lunedì 27 luglio 2015

MODA & MODI

Lubiana, una mostra in guanti bianchi


Sorelle Fontana

Toccare il cappottino bon ton firmato da Roberto Capucci color giallo macaron, il plissè fitto nella gonna dell'abito di Mila Schön, le mise da sera di Gigliola Curiel e quelle della figlia Raffaella, con le decorazioni che si rincorrono sulla seta.  Il nido d'ape di un vestito lungo Gattinoni verde pastiglia, le stampe di Pucci, i colori con un filo d'oro di un Missoni fuori dall'ordinario, meno riconoscibile al primo colpo d'occhio.

Mila  Schön: abito da cocktail in seta e plastica
Non capita di frequente nelle mostre di moda di poter sentire la consistenza dei tessuti,  il loro rumore (fruscii e crepitii sono molto diversi, come le fibre che li "emettono"), misurare la pesantezza dei materiali. Anzi, spesso al solo avvicinarsi a uno dei capi in esposizione, si avvertono gli occhi dei custodi delle sale puntati alla schiena. Sacrosanto controllo: sono testimonianze fragili, basta sfiorarle per lasciare un segno inopportuno, che poi va cancellato con operazioni non di semplice lavaggio, ma quasi di restauro.

Mila Schön

E' allora una piacevole sorpresa scoprire che, all'ingresso della mostra Fashion in Motion allo Slovenski etnografski muzej di Lubiana (fino al 19 ottobre) , c'è un contenitore colmo di guanti bianchi da prestigiatore. Il visitatore li può indossare e avvicinarsi senza patemi a una parte degli abiti, collocati su una rastrelliera girevole, quasi come in un negozio. Quello di Lubiana è un piccolo allestimento che racconta la moda italiana dagli anni Sessanta a oggi attraverso capi provenienti soprattutto dalla collezione della Fondazione Sartirana Arte di Pavia.
Sorelle Fontana: seta beige e decorazioni di paillettes, primi anni '50

Ed è proprio col tatto, oltre che con gli occhi, che scopriamo la modernità e l'attualità di un vestito da cocktail di Mila Schön, bianco e argento, con decorazioni di perle, paillettes, canottiglie, ricoperto da una sorta di cotta di plastica trasparente. Il vestito è fluido, come il gioco di linee curve e rette, di cerchi e semicerchi disegnato dalle pietre, ma la "sovracoperta" lo congela in una sorta di effetto spaziale, lo strappa al suo tempo e lo rende senza tempo. Seta e plastica, morbidezza e rigidità, tradizione e sperimentazione. Un contrasto che sintetizza tutta l'abilità della stilista nell'abbinare materiali inconsueti all'interno della sua coerente idea di stile, senza forzature. Quell'abito corto si può indossare subito. E' bastato toccarlo per capirlo e innamorarsene.
@boria_a
Cappottino dorato in seta firmato Roberto Capucci (1984) per il matrimonio della contessa Gloria Visconti

mercoledì 22 luglio 2015

LA STAGIONE

Al Politeama Rossetti di Trieste fa tappa l'Hamlet del Globe Theatre


Il never ending tour di Amleto che tocca Trieste. E un’inedita Ariella Reggio in versione nude look da calendario. I primi assaggi, e neanche centellinati, della nuova stagione del Politeama Rossetti di Trieste sono fatti apposta per ingolosire gli spettatori, in attesa del programma completo.
L'immagine di Piazza Unità, intanto, è già inserita sul sito web del Globe Theatre di Londra, tra la data di San Marino e quella di Lubiana, nella mappa delle rappresentazioni dell’Amleto patrimonio dell’umanità. Un tour mondiale di due anni, che inizia e finisce con le date della vita di Shakespeare: è partito il 23 aprile 2014 proprio dal “Globe”, nel 450° anniversario della nascita del Bardo e si concluderà il 23 aprile 2016 sullo stesso palcoscenico, nel 400° anno della morte, dopo aver toccato 205 paesi (attualmente, attraversati Laos, Vietnam e Cambogia, la compagnia è in Thailandia), con un’unica rappresentazione per ciascuno.
Ieri, nella consueta conferenza stampa estiva di anticipazione della stagione di prosa, l’annuncio è stato dato con grande soddisfazione dal presidente dello Stabile regionale, Miloš Budin e dal direttore Franco Però, col direttore organizzativo Stefano Curti: per l’Italia è stato scelto il Politeama Rossetti di Trieste, che il 16 aprile del prossimo anno ospiterà questa produzione in lingua originale, diretta dal responsabile artistico del “Globe” Dominic Droomgole e da Bill Buckhurst. Un "Hamlet" non mastodontico, perchè pensato per adattarsi ovunque, dalle rovine maya di Copàn in Honduras, a Tromsø oltre il Circolo polare artico, dall’Assemblea dell’Onu al Castello di Praga, non grande ma di grande valore ideale, un Amleto che unisce nel segno dell’arte, portato da un capo all’altro del mondo da due cast di otto “viaggiattori”.



Jennifer Leong in Ophelia nella produzione del Globe Theatre "Hamlet" (courtesy Politeama Rossetti)

Diciotto i titoli annunciati in anteprima del nuovo cartellone, il primo firmato da Però al via in ottobre, mentre si lavora a pieno ritmo per il debutto, domenica 26 luglio al Mittelfest di Cividale, di “Scandalo” di Arthur Schnitzler, la nuova produzione del Rossetti con Stefania Rocca e Franco Castellano, accanto all’esordiente Compagnia Stabile del teatro voluta dalla riforma ministeriale.


"Scandalo" di Schnitzler con Franco Castellano, Stefania Rocca e la Compagnia del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia (courtesy Politeama Rossetti)

Da “Rosso venerdì” del drammaturgo trentino Roberto Cavosi, già andato in scena al festival di Asti, a “La cena” dell’ungherese Ferenc Molnàr (l’autore de “I ragazzi della via Pal”), entrambe produzioni dello Stabile del Fvg dirette da Igor Pison e Fausto Paravidino, Però ha tracciato una “geografia” fisica che spiega insieme le scelte artistiche: guardare ai territori e alle culture da una parte all’altra di Trieste, creando collaborazioni, scambi, messinscene. E impegnare la compagnia stabile sul materiale contemporaneo, com’è dimostrato da un altro titolo in cartellone, “Tre alberghi” dell’americano Jon Robin Baitz, con Francesco Migliaccio e Maria Grazia Plos diretti da Serena Sinigaglia.
Veniamo alle novità. Testi non in lingua italiana e con sovratitoli, oltre all’Hamlet, ci saranno “Autodiffamazione” di Peter Handke, in tedesco e in collaborazione col Goethe Institut, e “Il mercante di Venezia” nell’edizione slovena del SNG Drama di Lubiana, per la regia di Eduard Miler, direttore dello Stabile sloveno di Trieste, da cui lo spettacolo viene “dirottato”. Il direttore Però ha infatti sottolineato la volontà di interscambio, di “dinamicità” tra i pubblici dei diversi spazi: in cambio, allo Sloveno di via Petronio, il Rossetti trasferirà “Quai Quest-Approdo di ponente” di Koltès, produzione dello Stabile toscano Metastasio.
Dei circa sedici titoli di prosa del cartellone, sono stati annunciati “Porcile” di Pasolini, già applaudito a Spoleto e coprodotto dal nostro Stabile col Metastasio per la regia di Valerio Binasco, “Hanno tutti ragione” di Paolo Sorrentino, diretto e interpretato da una Iaia Forte en travesti, nei panni di un cantante napoletano all’apice del successo nella New York anni Cinquanta, e “Molière: la recita di Versailles” con Paolo Rossi, che riscrive questa rappresentazione della vita quotidiana dei teatranti con altre due grandi firme della scena italiana, Stefano Massini e Giampiero Solari.
I fan di Ariella Reggio non resteranno delusi: ritorna al Rossetti, in compagnia di Angela Finocchiaro e Laura Curino, e pure senza veli in “Calendar girl”, dall’omonimo film del 2003: storia di un gruppo di signore agée dello Yorkshire che, per beneficenza, accettano di comparire nude su un calendario mentre svolgono le normali attività domestiche e raccolgono un milione di sterline.


Angela Finocchiaro, Laura Curino e Ariella Reggio in "Calendar girl" (courtesy Politeama Rossetti)

 Musical e danza, ancora, e per il teatro-canzone la riproposta di Magazzino 18 di Cristicchi. Disseminati in un cartellone che - hanno tenuto a ricordare i responsabili dello Stabile - punta a equilibrare e alternare numero di rappresentazioni e generi, “correzione di rotta” rispetto al passato. In arrivo il celebrato Billy Elliot con le musiche di Elton John per la regia di Massimo Romeo Piparo e gran ritorno, dopo sei anni, dello spettacolo dei record di spettatori e d’incassi, “Mamma Mia!”, dal 9 dicembre nella produzione del West End, unica tappa italiana dopo Milano. Nel cartellone danza (che il ministero ha premiato, raddoppiando il contributo concesso: 53mila euro), l’over-settanta Lindsay Kemp emozionerà con le sue “Invenzioni e reincarnazioni”.



"Kemp dances": la grande danza con Lindsay Kemp
Onestà, realismo e concretezza. Questi fattori - ha rilevato Budin - hanno premiato lo Stabile regionale nella scelta di puntare al riconoscimento di “Tric”, teatro di rilevante interesse culturale, secondo solo all’omologo di Genova. C’è la soddisfazione morale del settimo posto assoluto in Italia (davanti anche a enti che hanno spuntato la qualifica di “nazionali”), ma soprattutto l’incremento dei fondi ministeriali. Questo è il vero Tric: più 23,9%, che, tradotto in soldi, significa quasi duecentosessantamila euro in più.
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martedì 21 luglio 2015

IL PERSONAGGIO

Josef Maria Auchentaller, una sala nella pinacoteca di Gorizia


«Il giusto riconoscimento a un artista “adottato” dal territorio». Così la sovrintendente Raffaella Sgubin sintetizza l’omaggio dei Musei provinciali di Gorizia a Josef Maria Auchentaller, l’eclettico viennese, brillante esponente della Secessione, al quale, il 23 luglio alle 18, sarà dedicata una sala permanente a Palazzo Attems Petzenstein, con dipinti e una litografia appartenenti alle stesse collezioni goriziane e tre oli in comodato dall’Archivio Auchentaller. Tra questi, il “Pulpito del Duomo di Grado”, del 1903, una delle opere più significative dell’intera produzione dell’artista, ingiustamente caduto nel dimenticatoio rispetto ai suoi contemporanei.
Pulpito del Duomo di Grado, 1903, Archivio Auchentaller
 

Nel nuovo spazio, nei prossimi mesi, sarà accolta anche la fibbia in argento dorato e smalti del 1901, acquisita dai Musei goriziani nel 2008 dalla Tadema Gallery di Londra, in occasione di un precedente allestimento su Auchentaller, “Un Secessionista ai confini dell’Impero”, sempre a Palazzo Attems Petzenstein. La spilla è attualmente in trasferta alla Casa della Musica di Grado, dove è in corso un altro tributo alla versatilità del viennese, che a Grado morì, nel 1949: in esposizione ci sono ottanta pezzi, tra gioielli e altri oggetti in argento e smalto da lui disegnati, tra i più ispirati della Secessione.
Nell’anniversario dei centocinquant’anni dalla nascita, avvenuta a Vienna nel 1865,Gorizia e Grado (ma c’è un terzo omaggio, la retrospettiva al Museo di Brunico) rilanciano un personaggio legato per molti aspetti alla regione, dove visse e, insieme alla moglie Emma Scheid, operò come pittore e imprenditore. Un esponente dello “Jugendstil” che non conobbe il riconoscimento riservato a Hoffmann, Klinger, Klimt.

Ritratto femminile, 1910, Archivio Auchentaller

Fortune e sfortune, dunque. Queste ultime, almeno dal punto di vista artistico, legate in parte all’abbandono dell’ambiente viennese nel momento in cui era al top della carriera, e al trasferimento a Grado, prima saltuario nel 1902, poi stabile dal 1904, dove la moglie avviò la pensione "Fortino", punto di ritrovo della buona società mitteleuropea. «Purtroppo Auchentaller ebbe poco spazio nella grande mostra dedicata alla Secessione a Palazzo Grassi di Venezia - spiega la sovrintendente Sgubin - e le sue opere appartengono per la maggior parte a collezioni private, della cerchia familiare, non sono conservate nei musei austriaci. Questi aspetti possono spiegare la minor fama».
Auchentaller da Vienna si era trasferito a Monaco di Baviera e, tra il 1892 e il 1896, già sposato con Emma dal 1891, era entrato in contatto con la Secessione monacense, collaborando alla rivista “Jugend”. Dopo un viaggio in Italia tra il 1896 e il ’97, rientrato a Vienna aveva aderito alla Secessione viennese, con incarichi di punta nel suo comitato organizzativo.
Era pittore, arredatore, creatore di oggetti di design, ma anche splendido illustratore, in questo interpretando ai più alti livelli la “non gerarchia tra le arti” che fu di molti esponenti dello Jugendstil.


Fibbia in argento dorato e smalti, 1901, realizzata da Georg Adam Scheid su disegno di Auchentaller
 

Tra il 1900 e il 1901, Auchentaller realizzò raffinate copertine e illustrazioni per la rivista “Ver Sacrum”: l’ottavo numero della quarta annata è interamente dedicato alle sue opere grafiche e nel campo delle arti applicate. Dal 1895, inoltre, per l’azienda viennese Georg Adam Scheid, produttrice di bijoux e oggettistica preziosa, disegnò gioielli e altri accessori. Progettava anche tessuti e manifesti pubblicitari per ditte austriache, rivelandosi un cartellonista di talento.
Il culmine della sua carriera artistica, quando aveva già una fama consolidata specialmente come ritrattista, è rappresentato dal grande fregio “Gioia, bella scintilla divina” del 1902, realizzato, all’interno dell’edificio della Secessione, per la “Mostra di Beethoven”. Un’opera d’arte globale, in cui ogni singolo apporto concorreva a esaltare l’insieme, cui parteciparono Klimt, Klinger, Hoffmann. Il fregio di Auchentaller è collocato nella sala laterale di destra, vis-à-vis a quello di Klimt, nella laterale di sinistra.


Il trasferimento a Grado lo accettò, forse lo subì. Si fece coinvolgere marginalmente nella gestione del “Fortino”, con il pensiero sempre rivolto a Vienna, dove rientrava regolarmente d’inverno. Ma a Grado, nel 1906, regalò il manifesto simbolo della località balneare nella stagione della Belle Époque, Seebad Grado. Österreichisches Küstenland, uno dei pezzi più importanti della sua produzione.


Lontano dalla capitale, i suoi contatti con gli ambienti artistici andarono diradandosi e la sua produzione si fece più intimista, legata al ritratto e ai paesaggi lagunari. Nel ritiro gradese, si accentuano contraddizioni personali, insoddisfazioni, probabilmente una dipendenza economica dalla famiglia del suocero Georg Adam, che era stato un committente (per la Musikzimmer della sua villa, nel 1898, aveva dipinto e creato arredi), ma che guardava con scetticismo l’indipendenza delle scelte artistiche del genero.
Un artista riservato, modesto all’eccesso, come sottolinea Robe
rto Festi nel saggio per il catalogo della mostra goriziana del 2008.
Nel 1905, quando lascia la Secessione, commentando l’entusiasmo imprenditoriale della moglie per il suo “Fortino”, Auchentaller scrive: «Ho paura se penso a quando verrà il momento in cui dovrò dire la mia e prendere partito. Da un lato volontà, energia, aspirazioni, dall’altra un povero pittore incerto e intimidito».

Dopo le mostre a Gorizia nel 2005 (Belle Èpoque imperiale) e nel 2008, seguite da quelle a Bolzano e Vienna, la sala che si inaugura domani nella pinacoteca suggerisce la volontà di proseguire nel percorso di rivalutazione e approfondimento critico di Auchentaller. Artista esiliato ai confini dell’impero, in quella Grado dove è sepolto insieme alla moglie, ma tassello indispensabile, e per buona parte da scoprire, nell’esperienza artistica viennese.
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Cividale, 1925, Archivio Auchentaller

MODA & MODI

Le dita dei piedi dividono i sessi


Uomini scoprono, donne ricoprono.
Mentre i sessi si mescolano nelle altre parti del guardaroba, le dita dei piedi li dividono. Infuria la polemica sui maschi in completo e infradito, proposti da Marc Jacobs per la prossima estate (e non solo da lui, con la variante della ciabattona da piscina) che difficilmente avvisteremo, anche nelle capitali della moda. Contraddizione in termini: potrebbero piacere al popolo variegato della blogosfera, ai “creativi” di professione, che però al vestito intero con camicia spesso preferiscono soluzioni più fusion, meno ingessanti. Il maschio ingiaccato che si avventura a scoprire l’estremità, il metrosexual trasgressivo del piede, di solito non va al di là di un pantalone con balzina alla caviglia e di un mocassino senza calza, all’interno del quale le dita dei piedi sono accuratamente riposte. È pensabile attraversare il caos e lo sporco delle megalopoli della moda di tutto il globo in flip flop senza ritrovarsi incrostazioni sospette ovunque dopo pochi metri? Esibire un tallone color asfalto all’estremità di un bel completo da executive?


Marc Jacobs primavera/estate 2016 (from The Cut chat room)


Per lei, al contrario, il piede si riscopre pudico. Ed era ora dopo la sbornia di stivali country e sandali da schiava. Il trend è già virale: ballerine appuntite, con lieve (o inesistente) tacco da allacciare alla caviglia. Lanciate dalle griffe della scarpa, l’hanno adottato subito le solite note della rete, ma i grandi magazzini non sono stati tempestivi nel rifornire gli scaffali della versione cheap. Si rifaranno in autunno, perchè le urban-ballerine (lace-up flats) sono calzature a cavallo tra le stagioni, per quando l’estate non è torrida e l’autunno non punge, si portano indifferentemente con gonne lunghe o corte, shorts e pantaloni, con il vantaggio di essere più femminili, eleganti, di celare un piede non perfettamente curato e di adattarsi a occasioni diverse, dove infradito, ciabatte, schiave e cow-girl non sarebbero gradite. 

Lace-up flats Christy firmate da Aquazzura

Passato il gran caldo, una soluzione già in auge a latitudini diverse dalle nostre solo le scarpe chiuse, stringate, col calzetto corto. Proprio il contrasto tra la scarpa piuttosto maschile e la gonna o il vestito, addolcisce l’insieme, lascia perfetto il piede da mattina a sera e permette di spostarsi senza patemi quando la pioggia è in agguato.
Tra un uomo che adotta le ciabatte da spiaggia e una donna che sceglie la scarpa con lacci, non c’è partita: la bilancia pende dalla parte di lei.
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Maschili, stringate, con calzetto: soluzione ideale se il caldo non è torrido



lunedì 20 luglio 2015

IL PERSONAGGIO

Elio Fiorucci a Mittelmoda a Gorizia
Un giurato che fiutava sempre il nuovo



Elio Fiorucci giurato al fashion contest Mittelmoda a Gorizia


A Gorizia era di casa da anni, ospite fisso nelle giornate del concorso per designer emergenti Mittelmoda. Elio Fiorucci era stato invitato per la prima volta dalla Fiera nel 1995 a presiedere la giuria, in quell’anno composta anche dall’attrice Clarissa Burt e da Miss Cina. Era arrivato a Gorizia con la sua assistente, Francesca Beta, che cinque anni dopo diventerà nota al grande pubblico per essere entrata nel cast del primo Grande Fratello.
Per dieci anni, fino al 2010, Fiorucci non aveva mai trascurato di seguire Mittelmoda, primo concorso di moda nato in regione. Era entusiasta di conoscere il lavoro dei nuovi talenti, le loro fonti di ispirazione, le loro tecniche, aveva un fiuto inarrivabile nel capire chi, tra loro, sapeva guardare avanti, intercettando i gusti, gli orizzonti, la voglia di futuro dei suoi coetanei. Nel 2007 e 2008 aveva assegnato un premio speciale nell’ambito di Mittelmoda, chiamato Love Therapy, dal suo ultimo progetto, simboleggiato dai due nanetti rossi, che lanciava uno stile più intimista e semplice, imbevuto di messaggi positivi. Nel 2010, a Milano, non aveva voluto mancare alla presentazione nazionale della kermesse goriziana, durante la Fashion Week, accanto al presidente del concorso Matteo Marzotto, a Mario Boselli, allora presidente della Camera nazionale della moda e a Maurizio Tripani, segretario del Mittelmoda international Lab. «Gorizia ha coraggio - era stato il suo commento, dopo la passerella in piazza Vittoria nel 2009 - poiché qui non sfilano le collezioni commerciali: qui sfila il nuovo».
Il nuovo faceva parte del dna di Fiorucci. L’aveva sempre cercato, annusato, anticipato. Dissacrante, antitradizionalista e geniale, non solo con il suo stile, ma anche con i suoi colori e la sua comunicazione, ha influenzato la moda degli anni Ottanta come pochi altri.
Nato a Milano il 10 giugno 1935, a soli 17 anni comincia a seguire l’attività del padre, che possedeva un negozio di pantofole nel centro di Milano. Dopo essersi messo in proprio nel 1962, nel 1967 apre il suo negozio più famoso, in Galleria Passarella a Milano, praticamente a San Babila, nel cuore borghese della città. La sera dell’inaugurazione arriva anche Celentano, su una Cadillac rosa, con il suo clan. È il primo concept store italiano, assimmetrico e su più livelli, affacciato sul mondo e profumato di patchouli, per chi ama vestire informale e originale, e conoscere in anteprima le novità di Londra e New York. Un negozio - dice Fiorucci - dove i giovani possono entrare per curiosare e incontrarsi, senza sentirsi obbligati a comprare.
Nel 1970 Fiorucci diventa brand di produzione industriale, con i due angioletti vittoriani reinterpretati dall’architetto Italo Lupi, ancora oggi un’immagine inconfondibile degli anni Settanta, della voglia di libertà e di amicizia, della rottura degli schemi. Nel ’74 apre un mega-store in via Torino, tra colori flou, t-shirt stampate, accessori di plastica e le hit importate da Inghilterra e Usa. Le campagne pubblicitarie firmate da Oliviero Toscani sono un messaggio diretto, coinvolgente, mai volgare: è nato il “fioruccismo”.
Accostamenti di colori shock, un tocco di pop art importata dall’America, materiali e accessori inusuali e ironici come il lattice e le celebri manette di peluche rosa: il visionario Fiorucci, ’inventore’ dei jeans che fasciano il sedere alle ragazze (un milione 200 mila pezzi venduti in Europa), non smette mai di stupire. La sua fama varca i confini nazionali e, nel 1976, inaugura il Fiorucci Store a New York, disegnato da Ettore Sottsass. Colori forti, ambiente giovane, gusto italiano e profumo di caffè: Andy Warhol se ne innamora. L’anno seguente è Fiorucci a organizzare la serata opening della celebre discoteca Studio 54 (c’era pure una giovanissima Madonna), che diventerà crocevia di artisti e personalità della scena americana, Warhol ma anche Bianca Jagger, Grace Jones, Paloma Picasso. Poi sbarca a Beverly Hills a Los Angeles e il suo nome e la sua filosofia si consolidano su entrambe le coste americane.
Nel 1999 il negozio-museo in Galleria Passarella, nel frattempo decorato con i graffiti dell’amico Keith Haring, poi messi in vendita, viene acquistato dalla società giapponese Edwin International, e nel 2003 è ceduto alla catena low cost svedese H&M. È in quello stesso anno che nasce la linea ’Love Therapy’. «Ho sempre pensato che qualunque attività commerciale o imprenditoriale, anche la più concreta, debba sempre avere al centro dei valori spirituali profondi che i consumatori sono in grado di percepire a pelle. Questa base spirituale concorre a rendere etico il business», aveva sintetizzato.
Animalista convinto, era diventato vegetariano in tarda età («Io non mangio i miei fratelli»). Lo scorso anno, in una lettera indirizzata al ministro Boschi, chiedeva di introdurre nella Costituzione il principio del rispetto per gli animali. «Cerchiamo di tradurre in un codice deontologico le regole di una convivenza armoniosa, di una condivisione equa, mettendo nero su bianco i nostri doveri verso animali, natura, ambiente, verso il prossimo. Riscopriremmo così il valore della parola empatia». L’hippie della moda non aveva mai dimenticato l’etica: forse questa è stata la chiave del suo successo.

@boria_a

sabato 11 luglio 2015

E' ITS 2015 A TRIESTE
 
Alla tedesca Paula Knorr la quattordicesima edizione del fashion contest




La collezione di Paula Knorr, vincitrice di ITS 2015, fotografata a Trieste da Andrea Lasorte per Il Piccolo

TRIESTE  Il futuro da ieri notte è nelle mani della tedesca Paula Knorr, che ha vinto il premio più importante, ITS Fashion Award (10mila euro) alla quattordicesima edizione del concorso per giovani talenti del design, l’ultima all’ex Pescheria, prima del trasloco annunciato dal sindaco Cosolini nel Portovecchio riconquistato alla città. Un progetto, quello della ventiseienne Paula, che aveva convinto subito la direttrice di ITS, Barbara Franchin, già in fase di elaborazione, quando il portfolio era arrivato a Trieste. In fondo, l’ha detto anche Odile Cullen, curatrice del Victoria & Albert Museum di Londra e componente della giuria: a volte la storia, l’idea che c’è dietro gli abiti, è l’elemento più importante per la vittoria.

 
Quella di Paula va alla ricerca dei pensieri, dei sentimenti, della natura più segreta della donna. Parte da alcuni video, da immagini, per arrivare al tessuto, alla fisicità. La sua è una collezione tutta giocata sul contrasto tra la nudità, simulata da una guaina di lycra color carne, e il movimento creato da scampoli di tessuto lucido - rossi, viola, argento, prugna - che si avvolgono intorno al corpo in abiti, top e pantaloni fluidi, come se un turbine di vento li spingesse a incollarsi alle forme, valorizzandone la natura più riposta.

 
Vince, meritatamente, l’Otb Award (5 mila euro e uno stage nella holding di Renzo Rosso) e il Mediateca Deanna Award (altri 3mila euro) la giapponese Yuko Koike, con una collezione donna caleidoscopica, dove tradizione artigianale e avanguardia si traducono in gonne, top, maglioni, vestiti, soprabiti totalmente lavorati all’uncinetto e con inserti di plastica. La giovane Yuko si ispira ai colori dei giardini nipponici, li rende esplosivi, li addiziona, fino a farli diventare una palette da pop art. In questo progetto la tecnica lascia sbalorditi, ma non prende il sopravvento sull’armonia dell’insieme, sulla poesia con cui viene sottolineato il corpo femminile: una collezione di donne dalle tinte forti, in bilico con ironia tra passato e futuro.



La collezione di Yuko Koike, vincitrice dell'Otb Award a ITS 2015
 


L’Eyes on Talents Award (3mila euro e una promozione sulla piattaforma dedicata ai giovani creativi) se l’è aggiudicato Jenifer Thevenaz-Burdet, con una collezione sportiva maschile pulita ed essenziale, già perfetta per il mercato. Il futuro? Comincia da un contenitore, secondo la giovane svizzera, che spedisce i suoi “X-treme conquistadors” nei luoghi impervi del mondo. Maschi pronti a raggiungere campi base tra le vette, a esplorare, scalare, guadare, dormire all’adiaccio accessoriati con zaini e sacchi a pelo che si trasformano in giubbotti protettivi, a prova di vento, freddo e pioggia, realizzati con materiali iper-tecnologici. Uomini esploratori, bianchi e neri, dal piglio avveniristico e l’attenzione al dettaglio: vestono bermuda dal taglio perfetto sopra leggings finalmente non indecenti, guanti e galosce con zip dalle tinte a contrasto, pronti a sfidare la natura senza smarrire una sorta di grazia estrema.
 
Il Vogue Talents Award proietterà la finlandese Elina Määttänen sul sito e sull’edizione di settembre del magazine di moda. La sua è una collezione femminile che nasce da un complicato incrocio tra l’estetica giapponese, riconoscibile nei tagli trasversali a kimono dei suoi capispalla e nell’utilizzo della tintura shibori, e la struttura di una tuta aeronautica russa, che alla designer serve per darsi dei limiti, un perimetro entro il quale sperimentare. Il risultato non è facilmente comprensibile allo spettatore, almeno al primo impatto: una tribù di femmine Jeti, con doposci pelosi alle estremità, calate in tute e vestaglie che sono un campionario dell’ottima capacità manuale dell’autrice, meno del suo equilibrio tra sperimentazione, gusto e vendibilità.

 
Incomprensibilmente a bocca asciutta, forse perchè già pluriosannato in patria (e la missione di ITS è fiutare il nuovo piuttosto che confermare il già noto...), l’inglese Richard Quinn, venticinquenne, fisico e ispirazione che ricordano quelli di un giovane Alexander McQueen. La sua collezione di haute couture, “cracked couture”, come la definisce lui stesso, si diverte a fare a pezzi due modelli distinti, a strapparli a metà e a ricomporli in un abito nuovo. Tessuti dipinti personalmente a mano danno a questi abiti da sera una corposità solenne ed aerea al tempo stesso: un’esplosione di fiori dai colori intensi e le pennellate decise, gialli, rosa, bluette, verdi, percorrono abiti lungi, al ginocchio, mantelli, uno più desiderabile dell’altro, da cui esce un corpo femminile anni Cinquanta riportato ai giorni nostri con delicatezza, esaltato con intelligenza.

 
Poesia e tecnologia, manualità e contaminazione tra culture, hanno siglato quest’edizione di ITS e dato forma a quel “futuro” che era il tema proposto ai giovani designer. Nella Pescheria riconvertita per una notte in “astronave” verso nuovi mondi, Victoria Cabello si è riappropriata del microfono (ceduto nel 2014 ad Anita Kravos per gli impegni di X Factor) e ha come sempre condotto con adrenalina la serata, giostrandosi tra sponsor e autorità, ringraziamenti e passerelle. Poi, l’ultima notte di ITS nel Salone degli Incanti, è stata solo per i talenti, vincitori e (mai) sconfitti, e per i loro sogni. Che tutti, sulla passerella di Trieste, hanno costruito un primo tassello del futuro.

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ITS 2015 A TRIESTE: dieci collezioni in passerella

Sabato 11 luglio, gran finale del fashion contest
Tutti pazzi per il Giappone, o quasi, i finalisti fashion di ITS 2015. Mai come quest’anno spuntano dappertutto kimoni e samurai, la tintura shibori e la pittura nipponica, anche lontano dal Sol Levante e con esiti spiazzanti. Il ponte tra passato e futuro, però, si costruisce intorno a due concetti: corpo e materiali. La figura umana non è più un confine, un perimetro o una consistenza definita: si dilata, si moltiplica, si comprime e si espande per adattarsi all’ambiente circostante, per inglobarlo o difendersene.


Le soluzioni più innovative e futuristiche nascono da questa tensione, dall’esigenza di ogni designer di segnare, di rapportarsi con lo spazio intorno. Nelle tecniche emerge forte, invece, il richiamo alla tradizione: tutti, nei loro progetti, mettono enfasi sul “fatto a mano”, “tessuto a mano”, manipolato secondo arti e sapienze artigianali antiche. Ci tengono a far sapere che hanno introitato un’eredità culturale e che la sanno armonizzare con il loro presente.
 
Il futuro sta dentro uno zaino per la svizzera Jenifer Thévenaz-Burdet. I suoi sono “X–treme conquistadores”, come s’intitola la collezione, già pronta per il mercato: donne e uomini muniti di sacchi a pelo che diventano giacche, di borse pronte a riconvertirsi in cappotti, di contenitori tecnici, funzionali, essenziali, in grado di riparare il corpo e di dargli un rifugio a prova di gelo. E una protezione techo, e “playful”, ludica, è anche quella che fornisce la sud-coreana Yunseo Choi al suo uomo-uovo: le giacche e i giubbotti sono dotati di strutture aeree fatte di tubicini ed elastico, che hanno lo stesso effetto anti-shock di quelle costruite dai bambini con le cannucce, negli esperimenti a scuola, per riparare un uovo dalle cadute.

 
Aprono la passerella Far East-oriented le guerriere di Quoï Alexander, americana, che vestono armature di cotone, pelle, corda. Un mix di fibre intrecciate, assemblate, sfrangiate, sovrapposte con manualità sorprendente: dice di ispirarsi alla confezione dei cestini giapponesi, Quoï, e invita esplicitamente l’osservatore a interpretare i suoi pezzi, che, tra etnico e couture, scivolano verso il costume teatrale. L’accento sull’esecuzione lo pone anche la strana coppia creativa formata da Polina Yakobson, tedesca, e Christine Charlebois, canadese: otto donne samurai che, seguendo i codici dell’onore e della dedizione, ma accessoriate per conquistare il presente, indossano capispalla e pantaloni di seta, pelle e maglia tessuti al telaio, annodati e cuciti a mano.

 
Più comprensibile, forse perchè nel suo dna, è il Giappone di Yuko Koike, richiamato nella citazione del kimono e dei colori della pittura nipponica: una coloratissima collezione di maglieria con applicazioni di fiori in plastica, dalla venatura pop, dove la lavorazione tradizionale si fa avanguardia senza squilibri. Fulminata dal fascino orientale, infine, la finlandese Elina Määttänen azzarda un matrimonio (contro natura?), tra le linee diagonali del kimono e una tuta aeronautica russa, tentando di far convivere la morbida estetica giap, accentuata dalla tintura shibori dei tessuti, con la funzionalità militare sovietica.


Nodi, pieghe e intrecci, rigorosamente handmade, creano un effetto tridimensionale, ma tra il senso di “calma” e il “caos primitivo” che Elina si propone di trasmettere, la bilancia pende verso il secondo.
Decisamente maschia la collezione di Attila Lajos, ungherese, che immagina un Leonardo DiCaprio versione maudit, e gli disegna un guardaroba tutto denim, su cui sperimenta al limite del maltrattamento pantaloni strappati e lunghi gilet con applicazioni di Swarovski e stampe. Lavora invece sul corpo femminile la tedesca Paula Knorr: una tuta di lycra color carne simula la nudità, su cui pezzi di tessuto lucido e colorato paiono appoggiati da un turbine di vento.
 

Ci riconciliano con l’idea di couture, infine, due collezioni che non odiano le donne. Grafiche e scultoree come installazioni quelle dell’americana Kim Shui, definite da blocchi di colore, curve e intersezioni di linee. Morbide, floreali, dal gusto retrò le signore dell’inglese Richard Quinn, che - dopo tante improbabili guerriere e astronaute - svettano come apparizioni da abiti da sera e soprabiti in tessuti ricamati, dipinti a mano, stampati. Richard la chiama “cracked couture”, perchè finge di strappare i suoi modelli e di ricomporre diversamente i pezzi originari, ma non c’è niente di spezzato in questa giovane alta moda, solo gusto e poesia.
twitter@boria_a



Cracked Couture di Richard Quinn a Trieste


venerdì 10 luglio 2015

IL PERSONAGGIO

Demna Gvasalia a Trieste, giurato a ITS 2015 (10-11 luglio): "Non mi piace come il fashion system impone le sue regole"


Demna Gvasalia

 


Undici anni dopo il georgiano Demna Gvasalia ritorna a Trieste con lo stesso modo di lavorare in testa: prendere un pezzo di abbigliamento classico, maschile o femminile, scomporlo e poi reinterpretarne dettagli, stampe e forma in chiave moderna. Allora, nel 2004, applicando questo criterio a una collezione uomo dal titolo singolare, "Fully dressed without a smile", vestito di tutto punto senza un sorriso", vinse il "Fashion collection of the year", il premio più importante di ITS Three. Uomini con bei giubbotti di lana e pelle, trench e camicie con un accenno di sparato, pantaloni morbidi sui fianchi e affusolati ai polpacci: il tutto decostruito e ricostruito fino a creare uno stile metropolitano, aggressivo ma anche morbido, ironico.
Il successo ha aperto a Demna, uscito dalla Royal Academy of Fine Arts di Anversa, le porte degli uffici stile di Martin Margiela e Louis Vuitton, dove si è fatto le ossa ma ha anche capito quanto possa essere stritolante il calendario del fashion system, con le sue collezioni obbligate ogni quattro mesi.
Il sorriso era scomparso anche a lui. Così, un paio d'anni fa, con alcuni giovani designer all'epoca inseriti in altri marchi, Demna ha deciso di prendersi tempi diversi e dar vita a un nuovo brand, Vetements, con base a Parigi, che, ancora una volta, rilegge l'abbigliamento classico sballandone proporzioni e accostamenti, per vestire un popolo giovane e underground. Vetements - vestiti, appunto, perchè il focus è sui capi non sulla griffe - è stato selezionato quest'anno tra i finalisti del LVMH Young Fashion Designer Prize e nei mesi scorsi si è conquistato i titoli dei magazine specializzati proponendo l'ultima collezione, autunno-inverno 2015, nel sexy club gay Le Depot, a Parigi, una location efficace per rappresentare i lati controversi della moda. Così Demna, quest'anno giurato a ITS 2015, ci racconta le sue scelte.
Quando lavorava per altri brand, che cosa non le piaceva del fashion system?
«Il modo in cui impone le sue regole. Tutti le devono seguire. Semplicemente non ero d'accordo».
La pressione e i ritmi serrati delle collezioni hanno finito per bloccarla?
«No, anzi. La pressione per me ha funzionato all'opposto, ha stimolato la nascita di un'idea creativa personale e la voglia di metterla alla prova. E mi ha motivato nella decisione di dar vita a un brand tutto mio».
Quindi "Vetements" è nata dall'esigenza di lavorare secondo i suoi ritmi?
«Direi piuttosto dall'esigenza di esprimere me stesso senza condizionamenti e da un senso di liberazione».
Lei è alla guida di un gruppo di designer che vogliono restare anonimi. C'è l'idea di privilegiare la "squadra" piuttosto che i singoli?
«Ho fondato personalmente il brand e ora ne ho la direzione creativa insieme al mio team. Alcuni si occupano del design, gli altri dello sviluppo del prodotto e delle vendite. Siamo in pochi, quindi è inevitabile che tutti facciano un po' tutto. La squadra è composta da gente giovane e divertente e funziona. Ma nessuno si sente a suo agio a essere ripreso o fotografato, così per noi è stata una scelta del tutto naturale rimanere sullo sfondo del nostro lavoro, che in ogni caso deve parlare da solo».
Per lei cos'è la creatività? E va d'accordo col business?
«Creatività per me significa avere idee che eccitano e motivano lo sviluppo e il desiderio. E non solo è possibile ma anche molto facile combinare creatività e business, quando le idee si combinano con il desiderio».
Come lavora il gruppo di Vetements per una nuova collezione?
«La nostra squadra si basa sulla discussione e il confronto. Parliamo molto, lavoriamo con statistiche e facciamo ricerche teoriche su che cosa piace indossare alla gente che ci piace e che prendiamo come punto di riferimento. Analizziamo come si veste e come possiamo intervenire su questi elementi per creare un nuovo prodotto».
E l'ispirazione da dove vi viene?
«Dalla strada, dalla gente intorno a noi, dalla gente reale, dai nostri amici. E poi da Internet, Instagram, Facebook, dalle file nei supermercati, dai codici del vestire».
Avete in mente una donna o un uomo particolari quando disegnate?
«Cool, naturalmente».
È vero che le piacerebbe collaborare con Ikea?
«Oh, l'ho detto molto tempo fa... I nostri desideri cambiano e si evolvono con il tempo. Adesso penso piuttosto a una collaborazione con Walmart. Ma su questo progetto davvero non posso sbilanciarmi di più».
Che cosa le ha lasciato il lavoro da Martin Margiela e Vuitton?
«Esperienza preziosa e maturità professionale».
Si ricorda quella notte a Trieste, nel 2004, quando vinse il premio più importante di ITS Three?
«Certo: una gioia infinita, motivazione forte e molti vodka-Red Bull.
Da giurato, che cosa cercherà nelle collezioni dei finalisti?
«Individualità».
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"Fully dressed without a smile" la collezione con cui Demna Gvasalia ha vinto ITS Three a Trieste nel 2004 (foto Andrea Lasorte per Il Piccolo)

giovedì 9 luglio 2015

L'INTERVISTA


Evan Handler a Trieste, un protagonista di Sex&TheCity a caccia di ricette


Al Caffe' San Marco con Evan Handler 



Chi ha amato “Sex & The City” non può dimenticarlo: Harry Goldenblatt, secondo marito di Charlotte, il calvo, irsuto, simpaticamente volgare avvocato ebreo che si siede nudo sugli immacolati divani dell’appartamento di Park Avenue, ma alla fine, dopo rotture, divagazioni, ritorni e una conversione religiosa (di lei), espugna il cuore della reginetta wasp. Harry Goldenblatt, al secolo Evan Handler, attore newyorkese che ha alle spalle una lunghissima carriera televisiva in serie di successo, da Law & Order a Six Feet Under, da West Wing all’ultima, “Californication”, martedì 7  e mercoledì 8 luglio era a Trieste, tappa delle vacanze estive insieme alla moglie italiana, Elisa Atti, chimico, e alla figlioletta Sofia di otto anni e mezzo.
Una due giorni “gastronomica”, quella triestina, alla ricerca di vecchie ricette che potrebbero presto confluire in un libro. Evan ne ha alle spalle già due, di tutt’altro tenore, in cui racconta la sua battaglia contro la leucemia, poi l’amore e la rinascita.
Sorridente, affabile (pur reduce da un piccolo intoppo sanitario che l’ha portato fino a Cattinara), seduto a un tavolo del Caffè San Marco insieme alla moglie, alla vitalissima Sofia e all’assessore comunale Laura Famulari, amica di famiglia, accetta di fare una chiacchierata prima di lasciare Trieste. Con il ricettario di Maria Stelvio ricevuto in regalo.
«Sono un cittadino italiano - esordisce - che non parla italiano e che non sa niente, o pochissimo dell’Italia, anche se con mia moglie e mia figlia ci vengo ogni anno, d’estate, per un paio di settimane. Visitiamo la famiglia e approfittiamo per fare un giro, due anni fa siamo stati in Puglia. Prima che nascesse Sofia venivamo anche più spesso, almeno tre volte l’anno. Scrivere un libro di ricette originali di diverse città e regioni mi è sembrata una bella scusa per descrivere l’Italia attraverso gli occhi di uno straniero, che è italiano ma è pur sempre uno straniero. Tutto è un po’ cominciato con la cucina di mia suocera...».
Ce lo racconta?
«In realtà quel che so dell’Italia l’ho imparato più da lei e da mio suocero, che da mia moglie. Elisa è un’italiana atipica: è di Molinella in provincia di Bologna, si è laureata a Bologna, poi è andata a Londra, quindi a New York, dove ci siamo conosciuti. Mia suocera fa una pasta, con lo zafferano e il brandy. È strano, ma a New York ho incontrato uno chef che cucina un risotto con gli stessi ingredienti. Gli ho chiesto informazioni e mi ha detto che la ricetta l’aveva imparata da sua nonna, che beveva e utilizzava in cucina il brandy Stock. Ed eccomi qui, ospite di Aldo Stock e del suo “Albero nascosto”».
Prima volta a Trieste?
«Proprio così. La città è molto bella, ma purtroppo sono stato sfortunato. Per un piccolo incidente, ho trascorso metà del mio soggiorno, una giornata su due, all’ospedale di Cattinara. Beh, devo dire davvero nel posto più fresco della città. Niente di grave, ma non ho potuto assaggiare molto della cucina locale. Abbiamo cenato alla Tavernetta: delizioso, ma alla fine abbiamo scelto piatti diversi. E in genere non ho trovato traccia di ricette col brandy Stock».
Di solito sono gli italiani che vivono in America a voler diventare anche americani...
«Per loro è molto più dura. Io, invece, sono italiano per matrimonio. Elisa ed io ci siamo conosciuti nel 2002, un anno dopo ci siamo sposati. Da voi la legge è più semplice: non occorre abitare in Italia, non occorre neppure parlare la lingua...».
Amore a prima vista?
«Da parte sua sì, almeno così dice. Ci siamo incontrati a un party di mio fratello. Lei era ospite, attraverso un amico comune. Viveva a New York e con un budget limitato. Non sapeva niente di “Sex & The City”. Certo, aveva sentito parlare della serie, era un fenomeno popolare, ma non conosceva gli attori. Dopo quella volta, ci siamo incontrati un po’ di volte, Elisa è venuta in California, è così è nato tutto».
Non deve essere stato facile gestire tutto quella popolarità...
«In effetti si è verificata una coincidenza piuttosto divertente. Ho recitato in Sex & The City nelle ultime due stagioni. Quando è uscito il primo episodio, Elisa ed io siamo usciti insieme per la prima volta a New York. Era incredibile: la gente si radunava, urlava, c’erano donne che si mettevano in ginocchio. Dovevamo andare a teatro e non riuscivamo ad attraversare Times Square. Per Elisa è stata un’esperienza nuova, ma anche piacevole. Non era disturbata dalla gente, pensava fosse normale».
Gelosa?
«Io la prendo in giro. Dico: proprio nel momento in cui potevo avere tutte le donne del mondo, ho trovato te. Ma sono stato fortunato, ho fatto la scelta giusta».
Mai infastiditi dalla pressione dei fan?
«Beh, non sono Jack Nicholson. Una volta cenavamo nello stesso ristorante e ho visto che lo facevano uscire da una porta secondaria. Diciamo che noi viviamo i privilegi della fama: non abbiamo mai il problema di dover riservare un tavolo. La gente non mi impedisce di vivere, mi dimostra solo affetto e ammirazione. A volte i fan sono felici per il solo fatto di vedermi, nemmeno si avvicinano. E io non mi sottraggo mai. Foto, dediche, dico sempre di sì, a meno che non siano persone moleste».
Da attore non era spaventato che il personaggio di Sex & The City le rimanesse appiccicato addosso?
«Effettivamente sì, un po’ lo ero. Ma è normale quando reciti in serie che hanno un tale successo. Mi è capitato anche per il ruolo in “Californication”, amico e agente letterario del protagonista, David Duchovny. Sta a te trovare qualcosa di nuovo per cambiare il modo in cui gli spettatori ti vedono».
Nel suo profilo twitter ha scritto “nudist television star”...
«Nei primi venticinque anni di carriera posso aver baciato un’attrice due volte. Dal nudo integrale di Sex & The City, credo di aver recitato senza vestiti e di aver finto più orgasmi di chiunque altro in televisione».
Tra voi del cast di Sex & The City siete ancora in contatto?
«Ormai tutti abbiamo famiglia... In realtà siamo più in contatto con gli scrittori e i produttori della serie. E, personalmente, con Mikhail Baryshnikov. Mia figlia è cresciuta con i suoi video, quando è venuto a Santa Monica, gli abbiamo chiesto se Sofia poteva incontrarlo. Mia moglie, che si tiene sempre lontana dal mondo dello spettacolo, questa volta ha voluto andare anche lei. Siamo diventati amici».
Lei chiama Sofia “la bambina del miracolo”...
«Mi sono ammalato di leucemia a ventiquattro anni, ho subito un trapianto autologo, con le mie stesse cellule, e vari cicli di chemioterapia. Sofia è stata concepita, naturalmente, in un periodo in cui venivo considerato “non fertile”. Più miracolo di così...».
Infatti, il futuro ricettario sarà il suo terzo libro...
«Nel primo, “Time on fire. My comedy of terrors”, racconto la malattia, gli ospedali in cui sono stato, il rapporto con i medici, i familiari, le cure, il ritorno al lavoro. Nel secondo, “It’s only temporary”, è solo temporaneo, con “le buone e la cattive notizie di essere vivi” per sottotitolo, parlo di uno che, nei suoi vent’anni, sopravvive a una malattia mortale, e poi nei trenta e quaranta va alla ricerca dell’amore. Racconto l’incontro con mia moglie e la nostra storia».
Il suo prossimo progetto?
«Comincio a girare subito, appena torno a Los Angeles, nella miniserie in dieci episodi “American Crime Story” sul caso di uxoricidio che vede imputato O.J. Simpson. Sono il celebre avvocato Alan Dershowitz, che lo difese. Nella serie recitano anche John Travolta e Cuba Gooding Jr, che interpreta O.J., ed è coprodotta da Ryan Murphy di “Glee”. Qui, prometto, sarò vestito in modo appropriato».
Cosa le è rimasto di “Sex and The City”?
«La soddisfazione di aver fatto parte non solo di una serie popolarissima, negli anni in cui andò in onda, ma che rappresentò un profondo cambiamento del costume. Per la prima volta le donne vivevano e parlavano liberamente della loro sessualità. Cambiava un’epoca in televisione, non solo in Italia, anche negli Stati Uniti».
twitter@boria_a