domenica 29 novembre 2015

 IL LIBRO

Il magico potere del colore. Parola di Jean-Gabriel Causse



Sapevate che si fa più sesso in una stanza da letto con le pareti rosse? Che se vi vestite di rosso e fate l’autostop avrete più probabilità di trovare un passaggio in auto, e otterrete mance più generose se siete una cameriera? Non si tratta di sensazioni, ma di esperimenti su cui si esercitano gli studiosi di colori: tra donne vestite con magliette rosse, blu e verdi, gli uomini intervistati rispondono che preferirebbero incontrare le prime e che sarebbero pronti a spendere molti più soldi a un ipotetico appuntamento con loro.
 
Kelly Le Brock in "Woman in red"


Fascino della woman in red? Proprio per niente, perchè messi al corrente dell’obiettivo del sondaggio, i signori si sono detti convinti che il colore eserciti un effetto minimo sulle loro valutazioni. Morale: abbiamo una consapevolezza molto parziale degli effetti che le tinte esercitano su di noi, il che fa del rosso una temibile arma di seduzione.
E non solo nel caso di incontri romantici. Prendete il Taekwondo, dove i combattenti indossano piastroni rossi o blu. Alcuni psicologi dello sport dell’Università di Münster, in Germania, hanno coinvolto quarantadue giudici con una lunga carriera alle spalle, li hanno divisi in due gruppi e hanno fatto vedere a entrambi gli stessi combattimenti, manipolando però al computer una parte dei filmati in modo da invertire i colori dei piastroni. Risultato? Gare identiche, ma i “rossi” hanno ottenuto il 13% in più dei punti rispetto a chi indossava il blu.


 
Taekwondo a Burnaby (Vancouver) nella giornata dedicata a questa disciplina


Lo stesso accade nella lotta greco-romana, dove l’analisi dei risultati dei combattimenti dall’inizio dei Giochi moderni a oggi, prodotta dall’Università di Durham, dimostra che i lottatori vestiti con la tuta rossa hanno prevalso sui blu nel 67 per cento dei casi. Del calcio si è occupata invece l’Università di Plymouth, per dimostrare che il Liverpool, il Manchester United e l’Arsenal, che vestono maglie rosse, hanno vinto trentanove dei sessantanove titoli del campionato dalla fine della seconda guerra mondiale (lo studio è del 2008).
Sono molte le curiosità contenute ne “Lo stupefacente potere dei colori” di Jean-Gabriel Causse, color designer specializzato negli effetti dei colori sulle nostre percezioni e il nostro comportamento. Il volumetto è edito da Ponte alle Grazie (pagg. 198, euro 15,00), casa editrice versata al filone cromatico, che ha in catalogo anche i bei libri su questo tema dello storico e antropologo Michel Pastoureau.
Se il rosso ipnotizza, o in qualche modo condiziona la nostra lucidità, sia nel campo dei sentimenti che nel campo da calcio, il rosa tranquillizza. Alexander Schauss, scienziato che dirige l’American Institute for Biosocial Research, nel 1979 convinse i responsabili del Centro correzionale della Marina americana di Seattle a dipingere di rosa le pareti delle celle (anzi, per ringraziare i comandanti del Centro di questa concessione, straordinaria senza dubbio in un ambiente così “virile”, diede alla tinta i loro nomi, ovvero Baker-Miller pink...). Dopo cinque mesi di esperimenti, si stabilì che bastava un’esposizione di quindici minuti al rosa per ridurre l’aggressività dei detenuti per almeno mezz’ora, effetto che si protraeva per un tempo analogo una volta usciti dalle celle.


Celle dipinte in Baker-Miller pink

Questo rosa ha conquistato un certo numero di adepti per le camere di rilassamento in ambito psichiatrico, si trova sulle pareti delle scuole per bambini iperattivi, in quattro celle per detenuti guardati a vista della prigione di Berna e in due del braccio di massima sicurezza. Schauss sostiene che il rosa dei due comandanti militari «riduce il battito cardiaco, la pressione sanguigna e le pulsazioni. È un colore tranquillizzante che intacca l’energia e abbassa l’aggressività». Effetto calmante anche indotto. Pare infatti che i detenuti siano così allergici a queste “stanze da Barbie”, da restare calmi pur di non doverci finire dentro.
Incrociando psicologia, marketing, arredamento, produttività, desiderio sessuale, apprendimento, con tanto di studi e ricerche di istituti scientifici e atenei in questi campi, Causse, con uno stile ammiccante e leggero, ci guida alla scoperta del magico potere del colore e del suo influsso sulle nostre scelte.
Non è solo questione di moda. Lo schermo del computer blu fa aumentare la creatività (nota a margine: Mark Zuckerberg è daltonico, ecco perchè ha scelto il blu, unico colore che vede correttamente, per Facebook...), ma il blu è anche il colore meno alimentare che esista e, fatta eccezione per qualche caramella o cocktail, non lo si trova in nessun cibo. Viene percepito, però, come un colore efficacemente “detergente”: Procter & Gamble, infatti, dopo aver sottoposto a un certo numero di casalinghe scaglie di sapone assolutamente identiche ma colorate di rosso, verde o blu, scelsero queste ultime per mescolarle alla polvere bianca del loro detersivo, perchè le signore intervistate avevano dichiarato che, mentre le rosse e le gialle erano inefficaci o sciupavano la biancheria, quelle blu lavavano “decisamente meglio”.



L'azzurro c'entra nella scelta di Mark Zuckerberg?
 Percezione e condizionamenti culturali legati ai colori, fanno il resto. Con effetti interessanti soprattutto in campo farmacologico, dove già Paracelso, nel XVI secolo, teorizzava come forma e colore del medicamento potessero suggerire l’organo su cui agiva. Oggi l’industria è attentissima: il colore è fondamentale per unire all’efficacia della molecola il suo effetto placebo (e in questo settore il verde ha un suo riscatto, soprattutto per quanto riguarda i tranquillanti). Anche il packaging delle medicine gioca un suo ruolo, perchè il consumatore collega ai colori caldi delle scatole (rosso, arancione, bruno, blu scuro) una maggiore potenza e rapidità d’azione, soprattutto contro disturbi non gravi che si vuole curare in fretta, come mal di gola o mal di testa, mentre il verde o il giallo sono raccomandati per terapie leggere o omeopatiche.
Insomma, la nostra quotidianità è impastata di colore. E conoscere le proprietà e le influenze delle varie tinte, ci aiuterà a vivere meglio, o quantomeno a essere più consapevoli del perchè agiamo in un certo modo.
Tutto il libro di Causse, però, è percorso da un filo (decisamente) rosso. Colore protagonista sempre, dal piacere al pericolo, dal campo di battaglia a quello di gioco (anche d’azzardo). Per le shopaholic è una vera ossessione. Studi scientifici dimostrano che il rosso esterno è una formidabile attrattiva a entrare in un negozio (mentre gli interni devono essere cromaticamente freddi per predisporci al meglio all’acquisto).

Astuta la soluzione di Uniqlo per il suo flagship store a Parigi, in un palazzo rigorosamente vincolato nel quartiere dell'Opéra: i led rossi sulla scala che conduce al cuore del negozio si vedono da fuori a parecchie decine di metri e fanno da sirena per le fashioniste senza intaccare la facciata del palazzo, veicolando pure messaggi pubblicitari. Naturalmente rossa (o viola) deve essere la cassa. Così non resisteremo ad afferrare un’ultima cosa al volo, proprio prima di pagare...

 
Flagship store Uniqlo nel quartiere dell'Opéra a Parigi


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Leggi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2014/03/il-libro-michel-pastoureau-diabolico.html

http://ariannaboria.blogspot.com/2008/12/il-libro-michel-pastoureau-un-black.html

http://ariannaboria.blogspot.com/2005/03/il-libro.html

domenica 22 novembre 2015

 MODA & MODI

 #madebyenka e Studio Verdesalvia, designer per hobby a quattro mani

Borsa #madebyenka, foulard Studio Verdesalvia

 Due signore di età, professione, città diverse, unite da un interesse comune: il cucito, che coltivano da sempre. Entrambe hanno cominciato, circa un anno fa, confezionando accessori per se stesse o per piccoli regali. Morena, giovane insegnante di Fiume, con un bambino piccolo e la necessità di un contenitore capiente e adatto a ogni ora della giornata, non poteva che darsi alle borse. Silvana, invece, professionista di Trieste, ha scelto le sciarpe e il gusto di cercare e abbinare fantasie, colori e consistenze. Il passaparola tra le amiche ha fatto il resto e gli accessori sono diventati qualcosa di più di un passatempo, una collezione a quattro mani, estiva e invernale, di pochi pezzi unici fatti a mano, presentata una prima volta la scorsa estate, e una seconda nei giorni scorsi, sempre nello spazi Combinè a Trieste.
Niente è casuale, le due artigiane per hobby si conoscono e, pur avendo scelto "griffe" distinte - Morena Oštaric Ravalico realizza borse con l’etichetta #madebyenka, foulard e sciarpe sono firmati Studio Verdesalvia - si propongono insieme, accostando ciascun accessorio, come se fosse nato da un gusto e da una mano unica. Si possono acquistare separatamente, ma abbinati funzionano, si completano.
Le borse #madebyenka, che Morena cuce di notte, quando famiglia e lavoro glielo permettono, sono double-face, con un'ampia pochette interna per tenere chiavi, cellulare, rossetti a portata di mano. «Le facevo, per me, poi le amiche hanno cominciato a chiedermele. È così è nata l'idea», racconta. I materiali che preferisce sono velluti, scamosciati, ecopelle, ma anche vecchi tessuti di recupero, fantasie fiorate anni Settanta, uguali a quelle che utilizzava il nonno tappezziere, in una palette di colori molto discreta, zucca, rosso antico, blu, giallo poco carico o grigio, la stessa che veste lei, perfetta testimonial della sua linea. 

Sciarpa Studio Verdesalvia, borsa double face con tessuto per tappezzeria #madebyenka
Più vasta la scelta dei motivi di sciarpe, foulard, coprispalle di Studio Verdesalvia, che alterna seta, lana leggera, taffetà in motivi cachemire, o con cuori, grandi fiori, righe, pois, intense tinte unite. «Proporre i nostri pezzi insieme è più divertente» dice Silvana, che sorveglia con equilibrio gli abbinamenti più improbabili.
Le borse costano al massimo 70 euro, i foulard hanno prezzi diversi in base al tessuto e alla lunghezza, da 30 a 100 euro. Chi si è perso il pop up shop di Combinè può vederli o acquistarli contattando: ostaric.morena@gmail.com Facebook: madebyenka; studioverdesalvia@gmail.com






Borse double face #madebyenka e foulard Studio Verdesalvia




domenica 15 novembre 2015

 IL LIBRO
Buje come Las Vegas, tutti al casinò di Zdenko


"Brividi su Brazi" di Flavio Furian (Mgs Press)


 Sapete chi ha salvato il Pupkin Kabarett dalla bancarotta? No, non le aziende triestine, cui Alessandro Mizzi e compagni si sono rivolti invano, ma un intraprendente imprenditore di Buje, Zdenko, ”diretore” del casinò itinerante Las Vegas. È successo però, che come contropartita del “ripianamento” dei conti, i comici del Miela hanno dovuto appaltare dieci minuti di palcoscenico, ogni lunedì, a Zdenko, per pubblicizzare lo strampalato cartellone hard del suo locale. E sono stati, letteralmente, “Brividi su brazi”.
S’intitola così l’antologia di fulminanti battute del “diretore”, capelli color carota e giacca da night club jugoslavo anni Sessanta, al secolo Flavio Furian, che la Mgs Press ha raccolto in un volumetto (pagg. 86, euro 9,00) per la gioia dei tanti estimatori e fruitori del ritrovo notturno. Il libro verrà presentato giovedì 19 novembre, alle 18, alla libreria Lovat di Trieste.
Che è locale, ma, appunto, ambulante, in quanto per arrivarci, bisogna di volta in volta chiedere a “donna de edicola Marica”, a mecanico Toyo Zastava”, a “ginecoloco Ginokrauss, a “veterinario Yosko Dulittle”, e, dopo aver pronunciato la corretta parola d’ordine (da “Alza la gamba, Marica” a “Pelinkovac vuol dire fiducia”, passando per un’inevitabile “No Propusnica, no Party!”), calarsi in qualche nascosta botola, lasciarsi fiduciosamente andare su uno scivolo e atterrare nel bel mezzo degli ospiti di Zdenko.
Che vanno dal cantante de Buje, collezionista di provini senza risposta, nome de arte TeddyRemo, alla cugina de Mata Hari, Mata Vilz, che ha cominciato a parlare non sotto le torture più atroci ma a un concerto di Umberto Lupi. Dalle velocissime giustascarpe acrobatiche, due belissime ragazze tutte nude, le Kaligirl, al chitarrista spagnolo transessuale, El Paco de Lucia, al beniamino di casa, LigaBuje, col suo album “Teran e panoce”.


 
Il cabarettista e attore Flavio Furian (www.flaviofurian.it)





Zdenko non è insensibile ai palinsesti televisivi, però ci tiene alla cultura. Ecco allora il talent dedicato alla musica ska, SkaGotTalent, e l’acclamatissimo programma di divulgazione scientifica “Bujager” (ma l’IpoTalamo xe el posto dove che i cavali sposadi fa i sporcellini? o ancora: perchè tuti i omini a semaforo se cava le cagole de naso? Cossa xe introspezione?).
C’è poi il “megalenziol schermo” in grado di soddisfare i gusti di qualsiasi cinefilo e anche un pizzico di solidarietà con la maratona benefica “30 ore per la vita”, dove la sosia di Cicciolina si mette a disposizione di clienti sporcellini generosi.
Insomma, non mancano le attrattive per fare un salto a Buje in compagnia di Zdenko-Furian. Non ultima la degustazione delle ricette del novo cogo istrogreco Yosko Varufalquis, convinto che il suo formaggio sia il più figo di tutti. Quindi, tutti alla cena “FetaTheCool”.

twitter@boria_a

mercoledì 11 novembre 2015

 IL LIBRO

Alessandro Fullin mette Oberdan in leggings, a Miramare

 
"Oberdan, amor mio!" (Mgs Press) di Alessandro Fullin


Carlotta, Sissi e Guglielmo Oberdan si ritrovano nuovamente nel castello di Miramare. Alessandro Fullin, l’autore e inventore di questo irriverente triangolo familiar-sentimentale in puro dialetto triestino, non poteva permettere che i due amanti restassero lontani, lui in Grecia a combattere per l’indipendenza di quel popolo insieme a Lord Byron, lei, l’imperatrice, riparata di nuovo nel castello della cognata Carlotta, con un biglietto d’addio per l’eroe laconico ma efficace: “Va a remengo”.
E così, dopo “Sissi a Miramar” e “Ritorno a Miramar”, ecco il terzo capitolo di questa piccola cronaca di domesticità asburgica in salsa triestina, “Oberdan, amor mio!” (pagg. 87, euro 9,50), che Fullin manda in libreria ancora una volta con la Mgs Press (www.mgspress.com).
Ritroviamo dunque quel catafalco ingioiellato di Carlotta, costretta a recitare il drammatico “luci e suoni” sulla morte del marito Massimiliano per raccattare quattro soldi per la gestione di un maniero sempre più cadente. Sissi, cui le brame amorose non tolgono nè l’appetito nè una certa propensione etilica, cui indugiava già ai tempi dell’acquavite ungherese. E la fidata serva Ottilia, che, oltre a soddisfare bisogni e desideri delle sue regal padrone, deve pure fare la guida turistica al castello e sollevarsi le “cotole” per mostrare il “patrimonio dell’umanità” se qualcuno non mette mano prontamente al portafoglio.



Alessandro Fullin (a destra), scrittore e attore, nei panni di Ottilia in "Sissi a Miramar" con Marzia Postogna nei panni di Sissi (foto Teatro La Contrada)



Sarà proprio Ottilia a imbattersi, nelle sale di Miramare, in uno strano personaggio in leggings, un Batman “domacio” che altri non è che il rimpatriato Oberdan. “Zercar longhi” in Grecia, per dirla con Ottilia, non è bastato all’audace combattente, che, nei giardini del castello, sta per dare una svolta alla sua vita e “trovar longhi” ancora peggiori di quelli del fronte. Nell’ultimo capitolo della trilogia, infatti, Fullin introduce un altro personaggio, la giovane Gisella, figlia di Sissi, arrivata a Miramare in cerca della madre, che non crede uccisa sul lago di Ginevra per mano dell’anarchico Lucheni, ma piuttosto tornata in quel posto che le piaceva tanto, nel castello a strapiombo su un mare pieno di sardoni.
Complice la caduta nel mezzo metro d’acqua del laghetto dei cigni, che Gisella stava incoconando, e il pronto accorrere in suo aiuto di Oberdan, tra i due scoppia la passione, subito soddisfatta. Ma Sissi si rassegnerà a cedere il suo “Elmo” alla figlia? O il complicato ménage finirà per trascinare Miramare nella tragedia greca?
Non sveliamo il finale, anche perchè - Fullin lo ha anticipato - il terzo libro sarà l’ultimo delle babe Carlotta e Sissi. Almeno fino alla prossima incursione, e invenzione, in triestino.

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Fullin in scena con Ariella Reggio (Carlotta) in "Sissi a Miramar" (foto Teatro La Contrada)


lunedì 9 novembre 2015

 MODA & MODI

Fashion Fast & Furious


Fast è il denominatore comune tra i due argomenti che hanno galvanizzato le cronache modaiole di questi giorni: l’addio (volontario o imposto) di celebri designer a marchi storici e l’assalto ai negozi H&M per la collezione Balmain disegnata da Olivier Rousteing.
È fast-fashion in entrambi i casi, in apparenza opposti: quella che fa scappare i designer, spremendoli nelle tappe forzate delle collezioni, e quella che “democratizza” le griffe, riducendole a misura di grande magazzino.


 
Balmain per H&M secondo Olivier Rousteing



 
Balmain per H&M


 
Balmain per H&M



Il primo ad andarsene è stato Alexander Wang, che ha salutato Balenciaga per tornare oltreoceano a occuparsi del suo marchio. Poi l’adieu a Dior di Raf Simons, in volo verso Los Angeles più o meno con la stessa motivazione. Infine, nei giorni scorsi, la rottura tra Lanvin e il direttore creativo Alber Elbaz, licenziato dalla proprietaria taiwanese per dissidi sulla gestione del marchio. 
Raf Simons ha dichiarato di essere stanco di disegnare in catena di montaggio, con tre settimane appena tra una passerella e l’altra, rivendicando di avere altro nella vita, oltre che sfornare sei collezioni l’anno.
Elbaz è stato più esplicito: partito “couturier”, interprete dei sogni delle donne, si è ritrovato designer+manager, attento a conti e ricavi (soprattutto a far schizzare questi ultimi), poi anche inventore di immagini, all’altezza delle aspettative di Instagram. In sostanza: l’abito deve essere creativo, vendere molto e fare così tanto chiasso sui social da spianare le autostrade virtuali a colpi di like.
Veniamo a Balmain, ultima, in ordine di tempo, tra le grandi griffe sbarcate sugli appendini del colosso svedese H&M. Ispirazione anni ’80 dichiarata per la collezione firmata Rousteing, alla guida della maison fondata da quel Pierre Balmain che fu amico di Dior e vestì intellettuali e attrici, da Gertrude Stein a Marlene Dietrich, e tantissime signore di sangue blu.

Maria Pezzi racconta (nell'atlante degli stilisti di Guido Vergani) che, dopo un gran litigio, Balmain conquistò anche Brigitte Bardot, disegnando l'abito che avrebbe indossato all'incontro con la regina Elisabetta: "modesto" e accollato, come voleva l'etichetta di corte, ma dipinto sul suo seno esplosivo, che B.B., all'epoca in competizione con Marilyn Monroe, non voleva assolutamente castigare (alla faccia dell'etichetta reale).
 
Pierre Balmain (1948)



E Balmain per H&M? Tra la serie tv “Dinasty” dell’epoca che cita, e l’odierna “Empire”, entrambe capolavoro di eccessi, la collezione - bruciata in poche ore dopo file notturne e deliri da accaparramento - è un concentrato di colori strillati e sbrilluccichii, mini ascellari e abitucci da appiccicare al corpo o stritolare col cinturone.

La velocità, di produzione o consumazione, fa sempre male. Se vuol dire gettare i designer in un flipper e sostituirli come cartucce non appena esauriti. Se couture per tutti, equivale a ordinarietà. Non sarebbe meglio tornare slow, per chi fa la moda e chi la compra?
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martedì 3 novembre 2015

L'INTERVISTA

Elvira Seminara: "Le voci nell'armadio sono i nostri vestiti. Sanno tutto di noi"

"Atlante degli abiti smessi" di Elvira Seminara (Einaudi)

Ci sono vestiti impostori, che sono costati tanto ma non hanno portato la fortuna che ci si aspettava da loro. Vestiti liberi e indipendenti, da raccogliere con pazienza e devozione, perchè non sottilizzano fra estate e inverno, basta metterci sopra un golf o uno scialle non temono piogge nè mode. Ci sono vestiti coscienziosi, senza fretta, e vestiti elfi, che non trovi in nessun posto quando li cerchi e poi rispuntano come se niente fosse. E anche i vestiti possono essere sopravvissuti: li guardi e ti chiedi come sono rimasti intatti, senza strappi o smagliature, dopo tutto quello che hanno provato, come non hanno ceduto alla disperazione di chi li ha indossati.
L’armadio di ogni donna è un campionario di stoffe e di varia umanità, è un concentrato di storie, un intreccio di gioie e dolori imprigionati nella tela, custoditi in ogni piega, nascosti nei plissè. Aprendolo, questo armadio, e guardando tutto quello che vi è appeso o riposto, si può parlare a una figlia lontana, darle consigli, confidarle segreti, trasmetterle un’eredità di affetti.

Lo fa Eleonora, la protagonista di “Atlante degli abiti smessi” (Einaudi, pagg. 179, euro 17,00), l’ultimo libro dell’artista e scrittrice Elvira Seminara. Da Parigi, dov’è andata a vivere dopo la fine del suo matrimonio, Eleonora racconta a Corinne, rimasta a Pisa, l’eredità di vestiti che le ha lasciato. Con quali parole? «L’armadio - dice Elvira Seminara - è una metafora, un atlante, una mappa di possibili itinerari esistenziali e sentimentali. La protagonista parte dall’idea di consegnare alla figlia un catalogo di abiti, ma già alla seconda voce, quando le descrive gli “abiti pazzi”, capiamo che le sta trasmettendo qualcos’altro, che si tratta di esperienze, di modalità di vita. E l’antologia diventa “ontologia”».

 
Elvira Seminara




Ma non c’è il rischio che quell’armadio, una volta aperto, non si riesca a chiuderlo più?
«A me è capitato. Sono stata catturata dall’immagine di questo turbinio di vestiti, da un volo di abiti che evadevano e chiedevano di essere raccontati. Perchè i vestiti sono mappe narrative, non oggetti inanimati. Io credo nell’aspetto formativo del vestire, nella reinvenzione dei propri vestiti. Come artista utilizzo materiali di riciclo, creo borse con oggetti di recupero domestico, retine, guanti da cucina, caffettiere, che così vengono riconvertiti e riabilitati. È il pensiero zen, che seguo: le cose hanno una vita propria, non si lasciano, non si sprecano. Con un’espressione bellissima Heidegger ricorda che “bisogna aver cura delle cose”».
Distinzione, questa tra “oggetti” e “cose”, che lei puntualizza.
«Ce lo dice Remo Bodei nel suo libro “La vita delle cose”. Le cose sono gli oggetti che hanno subíto una “transustanziazione”, sono diventati sacri perchè noi li investiamo di relazioni, di affetti. I vestiti hanno questo vissuto addosso, si impregnano dei nostri umori, si strappano, si lacerano, portano dentro i nostri dolori. I vestiti noi li abitiamo, sono “giacimenti”. Anche di gesti, di chi li ha disegnati, tagliati, di chi ha attaccato i bottoni, fatto gli orli... Pensiamo alle metafore lessicali che rimandano al tema dell’abito: diciamo “ha stoffa” di qualcuno che vale, diciamo “tessere una relazione”, “ricucire un rapporto”..., tutto ci rimanda a un mondo con gli altri».
Lei ce l’ha un vestito come gli uccelli di Hitchcock, un vestito-ossessione, che cerca di scacciare ma torna sempre?
«Più che vestiti-ossessione, ho vestiti dell’”impermanenza”, instabili, che non sostano, che spariscono e non li rimpiangi, dimentichi».
E un vestito occhiuto, che butta fuori gli altri per tornare di moda?
«Sì, ne ho un paio che spingono perchè li metta. In ogni armadio di donna ci sono abiti che scendono dalle grucce per essere indossati».
Un passaggio del libro farà sentire in colpa molte: “Ci vuole misericordia coi vestiti. Anche quando è tardi, e sei stanca, non abbandonare il vestito a terra, o sul letto, Allargalo e stendilo con dolcezza”...
«Prima citavo Heidegger, Bodei. E aggiungo Rilke, che parla di “larificazione”. Le cose amate sono i nostri lari. E James Hillman che scrive dell’”anima delle cose”. Oggi manca questo sentimento compassionevole verso le cose, che subiscono il nostro atteggiamento predatorio, la nostra rapacità. La cura attiene a un universo di rispetto sia per le cose in sè sia per il lavoro di chi le ha fatte. È uno dei miei principi di ecologia della mente. La protagonista del libro, Eleonora, torna spesso su questo punto: quanta felicità sprechiamo, quante occasioni. Ho voluto trasmettere il senso della consapevolezza delle relazioni e degli affetti, ma anche dell’ambiente, di quello che ci circonda».


Vestiti impostori, vestiti rabbiosi, vestiti revenants, vestiti dall'alito pesante...

Infatti nell’armadio ci sono i vestiti rabbiosi...
«Che hanno patito alla nascita. Vestiti che appena nati, ancora in forma di stoffa, hanno assorbito dolore, cuciti da mani bambine, o dita di ragazze. I vestiti non sono inanimati come noi immaginiamo. Anche la mia protagonista in un primo tempo, a Parigi, vive una vita riflessa, osserva gli altri, è distaccata. Un po’ alla volta si apre alle relazioni. Questo è il messaggio: non sprechiamole».
Corinne, la figlia alla quale è destinato questo inventario, come l’ha immaginata?
«Sportiva, un po’ trascurata, con pantaloni comodi, scarponcini, una sciarpa intorno al collo, un giubbotto. Non curata nè teatrale come la madre. E infatti quando la vede la critica: dice che solo lei poteva andare in giro con una gardenia di stoffa nei capelli identica a quelle del foulard che indossa».
Esiste un abito che madre e figlia possono condividere?
«Una gonna lunga, di maglia, a righe, che unisce comodità e sportività alla bizzarria, che è estrosa ma domestica. Il loro sarà un ricongiungimento allegro, la cura delle cose le rimetterà insieme».
Come sono i suoi armadi?
«Ne ho alcuni al piano di sotto, in una stanza buia, e quando ci vado sento il bisogno che hanno i vestiti di uscire, la loro fame d’aria. Così apro le ante e li faccio respirare. Quelli che stanno negli armadi al piano di sopra, vicino alla camera da letto, sono più fortunati, hanno voci allegre. I vestiti parlano, chiedono di essere indossati. Se non sono messi da molto tempo sentono un senso di colpa. Così li porto a fare due passi».
O si immalinconiscono.
«Infatti, si macchiano, prendono quel colore giallino, l’eritema da cassetto. Le cose hanno una vita a prescindere da noi, hanno bisogno di ossigeno, di avere il loro spazio. I tessuti sono vivi. Se li lasci chiusi, soffrono».
Cos’ha lasciato fuori da questo atlante?
«I vestiti in quarantena. Quelli che aspettano mogi, spesso piegati in una busta, che li soccorriamo. E gli facciamo dunque l'orlo, o riattacchiamo quel bottone. E finalmente li portiamo in giro».
E i suoi vestiti più cari?
«Quelli che condivido con le mie figlie».

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