il 26 novembre, alle 18, al Caffè San Marco, dall’autore in dialogo con Andro Merkù. 


“Smells like teen spirit” dei Nirvana “firma” il primo assassinio, quello di Angelo Maria Listuzzi, un insipiente travet della politica asceso dal Consorzio Oli Esausti alla presidenza dell’Autorità portuale, non certo per meriti suoi ma per decisione del deputato Franco Schergat, Papa Nero delle nomine cittadine, che strategicamente decide i candidati in base all’ottusità, alla manovrabilità, al totale immobilismo. Dopo Kurt Cobain e compagni, “Bat out of hell” di Meat Loaf accompagna il secondo morto, un trafficante di droga trafitto mentre in moto sta raggiungendo la sua villa-Fort Knox di Chiampore.

 

Sono invece i “Greatest Hits” del direttore d’orchestra anni ’60 Ray Conniff, colonna sonora dei film della fidanzatina d’America Doris Day, a suggellare il terzo cadavere, un boss romeno della tratta di clandestini, giustiziato nel parcheggio sotterraneo di un centro commerciale di Rabuiese. “Ramaya” di Afric Simone, il motivo dei trenini capodanneschi, celebra l’unico morto sfiorato, il sindaco Otello Michelut, provvidenzialmente chinatosi a raccattare il cellulare prima che la balestra lo trapassi in prossimità della casa dell’amante, nella defilata via Buie d’Istria. Infine, “The End” dei Doors, lasciata accanto all’ultimo giustiziato, quello eccellente.

 

 

Il giornalista Furio Baldassi

Un’arma medievale, dischi da intenditore, un omicida seriale che scuote l’apatico tran tran della città, presidiata in ogni carica di bosco e sottobosco dalle truppe conservatrici di Schergat, il proteo del Timavo della politica, con la benedizione della curia locale. Non c’è da meravigliarsi se il commissario Renzo Fierro, “talian” felicemente inurbatosi a Trieste con tanto di moglie autoctona, cerchi conforto in una liubljanska da passeggio sfornata dall’Approdo o, insieme al suo fido vice Zeno Martincig, trovi rifugio nella taverna balcanica Rustiko per riordinare le idee sui possibili sospetti. Perchè se le colpe dei trafficanti sono palesi, meno chiaro è il movente per un piccolo amorale profittatore come Listuzzi, o per il sindaco Michelut, un laureato all’università della vita arricchitosi facendo fruttare la macelleria della zia e reclutato in politica per le sue abilità di imbonitore, molto apprezzate dell’elettorato anziano e dagli estimatori dei rifacimenti di marciapiedi.


Riferimenti non troppo casuali sul fondale di una Trieste - per citare Brenno Brauer, il nerista del quotidiano locale - uguale alla città dentro la palla di vetro, che quando la scuoti scende non la neve, ma una coltre di “livore, desiderio di vendetta, vecchie beghe mai sanate, debiti con la storia mai ripianati”. Chi è allora il giustiziere che affianca criminali comuni alla nomenklatura cittadina? Per risolvere il caso Fierro dovrà avvalersi anche di un paio di gustose “risorse” interne della questura, il musicofilo Bruno Polojaz e Darione Filipaz, l’adiposo esperto di computer da decenni incrostato (e dimenticato) in un ufficio, che, miscelando gli indizi in un algoritmo, riesce ad abbinare dischi a futuri cadaveri. Ma l’assassino è sempre un passo più avanti.


Il genere del giallo è palesemente un pretesto. Da cronista esperto, con un passato ultratrentennale al Piccolo, Furio Baldassi imbastisce un’indagine che porta via via i protagonisti nei quartieri, lungo le strade, nei buffet che gli sono cari, luoghi dell’anima e di “spirito”, con un’ideale colonna sonora dei suoi best of. Il gioco dell’«indovina chi» è leggero e divertente, sia che si parli di burattinai e macellai, con la loro perniciosa corte dei miracoli seduta su ogni sedia disponibile, sia che si tratti di locali dove tutto è apparenza, dal cibo ai commensali, come al “Sunset” di Barcola (nome, ma solo quello, assolutamente di fantasia).


In filigrana, però, l’amarezza di chi, per mestiere, ha registrato negli anni l’inarrestabile degrado della classe dirigente, ormai ridotta a un manipolo di volti noti, più impegnato a soffiare sui fuochi mai domati del passato, che a costruire progetti per una Trieste dove i giovani non scappino. Allora l’ironia diventa disincanto, repulsione nei confronti di quanti fanno di una certa qualità della vita una cappa sotto cui soffocare ogni prospettiva. Che lasciano circolare vendicatori con armi arcaiche, pronti a far fuori predatori di ogni genere, anche della cosa pubblica.
 

domenica 21 novembre 2021

MODA & MODI

 

Technicolor is the new black 

 

 

Lady Gaga alla première di House of Gucci


 

Il nero arretra, travolto da una carica di colore. Nelle sulle pagine delle riviste le tinte forti esplodono, spesso mischiate e sovrapposte in accostamenti che sovvertono codici ormai invecchiati. Capitanati dal Kelly green, il verde brillante che segna la stagione, arancioni, rosa, gialli più o meno acidi, azzurri, lilla e una palette di sfumature di rosso, danno una scossa cromatica all’inverno. Il nero, il “little black dress”, non equivale più per definizione alla quintessenza dello chic, alla scelta semplice e infallibile per essere eleganti in ogni occasione, soprattutto quando non si ha troppa predisposizione agli azzardi. Sarà la reazione alle angosce della pandemia, sarà il traino della Generazione Z che sui social si racconta con pennarelli ed evidenziatori, in un tripudio di color blocking, ma il nero sembra più un recinto, un ripiego, piuttosto che un rifugio sicuro.

 

Chi, cresciuto nelle suggestioni del non colore-manifesto dei designer giapponesi degli anni Novanta, nel tutto nero cerebrale e post-atomico, dove gli orli non finiti, i fili penzoloni, le cuciture e le cerniere a vista, erano altrettanti codici per iniziati, oggi si ritrova spiazzato davanti al suo perfetto armadio monocolore. Il nero minimalista e cerebrale, che tra gli addetti ai lavori della moda ha spopolato per anni, il nero dell’intellettuale macerato e inafferrabile - vero o presunto che fosse - il nero artistoide con citazioni esistenzialiste, oggi trasmettono un messaggio di prevedibilità, anche di noia. Una scelta facile, utilitaristica, poco creativa, è il suggerimento che rimbalza dai social alle passerelle. Altro che orange is the new black, tutti i colori forti, decisi, asseverativi, sono the new black.

 

La diva Lady Gaga veste rosso fuoco e ciclamino intenso alla première milanese del film più chiacchierato del momento, “House of Gucci”, dove interpreta l’oscura Patrizia Reggiani, condannata come mandante dell’assassinio del marito Maurizio. E la maison fiorentina, nell’anno del centenario, risponde con la sfilata sull’Hollywood Boulevard di Los Angeles, Gucci Love Parade, che è un omaggio al cinema in un bouquet di rosa, arancio, azzurro, verde pastiglia. Senza scomodare Gaga, basta l’Imma Tataranni procuratore campione di ascolti in tivù: il suo pirotecnico guardaroba al confine col kitsch definisce il personaggio.


La voglia di colore da tempo è nell’aria. Un colore che sia positivo e vitale, restituito al suo significato e deterrente contro i gialli, gli arancioni, i rossi dei titoli dei telegiornali, che per convenzione hanno cordonato, e purtroppo minacciano di farlo ancora, la nostra libertà e socialità. Sulle pagine Instagram, nei video di TikTok, la follia cromatica compone un album inesauribile, dove le celebrità impennano le percentuali di ricerca in rete e di vendita delle tinte in cui si raccontano. E l’individualità, per tutti, vince sulla preoccupazione di trovare l’accostamento corretto.


Una donna in abito nero è come un tratto di matita, diceva Yves Saint Laurent. Essenziale, senza sbavature. Oggi noi neristi dobbiamo avventurarci fuori dalla comfort zone e riappropriarci di un alfabeto che avevamo ridotto alle varianti di un’unica lettera. Col colore, almeno quello che ci mettiamo addosso, possiamo rompere le regole. Trasgredire. Facendo anche del bene all’umore.

lunedì 1 novembre 2021

MODA & MODI

 Quelle eredità tessili

sono gioielli da salvare

  



 

Chiamateli pre-loved, amati da qualcun altro prima di noi e rimessi in vendita. Chi li etichetta più come vestiti di seconda mano? I pre-loved oggi sono diventati sciccosi second hand. Le pioniere del riciclo si riscoprono orgogliose avanguardie della recente coscienza ambientalista della moda. Ricordo decine di scambi di qualche anno fa, che continuano a ripetersi senza variazioni: “Che bello, tu hai sempre cose originali”. “Sì, l’ho trovato in un negozio dell’usato”. Alla risposta, e alla rivendicazione della provenienza del capo, seguiva, e ancora segue, l’occhiata perplessa, come davanti a un’innocua eccentrica con la propensione un po’ perversa a scavare negli scatoloni. Il pregiudizio è difficile da scardinare: usato ovvero sporco, derelitto, consunto. Qualcosa che si porta addosso il gusto, le scelte e gli abbandoni di un’altra persona. Seconda mano fino a pochi anni fa faceva miseria. Ora scopro di aver fatto molta economia circolare, da quando, ragazzina, esploravo con scarsi esiti le “jumble sale”, i mercatini in garage di un gruppo di virtuose signore inglesi.

Gli abiti smessi si rivendono e sulla rete esplodono le piattaforme di compravendita e scambi, i siti specializzati, i negozi virtuali, le app senza intermediazioni. Non lo metti? Mettilo in vendita. E il mercato diventa potenzialmente infinito, una planetaria piazza con tanti capi ordinari a cui viene data una nuova vita, pezzi griffati ma riciclati come vetusti da un’utenza sensibile a trend e stagioni, gioielli vintage che costano come tali. Le griffe cavalcano il nuovo mercato, rimettono in circolo i modelli storici riaggiornandoli, anche i jeans rotti si riconsegnano ai produttori che li ristrutturano per rivenderli. È l’upcycling, il riciclato di lusso. Un gigantesco business, con la benedizione della consapevolezza ecologica che spalanca nuove fette di mercato, di tutte le età.


Facile? Tutt’altro. Comprare l’usato è una propensione, ma anche un’educazione che richiede occhio e allenamento. Non c’è nessun fantastico affare ad aspettarci in rete, nessuna borsa Jackie, Kelly, Bagonghi, nessun abito di Balenciaga (Cristobal, non gli epigoni) per quattro soldi. Meglio affidarsi alle piattaforme che offrono un servizio di autenticazione anti-tarocco. Gli stracci delle catene di fast fashion rimessi in pista per pochi euro, rimarranno stracci, con un ciclo di vita impossibile da allungare: chi li vende ne comprerà altri. È un loop, non circolarità, tantomeno verde. Per i capi non vintage ma solo vecchi di qualche stagione ed eliminati per comprarne altri da “instagrammizzare”, bisogna valutare tutto - colore, taglia e taglio - e prepararsi a qualche delusione.


Acquistare l’usato sartoriale è un rito antitetico al clic sulla tastiera. Che ha bisogno di tempo e tempi. Fatto del piacere della ricerca, del tocco del materiale, della scoperta del dettaglio. I ganci nascosti, i bottoncini ricoperti con la stoffa dell’abito, le asole fatte a mano, i lacci col microscopico automatico per fermare le spalline del reggiseno. Da Alessia, pioniera dell’usato triestino con Boogaloo, sono passate tante di queste eredità tessili, alcune, forse troppe, finite nel mio armadio. Raccontano di artigianalità superba, di occasioni, di unicità e irripetibilità. Non mi decido ancora a lasciarle andare, a farle ritornare pre-loved. Voglio salvare prima loro, poi anche il pianeta.

martedì 19 ottobre 2021

MODA & MODI

Platform, sulla piattaforma per puntellarsi

 

La prima foto ufficiale di And Just Like That

 

 

Un vistoso plateau al posto dello stiletto. Niente è affidato al caso nella prima foto ufficiale di una serie che alimenta strategicamente l’attesa dei fan. Fissatevi sulle estremità. In And Just Like That, il Sex and The City della maturità, Carrie a passeggio con le amiche Miranda e Charlotte indossa un paio di Mary Jane pluristringate con un tacco quadrato e una solida e imponente piattaforma. Oibò. Dove sono finite quelle punte sfuggenti e quei tacchi filiformi con cui ha attraversato Manhattan, sei stagioni e molti amori, svolazzando sicura, trafiggendo tutto, marciapiedi e uomini, in punta di ago?


Sono passati vent’anni e nel frattempo il tempio delle Manolo, la boutique monomarca vicino al MoMa, ha chiuso i battenti, travolta da beghe finanziarie. Più che di equilibrismi e sventatezze e tempo di solidità sembrano dirci le costrittive calzature con cui la Carrie over cinquanta rientra nelle nostre vite televisive. E con lei i plateau, le piattaforme, le zeppe, ritornate in passerella e nelle vetrine anche loro a circa vent’anni dall’ultimo avvistamento. Dalle scarpe da ginnastica, agli stivali e stivaletti, dalle décolleté ai sandali ai sabot, le scarpe si mettono sotto la suola un numero variabile di centimetri. Che alzano, rimodellano l’intera figura, rendono il piede una sorta di arma contundente.


Da sempre divisivo, il corso e ricorso del plateau segna le epoche e i cambiamenti del costume. Le antenate “chopine”, nella Venezia del XVI secolo, raggiungevano anche il mezzo metro d’altezza e per issarvisi ci volevano almeno un paio di aiutanti. Le donne così calzate e poco deambulanti, piacevano molto ai mariti e alla chiesa per l’impossibilità di allontanarsi o indulgere in balli peccaminosi. Due secoli dopo il tacco sostituì i trampoli, ma la vertigine dell’altezza è rimasta nella moda: Carmen Miranda sulle platform negli anni Trenta, Ferragamo e la zeppa multicolore di sughero del 1937, diventata la sua scarpa iconica. Poi la stagione psichedelica degli anni Settanta, con i plateau glitterati degli artisti, da Elton John a Diana Ross, dagli Abba ai Kiss, infine le micidiali zeppe di Vivienne Westwood del ’93, da cui precipitò in passerella Naomi Campbell, doverosamente consacrate al Victoria&Albert di Londra.

 

Naomi Campbell sulla passerella di Vivienne Westwood nel '93

 


E il revival 2021? Concepite prima e rimaste congelate nel lockdown, le platform postpandemiche (alcune con tentazioni da chopina, vedi gli stivali dorati di Valentino) convivono con il loro opposto, le scarpe flat o il tacco kitten (“micetti” di pochi centimetri) in cui ci siamo rifugiate nei periodi di confino domestico, esattamente come gli abiti comodi, le lane e i maglioni ampi non escludono la ricomparsa di bustier, vite strizzate e guaine di pelle.


La riconquistata libertà moltiplica l’offerta, rimasta a lungo lontana dagli scaffali. Ferragamo inventò la zeppa per dare stabilità al tallone e oggi le fan si arrampicano sul plateau come su una base da cui svettare, guadagnando altezza senza smarrire l’equilibrio. Segno dei tempi. E Carrie? Fa un po’ tristezza vederla costipata in quelle scarpone (griffatissime, al solito: è Celine) così lontane dalle affilate Manolo bluette che furono il suo anello di fidanzamento. Ma è il Sex and The City della mezza età e di tanti post, virus compreso. Più che a correre forse anche lei pensa a puntellarsi.

lunedì 4 ottobre 2021

MODA & MODI

 

Missoni ridotto all'osso per la Gen Z

 


 

 

Dopo molti anni di contenute e rassicuranti collezioni per signore borghesi innamorate dei grafismi di Missoni, registrate senza alcun clamore dalla stampa, l’ultima sfilata del brand, nei giorni scorsi alla settimana della moda di Milano, ha fatto notizia. La passerella più recente è anche la prima di un “estraneo” alla famiglia di Tai. A firmarla Alberto Caliri, nuovo direttore artistico, che ha preso il posto dell’ultimogenita Angela, ritiratasi a maggio, con cui ha collaborato per molti anni.

È Missoni quello che vediamo?, si sono chiesti in molti davanti a una proposta così dissimile dal dna del marchio. Microbikini all’uncinetto, abitucci inguinali o tagliati sulla schiena per mostrare gli slip coordinati, ombelichi a vista sopra top incrociati sul collo, guaine a rete trasparenti, vestiti lunghi con profondi tagli sul busto da cui sfuggono impercettibili reggiseni a triangolo. E l’uscita più spiazzante, niente più che una cintura con la scritta Missoni in nero e marrone che nasconde a malapena i seni dell’immusonita modella, su minigonna ugualmente brandizzata.


L’obiettivo è apparso subito chiaro: infondere nella sapiente e prevedibile trama dei Missoni una sferzata sexy, diretta alla cosiddetta Gen Z, il target dagli anni ‘95 al primo decennio dei Duemila, una fetta di mercato da aggredire ringiovanendo. Caliri ha detto di aver lavorato per sottrazione, di aver pescato nell’eredità Missoni asciugando e riducendo al minimo. E non si può che essere d’accordo con lui guardando i palestrati mucchietti d’ossa in passerella coperti da una remota citazione degli arazzi di Ottavio. Va superata l’idea del semplice sexy, ha precisato il designer, per affermare il concetto: “mi piaccio e va bene così”.


Caliri ha centrato un primo obiettivo: far parlare la stampa di Missoni. Suzy Menkes, guru delle giornaliste di moda, si sbilancia a definire quelle strisce di tessuto tra seno e sedere una sorta di provocazione al #metoo. Lisa Armstrong sul New York Times boccia la collezione come sfacciato voyeurismo. Sullo sfondo la domanda posta dalla confessione-shock dell’ex top model Linda Evangelista (quella che diceva di non alzarsi nemmeno dal letto per meno di diecimila dollari), oggi 56 anni, che su Instagram rivela di essere stata sfigurata dalla chirurgia estetica: fino a che punto si può rincorrere la giovinezza a tutti i costi? Nella moda l’ossessione di sedurre i giovani, i futuri consumatori, è storia vecchia. Ma nell’era dei video virali di TikTok, con quindicenni che si agitano in due pezzi nella cameretta di casa, basta togliere centimetri di tessuto per togliere anni a un marchio prestigioso ma sconosciuto ai post millennial?
 

Il #Metoo, con buona pace dell’autorevole Menkes, non c’entra niente. Ogni donna ha diritto a vestirsi o svestirsi quanto vuole senza che questo possa essere scambiato per un’allusione sessuale. Il punto è un altro. La Generazione Z è fatta di giovani che stanno concludendo gli studi, che si affacciano al lavoro o ci sono già da tempo inseriti, giovani che, nella pandemia, hanno vissuto per la prima volta un corto circuito nella socialità fisica, che stanno maturando il concetto di “inclusività” dei corpi e delle loro diverse bellezze. Per catturarli, una cintura sui capezzoli è sottrarre un po’ troppo.

domenica 19 settembre 2021

MODA & MODI

Cambiare pelle, con leggerezza

 

La pelle si impone nelle prime vetrine autunnali. Non solo le prevedibili giacche maschili o i giubbotti da biker, ma un intero guardaroba: trench, cappotti, gonne, camicie, abiti. Qualche pezzo era comparso già prima della pandemia, ma nel secondo inverno di faticosa convivenza col virus, la pelle può ricoprirci dalla testa ai piedi. E non solo nei pezzi minimal, perché la tecnologia e le lavorazioni hanno reso il materiale duttile come un tessuto e declinabile in una molteplicità di svolazzi, maniche a palloncino, balze sulle gonne, cascatelle di ruches e volant. Corazza o divertimento? L’impatto è comunque forte, soprattutto nelle scelte “total”.

 

Evan Mock al gala del Met

 

 

 Coprirsi di pelle è sempre un’operazione insidiosa, come camminare sulla corda tesa sopra un abisso di volgarità. Sembra quasi un paradosso, dopo tanti mesi in cui confortevolezza e libertà di movimento sono diventati una sorta di mantra, un’opzione irrinunciabile. La pelle, per quanto ammorbidita e trattata, fatica a liberarsi dall’idea di una costruzione che si sovrappone al corpo e gli conferisce un’innaturale rigidità, una definizione forte che va diluita con abbinamenti, accessori, colori più gentili e accomodanti. Ma forse, in questa fase dai codici sovvertiti, anche un materiale ostico riscrive le regole.

 

 

Madonna agli Mtv Music Video Awards


Nei grandi eventi dello spettacolo c’è anche un che di feticistico. Madonna agli Mtv Video Music Awards si è presentata sigillata in un busto di latex, versione aggiornata della sua performance del 1984, nella prima edizione del premio, con la hit Like a Virgin. Strizzata nel body, ha calzato berretto e guanti di pelle nera, evocando atmosfere da Portiere di notte. Sul tappeto rosso del gala al Met, l’evento glamour più monitorato degli ultimi giorni, l’attore di Gossip Girl, Evan Mock, si è fatto fotografare nascosto sotto una maschera vintage di pelle nera borchiata. Prima ancora, la cantante Billie Eilish in copertina per l’edizione inglese di maggio di Vogue, sulla guêpière mozzafiato portava una gonna di pelle color carne.

 

 


 


Gli osservatori del costume spiegano che il ritorno della pelle è una sorta di reazione collettiva ai mesi di costrizione fisica, un’affermazione del riconquistato controllo sul proprio corpo. Una pelle posticcia che trattiamo e pieghiamo alle nostre esigenze, alla nostra riconquistata libertà. Negli ultimi mesi abbiamo vissuto uno strano rapporto con chi ci governa, quasi una relazione BDSM di dominazione/sottomissione, in cui a colpi di decreto siamo stati espropriati del corpo, costretti a mascherarci e a seguire regole rigide su chi toccare o avvicinare. Trasferita la relazione sul terreno della moda, cadono le costrizioni e la pelle diventa un involucro per poter anche stuzzicare e sedurre, riappropriandoci della libertà e della spensieratezza di un gioco.


Se le letture sociologiche sono un tantino cervellotiche, il cambio di pelle è innegabile. Accanto al nero, sempre un po’ autoritario, spuntano colori vivaci, carichi, pungenti, per enfatizzare l’idea della leggerezza. Questa è la chiave: senza cadere negli effetti speciali, si può procedere a piccoli pezzi e dettagli: una gonna ampia, una camicia, un kimono da abbinare a sete e lane. Così la pelle perde l’aggressività, diventa piuttosto un’allusione sottile.

lunedì 13 settembre 2021

MODA & MODI

 

 September Issue, che grande libertà

 

 

The September Issue

Che cosa ci dicono le “september issues”? Per tradizione i numeri di settembre delle riviste di moda, Vogue in testa, “dettano” le tendenze della stagione fredda che sta per iniziare. Meglio, “indicano”. Se il lockdown ci ha lasciato un’eredità positiva è un certo fastidio per le imposizioni, certo in tema di abbigliamento. Smart working e confinamento hanno cancellato le divise da ufficio e abituato tutti a coniugare comfort e presentabilità (non solo nel mezzobusto dello schermo).

Il famoso film The September Issue del 2009, in cui Anna Wintour, allora alla guida di Vogue America, spiegava la defatigante nascita dell’edizione che sarebbe stata per tutti la Bibbia su come vestirsi nei mesi a venire, oggi ci sembra il manifesto di un mondo al quale il virus ha cambiato i connotati. Sparite le collezioni nuove ogni tre mesi (sono i designer i primi a dire: perché devo sconfessarmi in così poco tempo?), sparite le passerelle esclusive, diventate film e video che tutti possono vedere da una virtuale prima fila, ridimensionato il verbo dello stilista a favore delle tendenze che i giovanissimi viralizzano su TikTok, la “september issue” è prima di tutto una questione di personalità. Le riviste sintetizzano suggerimenti, ma sono molto più caute nel gridare alla tendenza a tutti i costi.


Forse la vera novità è questa. Il nuovo, nella moda, non è più un valore assoluto. Anzi. Quantomeno va coniugato con il vecchio. La ripartenza è anche (e non solo), upcycling, riciclare. Non per fare quello che l’incombente Greta Thunberg chiama il “green washing”, ossia lavarci la coscienza con l’ambientalismo di facciata, ma perché mischiare ci stimola, molto di più che comprare online un capo da quattro soldi purchè sia di stagione. Miu Miu ha acquistato vestiti nei migliori negozi vintage del mondo e li ha personalizzati. Chic-upcycling. È una chiave per tutti.


Prendiamo il foulard, uno degli accessori di punta dell’autunno inverno 2021, da portare legato sotto il mento, come bandana, come cintura, al manico della borsa. Difficile non trovarne uno in casa, anonimo o logato, reperto bon ton di mamme e nonne. (Ri)metterlo in circolo pretende fantasia. Lo stesso vale per i maglioni king size, lasciati indietro prima che il lockdown ci facesse riscoprire l’importanza della morbidezza: con una gonna o un paio di pantaloni di tweed, tessuto in gran (ri)spolvero, ritornano contemporanei. Si potrebbe continuare: il kilt da (ri)scoprire, perché lo stile preppy degli studenti americani anni Sessanta resiste; o l’abito intero, i due pezzi, i pantaloni tutti in lana, capi di transizione del post-lockdown, facili da (re)cuperare e (ri)adattare. Crescono e si moltiplicano le pelliccette ecologiche: chi l’ha comprata nel primo sussulto di sostenibilità, può sbizzarrirsi con gli accessori per minimizzare un taglio datato. (Ri)compare il temuto animalier, che ognuna, almeno una volta nella vita, ha sulla coscienza: abbinandoci un colore acido non fa più divano da discoteca anni Ottanta.


Finita l’era dei guru (gli influencer sì sono deperibili), la “september issue” 2021 ci regala una grande libertà. Anche dalla selva dei “re” e dei “ri”. Il riciclo è divertimento, non un altro (ipocrita) diktat, seppure in nome di nobili cause.

giovedì 26 agosto 2021

MODA & MODI 

Cara Carrie, che sciatti siamo dopo il lockdown

 

Quand’è che la confortevolezza si è trasformata in sciatteria? Quando la libertà ritrovata ha fatto saltare i freni inibitori, andando in caduta libera verso la volgarità?

 Potrebbe cominciare così una delle rubriche della giornalista Carrie Bradshaw, la Sarah Jessica Parker di Sex and The City, che si prepara a tornare in televisione con il reboot, la ripresa della serie cult, in dieci episodi intitolati And Just Like That. Sono passati vent’anni e i problemi per le amiche (azzoppate, Kim Cattrall, Samantha, si è persa per strada per dissidi con la Parker...) non sono più gli uomini con cui accompagnare il Cosmo prima di gettarsi nella notte newyorkese, ma la mezza età, i fallimenti sentimentali, la menopausa e anche la pandemia.

 

 

And Just Like That


Fatte le debite proporzioni tra la metropoli e una città di provincia impermeabile alla moda come è Trieste (che paradosso, vero? Tra nativi e adottivi, ha dato alla moda del secondo ’900 quattro grandi stilisti) l’interrogativo non è poi così peregrino. Carrie non ticchetterà più le sue domande sulla macchina da scrivere, come accadeva all’inizio di ogni puntata delle sei stagioni di Sex and The City, avrà un computer, un iPad di ultima generazione, ma ci aspettiamo che si chieda, proprio come noi: perché dal confinamento ci siamo risvegliati ordinari? Accondiscendenti, permissivi verso noi stessi? Così sventati da uscire coperti dalla prima cosa che capita a tiro? La confortevolezza a cui ci ha abituato il lockdown ha ripopolato le strade di canottiere, biancheria indossata come non fosse intima, calzoncini francobollo, sottovesti fatte passare per vestiti, nonnulla che non sai se sono top o mini-abiti, l’importante è che si incollino perfettamente a ogni centimetro di pelle.

 



 


Qualche collega o amico del tutto disinteressato o blandamente attento al vestire, suggerisce: perché non scrivere su questo sciattume dilagante? Su questo mostrare a tutti i costi, quasi una rivendicazione? Se i media ci martellano dicendo da mesi che la caduta delle restrizioni non è un liberi tutti, perchè non vale per gli involucri di questa estate disennata? Perchè il post lockdown ha ripopolato le strade di bermudati e smutandate?

 

 



Sabato sera: ristorante triestino segnalato da tutte le guide, con una consolidata clientela di mezza età, oggi scoperto da generazioni più giovani. Ad abbassare l’età, e non solo quella, entra un gruppo di ragazzi. Spicca lei, che per una serata, all’interno di un locale, si propone in un triangolino indeciso se coprire schiena, pancia o ombelico, sopra (si fa per dire), svolazzanti shorts-mutanda che, risucchiati spesso dalle natiche, costringevano l’interessata calzata in combat boots, nell’in e out per la “cik pausa”, ad artistici contorcimenti.
 

In rete ci accaloriamo contro il body shaming, in nome del sacrosanto diritto di sentirsi bene nel proprio corpo, e altrettanto liberi di mostrarlo, qualsiasi dimensione o (im)perfezione abbia, senza essere presi di mira da commenti sgradevoli. Capita spesso però che siamo noi stessi a farci una sorta di auto-shaming in nome di un malintenso “quando e quanto voglio”. È la conseguenza più visibile del lockdown, l’averci privato del senso dei tempi, dei modi, delle occasioni per vestirsi o svestirsi. Che poi è la vera libertà.

sabato 21 agosto 2021

 LA MOSTRA

"Zagabria, la città delle artiste"

in trasferta a Trieste

 

Oltre cent’anni d’arte a Zagabria sotto il segno delle donne. Poco più di una settantina di opere per raccontare l’ispirazione, la visione, i percorsi di cinquantaquattro creative che, in quella che è oggi la capitale della Croazia, sono nate, o hanno studiato all’Accademia di Belle Arti per poi rimanere a vivere e lavorare in città, o da qui sono partite con il diploma per emigrare altrove. 


S’intitola “Zagabria, la città delle artiste”, la mostra che sarà ospitata dal 24 settembre al 12 dicembre 2021 nella Sala Scarpa del Museo Revoltella a Trieste e che, tra il marzo e aprile dell’anno scorso, era allestita all’Art Pavilion di Zagabria, sorto nel 1897 con finalità espositive e oggi chiuso in seguito ai pesanti danni provocati dal terremoto. L’edificio, in stile art nouveau, è la galleria più antica di Zagabria e uno dei suoi simboli.


L’esposizione doveva raggiungere Trieste già un anno fa, ma pandemia e sisma l’hanno di fatto congelata fino a oggi. Il percorso è stato curato dalle storiche dell’arte Ljerka Dulibić, Ivana Mance e Radmila Iva Janković, insieme alla direttrice del Pavilion, Jasminka Poklečki Stošić, con l’obiettivo di offrire uno sguardo storico e critico sull’opera di artiste visive che hanno inciso nella vita culturale di Zagabria. L’arco temporale rappresentato va dal 1899 al 2019, suddiviso in tre momenti: artiste attive fino allo scoppio della seconda guerra mondiale, artiste che hanno operato successivamente al conflitto, quindi artiste affacciatesi sulla scena all’inizio degli anni Settanta, alcune delle quali ancora oggi in attività.

 

"Autoritratto in abito da caccia", Nasta Rojc

 


Sono tre gli obiettivi perseguiti dalla giunta comunale nel promuovere il riallestimento della mostra a Trieste, la cui relativa delibera è in questi giorni all’attenzione dell’esecutivo, illustrata dall’assessore alla Cultura, Giorgio Rossi.

Li anticipa Laura Carlini Fanfogna, direttrice del Servizio Musei e Biblioteche del Comune. «Innanzitutto - spiega - conoscere l’opera di queste artiste croate per poi stimolare una riflessione, e un confronto, sulla parallela situazione italiana, abbracciando anche un discorso sulle pari opportunità nel mondo dell’arte. La nostra mostra al Revoltella sugli artisti del dopoguerra, all’interno della quale c’era una sezione dedicata alla donne, era in fondo propedeutica a questo successivo allestimento. Pensiamo a Zagabria e alla sua Accademia di Belle Arti. Trieste non ne ha mai avuta una, da qui si andava a studiare a Venezia, a Vienna, a Monaco. A Trieste non è mai esistito neanche un Padiglione storico delle arti. Pensiamo poi - prosegue - ai club che raccoglievano le donne artiste, realtà che si sono sviluppate molto nell’Europa centrale, mentre in Italia questo tipo di associazioni non esisteva o aveva vita breve. Dal confronto con le espressioni artistiche femminili maturate a Zagabria nascono filoni di riflessione molto interessanti da approfondire».

 

"Ninfee nel Giardino Botanico I" di Slava Raškaj

 


C’è poi un altro aspetto, affatto secondario nella scelta di riproporre la “città delle artiste” a Trieste. «Il Padiglione di Zagabria è stato gravemente lesionato dal terremoto - prosegue Carlini Fanfogna - quindi la mostra ha anche un obiettivo di solidarietà». Senza contare che il catalogo, già edito in croato, italiano e inglese, è uno strumento importante in chiave turistica.

 

Ljerka Šibenik

 


Ampia è la panoramica delle tendenze presenti in mostra, che arrivano alla videoperformance, alle installazioni sonore, alla videoarte. «Sarà interessante vedere la ricerca delle generazioni di artiste più recenti, degli anni Sessanta e Settanta», aggiunge Carlini Fanfogna. Rappresentata anche la scultura, un campo in cui le donne si inseriscono attivamente a partire dal secondo dopoguerra, prima riservato quasi in esclusiva agli uomini. È Ksenija Kantoci (1909-1995) a sviluppare la concezione di una scultura moderna, continuando a elaborare questa visione lungo tutto l’arco della sua carriera, mentre le pittrici coeve abbandonano via via il figurativo per abbracciare l’arte astratta.

 

Ksenija Kantoci

 


Il percorso allestito al Revoltella favorirà anche la riflessione sull’inclusività dell’arte, proprio a partire dalla prima sezione, quella da fine ’800 ai primi decenni del ’900, dove sono presenti creative già apprezzate dai contemporanei e ricercate sul mercato. Come hanno fatto notare le curatrici, a cavallo del secolo scorso progressivamente le artiste diventano “professioniste” e passano dall’attività svolta tra le mura domestiche, attinente soprattutto ai manufatti tessili, a una produzione di pittura e scultura da presentare al pubblico. L’istruzione e l’apertura del Padiglione delle arti alle correnti femminili più recenti, permettono ad alcune pittrici e scultrici di farsi un nome, di essere seguite da pubblico e critica e, in alcuni casi di raggiungere la celebrità.


Dopo la seconda guerra mondiale, l’arte a Zagabria si confronta col modernismo, poi con le contestazioni del ’68, quando atto artistico e vita reale diventano un tutt’uno e il proprio corpo si fa “mezzo” per la creazione, infine con la new wave.
All’inaugurazione al Museo Revoltella interverrà il vice sindaco di Zagabria, Danijela Dolenec.

giovedì 19 agosto 2021

L'INTERVISTA

Maria Giuseppina Muzzarelli:

Madri mancate, surrogate, in carriera

Sei donne del Medievo quasi come noi 




 

Sei donne del Medioevo raccontate nel loro rapporto con la maternità. Madri mancate, madri da lontano, madri per elezione, madri in carriera, madri spirituali, madri che fanno anche da padre. Maria Giuseppina Muzzarelli, docente di Storia medievale all’Università di Bologna, esperta di storia della mentalità e della società, in “Madri madri mancate quasi madri” (Laterza, euro 18, pagg. 192) ha scelto sei figure emblematiche - Dhuoda, Matilde di Canossa, Caterina da Siena, Margherita Datini e Alessandra Macinghi Strozzi - che scardinano stereotipi radicati sui ruoli, le capacità e le scelte femminili nell’età di mezzo. E scopriamo, a secoli di distanza, inedite consonanze con situazioni ed esperienze attuali. «Ho cercato di raccogliere in questo “bouquet” - spiega Muzzarelli - figure molto note e altre meno conosciute o addirittura sconosciute ai più. Di tutte loro ho indagato il ruolo materno, anche al di là del fatto biologico di essere diventate madri. Non avevo idea se avrei trovato elementi di vicinanza con la nostra realtà e sensibilità. A lavoro ultimato posso dire che resta un’enorme distanza, ma anche un senso di familiarità che nasce forse dall’essere questa relazione certo potentemente influenzata dalla realtà circostante ma anche molto peculiare, intrisa di sentimenti che, pure anch’essi storicamente condizionati, riescono a parlarci». 

 

Matilde di Canossa (1046-1115)

 


La vicenda di Matilde di Canossa è emblematica di quanto all’epoca non avere figli segnasse una donna, pur potente e ricca...
«Matilde si colloca al confine, in quell’XI secolo in cui erano ancora possibili ascese e affermazioni femminili successivamente sempre meno presenti e in cui si profilano nuove realtà politiche e sociali. È ricordata nei libri di storia ed a lei Donizone ha dedicato una biografia, ma mai si fa cenno alla sua mancata maternità. Ho trovato il fatto emblematico di una sorta di cancellazione di questo pur importante aspetto, e non solo privato, quasi un prezzo da pagare da parte di una donna potente e politicamente rilevante».


Che cosa le accadde? «Dal primo matrimonio nacque una figlia che morì quasi subito e l’esperienza complessiva fu a tal punto negativa per lei da indurla ad abbandonare il marito. Rimasta vedova e ormai ultraquarantenne volle sposare un uomo molto più giovane, forse proprio per assicurare continuità al casato: fu un disastro che ci viene raccontata in ogni sapido dettaglio. Di fatto la lady di ferro fu sconfitta dal suo stesso corpo. Le conseguenze furono politiche e anche umane, ma il fatto che Enrico V le volle riconoscere il titolo di “viceregina” e la seppe consolare chiamandola “col nome di madre” assicura alla storia un finale meno drammatico».


Lei racconta anche di una maternità “surrogata”, come accudimento di figli non propri. Da cosa nasceva un concetto così moderno di famiglia allargata? «Questa è la storia di Margherita Bandini che sposò, molto giovane, il noto mercante pratese Francesco Datini, un uomo più anziano di lei, che desiderava tramandare la sua floridissima azienda ai figli. Margherita non riuscì a diventare madre. Dalla sua storia, che ci è nota anche attraverso le molte lettere indirizzate al marito, spesso lontano, si ricava che intorno a lei c’era una vera e propria “brigata” di piccoli: figli di sua sorella, figli dei soci del marito, figli della servitù. Margherita governava questa famiglia “allargata” e soprattutto ha cresciuto Ginevra, la bambina che il marito ebbe da una schiava, come fosse sua figlia. In questi termini ne parla nelle lettere a Francesco. Siamo dunque davanti a una realtà di fatto non scontata e insieme davanti alla coscienza di essa e ciò rende davvero preziosa questa testimonianza».

 

Margherita Bandini Datini (1360-1423)

 


Maternità spirituale è quella di Caterina da Siena. Che qualità materne le riconoscevano i suoi seguaci? «Caterina nasce nel 1347 e fin da piccola sceglie la strada della fede. Sarà madre dei figli di Cristo e a moltissimi uomini e donne indirizza lettere per dire loro come comportarsi riguardo al progetto che le stava a cuore: la riforma dei costumi, la crociata e il ritorno a Roma del pontefice da lungo tempo ad Avignone. Guida e ammonisce come una vera madre, usa una sorta di softpower per influenzare le vite dei suoi “quasi figli”. Esorta uomini di potere e pontefici ad avere coraggio, ad agire virilmente. Come ogni madre, soprattutto italiana, riteneva di sapere quello che i figli avrebbero dovuto fare. Esprime attiva partecipazione alla loro vita per indirizzarla: un qualcosa che, ammettiamolo, ci capita eccome di fare».


Carriera e maternità: ieri come oggi un equilibrio difficile…
«Ho intitolato “La carriera o la vita” il capitolo dedicato a Christine de Pizan, prima intellettuale di professione vissuta fra XIV e XV secolo. Rimasta vedova e grazie alla cultura trasmessale dal padre, comincia a scrivere opere poetiche e trattati su commissione. È nota in particolare “La città delle dame”, scritta per difendere la dignità delle donne. È meno noto il fatto che ha avuto dei figli e che si occupata attivamente della loro sistemazione. Quando le donne che hanno lasciato segni rilevanti nella storia sono state anche madri, questo loro ruolo rimane perlopiù nell’ombra: troppo usuale, quasi in contraddizione con la loro opera o azione pubblica e lo si può quindi sottacere. Sta di fatto che Christine grazie al successo ottenuto è riuscita ad aiutare i figli realizzando una sorta di quadratura del cerchio. Anche oggi ci facciamo i conti». 

 

Christine de Pizan (1364-1430)

 


L’autonomia e la capacità di reinventarsi sono tratti che colpiscono, anche se parliamo di donne di un’elevata condizione sociale…
«Le donne di cui parlo non sono comuni. Ma di loro, più che le grandi imprese politiche mi ha interessato la relazione con il tema della cura, che hanno saputo realizzare mostrandosi capaci di applicare le loro capacità e la loro cultura anche in questo campo. Donne fuori dall’ordinario sì, ma non fuori dal loro tempo e dal loro genere. Madri oltre la retorica che le relega a un ruolo ritenuto angusto, autentiche madri anche oltre l’effettiva esperienza biologica, donne in azione oltre la sfera della domesticità, protagoniste oltre i limiti loro imposti, madri e donne oltre le nostre ristrette concezioni del Medioevo e delle capacità femminili».


Dove ha trovato in queste sei figure la caratteristica che più le avvicina a noi donne di oggi? «Le distanze sono infinite: donne che non possono, quasi mai, scegliere il loro destino, che devono mettere al mondo circa una ventina di figli perchè almeno qualcuno arrivi all’età adulta, che hanno una vita sociale e di relazioni più che ristretta, che non prendono la parola in pubblico, che lavorano senza sosta e sanno fare ben più di quanto venga loro riconosciuto. Più d’una si è guadagnata dosi di protagonismo in assenza dei mariti, lontani o defunti. Spesso si tratta di donne che mascherano la loro forza e le loro capacità dichiarandosi deboli o sminuendo il loro ruolo. Almeno una di loro, Christine de Pizan, è del tutto consapevole della privazione subìta dalle donne per la minore istruzione e la mancanza di molte occasioni di relazione e conoscenze. Questa consapevolezza e la strategia della minimalizzazione ce le fa sentire vicine, così come la loro capacità di fare al di là dei ruoli ufficialmente attribuiti. E il loro costante impegno diffuso in più ambiti, da quello famigliare a quello lavorativo: pesante, continuo ma perennemente nel backstage». 


Maria Giuseppina Muzzarelli

 

martedì 10 agosto 2021

MODA & MODI

 

Nell'armadio sorprese da archeologo

 

I saldi si avviano a chiudere con lo “sbaracco”, termine orribile che sa di magazzini svuotati e fondi ai quali dare un’ultima possibilità, prima di rassegnarsi alla loro sorte di invenduti. Non c’è da meravigliarsi se la nostra propensione allo shopping è ancora fragile. I mesi della pandemia ci hanno dato molte occasioni per esplorare gli armadi e disseppellire scheletri, tutt’altro che metaforici, dimenticati da tempo. Toh, di questa non mi ricordavo: esclamazione ricorrente nel ripescare la quarta gonna nera, la terza maglietta a righe, il multiplo della giacca passe partout, acquistate con desiderio e inghiottite dall’oblio nel rapinoso succedersi dei cosiddetti trend. 

Parola pressoché sparita dai siti specializzati, che, per sfuggire alla melassa della sostenibilità, così politically correct e poco glamour, ripiegano sulla prevedibile parata di attrici, influencer, principesse che condividono la sorpresa meravigliosa di indossare un paio di espadrillas in estate e soprattutto ci illustrano come farlo. L’autocoscienza indotta dal lockdown, anche se un po’ pelosa, ci ha aperto brutalmente gli occhi: forse non ancora sulle nostre responsabilità nella devastazione del pianeta, ma sulla nostra bulimia modaiola, quella sì.


Tempo di rispolverare Marie Kondo e il suo “magico potere”, non solo del riordino, ma del recupero intelligente e non frustrante. Intanto, bisogna comportarsi da archiviste del guardaroba. Nell’ineluttabile cambio di stagione, la priorità è selezionare quei capi flessibili, che possono fare da base per costruirci sopra diversi outfit. Sono solitamente pezzi in colori neutri, sfumature di nero, bianco, grigio, avorio, crema, blu che non invecchiano e sopportano bene il susseguirsi delle novità, vere o presunte, che siano. Di solito è la tinta blocking - arancio, verde, giallo - a caratterizzare i cappotti “di stagione”, rendendoli al tempo stesso datati appena un anno dopo, ma per rinnovare un vecchio capospalla più anonimo basta metterci sotto un golf o una giacca dal colore deciso. I cromatismi a contrasto regalano subito un effetto di freschezza e mettono alla prova la fantasia di chi li indossa. Lo stesso vale per gli accessori. Chi non ama strafare col colore ha a disposizione guanti, cappelli, berretti, anelli, braccialetti e collane per rivitalizzare l’insieme più spento.


E la moda “circolare”, di cui si parla tanto, può cominciare dal nostro armadio. L’acquisto di un capo di seconda mano è una pratica che richiede tempo e dedizione: bisogna farsi l’occhio, saper fiutare e selezionare il pezzo speciale, amare il dettaglio di sartoria o, semplicemente, in un cesto di t-shirt o in una rastrelliera di giacche usate avere l’abilità di pescare quella da fare propria. Ma nel nostro guardaroba, quanti capi vintage aspettano di essere rimessi in circolo? Tenuti magari perchè pagati cari, o per ricordo, per affezione a prescindere dal prezzo, con pochi accorgimenti trovano una nuova vita.


Nelle vetrine i primi assaggi invernali sono giacche, cappotti, piumini in una palette neutra. Come tele su cui ognuno può mettere i suoi colori, il suo passato fatto anche di tanti vestiti lasciati indietro. Lo stile è invenzione e stratificazione.

sabato 7 agosto 2021

IL LIBRO

 

 I tre amici (o forse quattro)

di Valérie Perrin

divisi da un mistero e da una voce

 

 Non c’è da meravigliarsi che tutti l’attendessero alla prova del tre. Dopo il successo straordinario di “Cambiare l’acqua ai fiori”, il caso editoriale della scorsa stagione, Valérie Perrin era l’osservata speciale del mondo letterario e della sterminata platea di lettori che per mesi l’ha mantenuta nella top ten delle vendite. “Tre” (e/o, pagg. 621, euro 19, traduzione di Alberto Bracci Testasecca), il nuovo e terzo romanzo dell’autrice francese, uscito in Italia nel giugno 2021, ha debuttato direttamente in testa alle classifiche, risvegliando l’attenzione anche sul libro precedente, ritornato di prepotenza tra i più venduti.

 


 

Checchè nei dicano i critici - sempre cauti davanti a exploit inattesi, nati in sordina e grazie al passaparola - Valérie Perrin ancora una volta sta conquistando il mercato con una fluviale e delicata storia di amicizia, dove reimpasta con sorprendente maestria gli ingredienti che hanno conquistato i suoi lettori: gli amori, mai prevedibili o stereotipati, le famiglie sbilenche, la solidarietà verso chi resta ai margini, umano o animale che sia, la perdita e la sua accettazione, lungo un percorso affatto consolatorio alla ricerca della felicità che è anche il riconoscimento della propria identità, del proprio posto nel mondo. Ancora una trama che in parte rientra nel genere “up-lit”, com’è stato definito “Cambiare l’acqua ai fiori”, la letteratura terapeutica, che, esplorando lutti e malattie, riesce a “tirare su”, riaffermando l’insopprimibile capacità di rieducarsi agli altri, all’amore, alla vita insieme.

 

Valérie Perrin

 


Tre, numero simbolo. Tre sono gli amici protagonisti del romanzo, compagni di quinta elementare a La Comelle, in Borgogna, profonda provincia francese: Nina, sensibile e creativa, Adrien, piccolo e arruffato, Étienne, ultimogenito bello e svogliato di una ricca famiglia del paese. Si incontrano nel 1986 e diventano inseparabili. Nina non ha mai conosciuto suo padre e sua madre l’ha abbandonata col nonno; Adrien cresce con la mamma, frutto della sua relazione con un uomo sposato; Étienne delude le aspettative del padre, mai all’altezza dei brillanti fratelli. Nelle loro famiglie manca qualcosa, che quel fortissimo, esclusivo rapporto a tre, compensa. E 3, terzo lp del gruppo cult degli Indochine, è la colonna sonora della loro crescita, insieme alla musica dei Pixies, degli Oasis, di Madonna, di Kurt Cobain e dei Sonic Youth, attraverso i cambiamenti e gli amori dell’adolescenza e le scelte, diverse, dell’età adulta, che non li allontanano, ma cementano ancor di più il loro rapporto. Nina si sposa, troppo presto e con poca felicità, Adrien studia a Parigi e frequenta gli artisti, Étienne diventa poliziotto.


Trent’anni dopo, nel 2017, i tre amici non si parlano più. A raccontare di loro è una quarta voce, quella di Virginie, misteriosa giornalista finita in provincia a scrivere per il quotidiano locale, che del terzetto sa molte cose, sembra essere vissuta nel suo cono d’ombra, osservandolo, desiderando entrarvi, esservi ammessa. Virginie deve indagare sulla carcassa di un’auto recuperata dal fondo del lago di La Comelle, al cui interno ci sono resti umani: era la Twingo rubata in paese il 17 agosto 1994, lo stesso giorno in cui scomparve la diciottenne Clotilde Marais, la ragazza di Étienne, incinta di lui. Allora era riottoso a fare il padre, oggi, nel 2017, è un poliziotto con un male incurabile, a cui il passato ripiomba addosso.

 


 


È il punto cruciale, lo snodo della trama: la macchina dissepolta dal lago e la voce fuori campo di Virginie sono la chiave per comprendere la rottura tra i tre amici e i loro diversi destini. Ma il filo noir che tiene legata la vicenda fino all’ultima riga, tra continui colpi di scena, non ci porta a scoprire assassini, ma i percorsi che portano alla combattuta liberazione da un corpo che ci è estraneo, o che creano l’alchimia tra le persone, nelle tante declinazioni dell’amore, che è un riconoscersi e scegliersi oltre ogni convenzione.
E ritroviamo la Perrin che abbiamo amato in “Cambiare l’acqua ai fiori”, che ai suoi personaggi, piegati, malati, fragili, scomodi, divisi dalla vita come gli amici di Tre, lascia il sogno di “liberare gli adulti che sono stati bambini insieme e subito torna a galla l’infanzia”. Non per essere felici. Ma per provare a guarire.