giovedì 28 marzo 2019

LA RIEDIZIONE

Susanna Tamaro e Va' dove ti porta il cuore
25 anni dopo 




Un grande cuore color lacca su un fondo dorato. Sono passati venticinque anni e il best seller di Susanna Tamaro festeggia l’anniversario con un’edizione speciale, appena uscita per Bompiani. «Mi piace - commenta la scrittrice triestina, dalla sua casa di Orvieto - sono nozze d’argento ma l’oro ci sta bene».
Un quarto di secolo fa, in un’era preistorica senza kindle e internet, “Va’ dove ti porta il cuore”, all’epoca edito da Baldini Castoldi Dalai, diventò un caso letterario internazionale e proiettò un’autrice sconosciuta - era il suo terzo libro a vedere le stampe - nel gotha degli autori a tanti zeri.


Da allora, il romanzo che attraversa la vita di tre donne, sotto forma di lettera della nonna alla nipote, alla faccia degli anatemi dei critici ha venduto sedici milioni di copie, oltre dieci all’estero, in 45 paesi, soprattutto in Spagna, America Latina, Turchia e Germania. E continua a vendere: il mese scorso è stato concluso l’accordo per una seconda edizione in lingua basca e araba.



Oltre all’edizione dell’anniversario, Susanna Tamaro avrà una vera e propria festa, a Porretta Terme, dove la protagonista del romanzo, Olga, vive la sua grande storia d’amore al di fuori del matrimonio e concepisce la figlia Ilaria. Nel weekend tra il 10 e 12 maggio 2019 la scrittrice incontrerà i lettori nella cittadina termale e sarà riproposto il film del ’96 diretto da Cristina Comencini, con Virna Lisi e Margherita Buy.


«Se il successo mi ha cambiato? Direi che dopo i primi anni di choc, la mia vita si è assestata - dice Tamaro - ormai è molto stabile. È il mondo intorno a me che è cambiato. Chi si aspettava il crollo degli indici di lettura, gli smartphone, la rete? Tanto che mi chiedevo se oggi questo romanzo sarebbe capito. Ma la risposta continua dei lettori mi dice di sì».

Se lo sarebbe aspettato questo successo? «Io? Nessuno se lo sarebbe aspettato. Cominciai a rendermene conto dopo qualche mese. Il libro era uscito in gennaio, all’inizio dell’estate era chiaro che aveva avuto una partenza fuori dal normale».


A chi lo fece leggere per primo? «A varie persone. Alcune anche si rifiutarono. Ricevetti pareri molto negativi: un libro “fallito”, “non riuscito”. Il mio ex editor mi disse: “dimenticalo, sarà la fine della tua carriera”, “tiralo fuori a ottant’anni”. Erano tutti professionisti del settore. Naturalmente non ho ascoltato, perchè sentivo che era una storia importante. Lo feci leggere anche a qualche amico e a loro invece il libro piacque molto. C’era proprio una frattura tra lettori normali e professionali».


È tutta fiction, o qualche parte, qualche personaggio fanno parte della sua vita? «Come per ogni libro, è l’insieme di queste cose. No, non è la mia storia, la protagonista non è mia nonna e non si tratta della mia famiglia. C’è qualcosa che ho vissuto, che ho conosciuto, ma tutti gli elementi di verità sono filtrati, rielaborati. I lettori tendono sempre a pensare che siano vicende personali. All’epoca, quando mia madre si presentava come “la mamma della Tamaro”, la gente le chiedeva: “Ma lei non era morta?”».


L’anno scorso ha confessato di soffrire della sindrome di Asperger. Come gestì questo successo? «Come la ragazzina Greta, malissimo. All’epoca non sapevo della sindrome, purtroppo. Era la cosa più spaventosa al mondo essere sempre al centro dell’attenzione, incontrare tante persone e spesso non benevole, maligne, che quasi si approfittavano della mia ingenuità. Nel momento del successo alcuni giornalisti divennero iene assatanate. E io ero carne da macello. Nelle interviste dicevo la verità, onestamente, sono una persona limpida e incapace di mentire, mentre a volte chi avevo davanti usava astuzie e aveva retropensieri, che io non concepisco».


Che cosa le ha tolto il successo?
«Per tanto tempo la serenità. Non il successo, ma gli attacchi mi hanno tolto la voglia, anzi la gioia di scrivere. Ogni parola mi pesava, immaginavo gli insulti che avrei ricevuto».
La critica si è scatenata. Che cosa non è stato capito?
«Che è un libro solo apparentemente semplice, che ha invece una struttura complessa, tanti piani di lettura. Parla di Schopenhauer, della psicanalisi, c’è dentro il ’900 intero. Tanti non hanno voluto vederla la complessità, non gliene importava nulla, l’importante era deridere il lettore e la storia. E poi essere donna, da allora l’ho capito, in Italia è un’aggravante, per di più una donna non “moglie di”, senza alcuna protezione sociale, altra aggravante. E vendevo: imperdonabile. Non tollerato, per una sconosciuta che non era un professore universitario, non apparteneva a cerchie...».


Qual è la critica che le ha fatto più male? «Non ne ho idea. Non ne ho letta neanche una, mai. Lessi soltanto la primissima a “La testa tra le nuvole”, scritta da una firma esperta. Non era una stroncatura, tutt’altro, ma non aveva capito niente, neanche di che cosa trattava il libro. Sui giornali si va dal linciaggio alla piaggeria. Il dialogo tra lo scrittore e il critico è invece molto importante, è un arricchimento per entrambi, ma è un dialogo che si svolge ad altri livelli, non con una battuta che stronca o esalta, non parlando di cose mondane, di nessuna importanza».


“Va’ dove ti porta il cuore” è un longseller, dopo un quarto di secolo vende ancora. Non si può dire che è invecchiato, perchè?
«Perchè è un classico. Noi continuiamo a leggere la Divina Commedia, l’Odissea, Tolstoj. Sono classici, toccano un punto profondo dell’animo umano. Non sono legati a un tempo, a una stagione, appartengono alla memoria delle generazioni e passano di generazione in generazione».


Ha venduto tanto nei paesi di lingua spagnola. Come se lo spiega?
«Ha venduto in tutti i paesi dove la struttura della famiglia è forte, in Spagna, in Sudamerica, in Giappone, Corea, Cina, Filippine, nel bacino del Mediterraneo: Nord Africa, Israele, Grecia».


Negli Stati Uniti? «L’ha letto un’élite, a Hollywood l’hanno letto tutti. Ma non ha avuto lo stesso impatto, la famiglia non è radicata».


Nel libro c’è tanta Trieste. Non ha voglia di tornare a viverci?
«Ci passo dei periodi, quando i miei nipoti erano più piccoli anche un paio di mesi all’anno. Ho mantenuto la casa dove sono nata, se non vengo mi manca. Non ho un rapporto di odio-amore, come altri scrittori. La città mi piace moltissimo, Trieste è un relax, una vacanza che mi concedo».


Che futuro vede? «Trieste è molto cambiata, molto migliorata, piena di gente, oggi attira moltissimi turisti. Negli anni ’70, quando ero giovane, era sporca, brutta, abbandonata, in uno stato di disagio. Chi andava in Croazia diceva “sono passato per Trieste”, oggi ho molti amici che si fermano, che ci vogliono tornare. Trieste ha fatto passi avanti pazzeschi negli ultimi anni. Ora se parte l’accordo con i cinesi, non mancheranno gli esiti positivi, per l’economia, per il commercio. Personalmente sono fiduciosa, una città così bella non può spegnersi».


Ha un dialogo con le nuove lettrici del romanzo? «Certo, mi scrivono sulla pagina Facebook o privatamente. Oggi si parla in modo singhiozzante, nel libro trovano un altro respiro, un’altra dimensione comunicativa».


Se lo riscrivesse ora, cambierebbe qualcosa? «Niente. È calibrato in ogni sua parte. Anche quando l’ho consegnato, non è stata fatta alcuna modifica. Sono una perfezionista, il lavoro lo faccio io fino all’ultimo millimetro. E sono molto autocritica».


“Va’ dove ti porta il cuore” è il suo libro più bello? «Non lo so. Ha avuto molto successo perchè era il meno doloroso, gli altri non sono pacificanti. Il più importante dal punto di vista letterario credo sia “Anima mundi”, ma “Va’ dove ti porta il cuore” mi ha permesso di vivere continuando a scrivere e mi ha dato la possibilità di raggiungere moltissime persone. Non è un libro di consumo, viene letto e riletto, ha formato persone, rimane nella memoria di chi lo ha amato. Continua a vivere, questa è la cosa incredibile».


Ma il titolo non l’ha inventato lei...«No, è in un libro giapponese, un codice dei samurai. “Quando ci sono tante strade davanti a te, segui il cuore”, qualcosa del genere. Certo è per il libro che è entrato nel linguaggio comune, è diventata anche una pubblicità. Quando lo sento dire in giro ormai non mi sorprende più, ci sono abituata». 

@boria_a
MODA & MODI

La regina è nuda

Il camaleontico beige invade le vetrine. Siamo abituati a pensarlo prima ancora che a vederlo: il neutro “va con tutto”, si adatta ad accompagnare qualsiasi altra tinta, fino a rendersi invisibile per esaltare l’accostamento. Una sorta di passepartout cromatico, in grado di smorzare un colore troppo acceso, di armonizzarsi a una nuance pastello senza spegnerla, di combinarsi al nero togliendogli ogni tentazione di cerebralismo e neopauperismo.

In questa stagione, però, il beige e tutte le sue derive - mou, torrone, tortora, tabacco, sabbia, con tutta la potenza evocativa e di marketing che ciascuna di queste poetiche definizioni ha su noi acquirenti - diventano protagonisti. Il neutro dei trench, delle borse, dei sabot, delle pencil skirt, dei pullover e degli spolverini, il total neutro dei tailleur pantaloni. Sfumatura su sfumatura, gradazione su gradazione, senza paura che l’insieme sbiadisca, appanni, sbatta anche la carnagione più chiara. Anzi, lo stesso make up si appropria delle tinte neutre, con l’ispirazione di costruire artificialmente la perfetta, perlacea naturalità.

Se ha ragione Roberto Falcinelli in “Cromorama” (Einaudi), se cioè i colori di moda sono una combinazione di studi a tavolino, di fiuto, di eliminazione di quanto ha stancato, ma anche dei valori politici e sociali del momento in cui viviamo, che cosa significa questa voglia di discrezione? Che sentiamo l’esigenza di liberarci del superfluo, di tutte le it-cose da cui siamo bombardati, per valorizzare il fascino di una parola fuori moda come modestia? Con il beige, il corpo diventa una tavolozza da inventare, su cui basta posare un accessorio per catturare l’occhio. È una tela grezza, che definisce, non sovraespone. Una nudità perfetta, ma non rivelatrice.

sabato 23 marzo 2019

IL LIBRO

Claudia Durastanti: da Brooklyn alla Basilicata, la lingua dell'amore non è fatta di segni 





Una famiglia in movimento, da New York alla Basilicata e viceversa. Una coppia di genitori sordi, che trascina su due continenti un matrimonio passionale, disordinato e deragliato, fino al precoce divorzio. Una bambina al centro di questa storia familiare da generazioni divisa tra due mondi, sempre geograficamente e linguisticamente estranea agli altri intorno a sè: nella classe del paesino lucano, dove viene inserita al rientro dagli States, per quel suo italiano strambo (“stiro da ferro”), lo smalto fucsia e le Reebok con le lucette; a Brooklyn, dove torna d’estate in vacanza, per l’amore per i libri al posto dell’attitudine a sballarsi negli scantinati.

Con “La straniera” (pagg. 285, euro 18), Claudia Durastanti è una dei due autori, insieme al triestino Mauro Covacich, che La Nave di Teseo ha in corsa nella rosa dei dodici semifinalisti al Premio Strega. Memoir, romanzo, album di istantanee, profondamente autobiografico e insieme letterario, il libro restituisce il ritratto intenso e turbolento di una famiglia seguendone gli atavici spostamenti, a partire dalla quella bisnonna materna che da San Martino d’Agri, nel Potentino, s’imbarcò per l’Argentina, convolò a nozze con un connazionale in Ohio e poi, fatti i soldi, ritornò a casa, iniziando un andirivieni che da allora si è inciso nel dna della progenie. Fino a Claudia, che in mezzo a queste traiettorie, in questa “cartina topografica” di luoghi e accadimenti che è la biografia familiare, racconta la sua formazione fragile ma vitale, sempre estranea e ubiqua, con la costanza di riaffondare le radici altrove, oggi a Londra, dove vive e lavora.


“Straniera” la bisnonna materna. E anche la nonna paterna, che per l’ultimo figlio, nato sordo, si trasferì da Monteleone di Spoleto a Roma, dimenticandosi di essere stata una sarta capace per diventare portinaia, ma conservando del passato la precisione del linguaggio nel definire i colori: diceva fiordaliso, pervinca, testa di moro, mai generici azzurri e marroni, anche se tingere nella vasca le aveva strappato una figlia.


“Straniera” è il personaggio centrale, la madre della scrittrice, a cui la meningite presa da bambina lasciò uno strascico di sordità parziale e la paura che qualcuno le arrivasse alle spalle. Mai volle utilizzare con gli udenti la lingua dei segni, così teatrale e visibile, per non condannarsi al primo sguardo a una condizione di disabilità, e mai volle che i suoi figli la imparassero. Si consumava gli occhi a leggere le labbra degli altri, contenta di essere scambiata per un’immigrata sgrammaticata piuttosto che una sorda. Crebbe nei convitti romani, o affidata a estranei, dopo che la famiglia l’aveva lasciata in Italia per assicurarle un’educazione, imparando presto a scappare dai molestatori che pensavano non sapesse gridare.





I genitori di Durastanti danno versioni diverse sul loro primo incontro - ognuno sostiene di aver salvato la vita l’altro - e si sposano durante un viaggio in America. «Non l’ho mai amato - diceva lei - ma sono stata la sua unica amica. L’amore tra sordi non esiste, è una fantasia da udenti. C’è il sesso, l’intimità, ma non quel bisogno. La somiglianza viene prima di tutto». Molti anni dopo, Claudia accompagnò la madre a comprare un vestito a Londra per una cerimonia in cui ci sarebbe stato l’ex marito: voleva farsi bella per lui, era il loro modo di “comunicare”.


L’amore e la comunicazione, l’uno che si nutre dell’altra. Il linguaggio, i suoi adattamenti e le sue trasformazioni, nei luoghi e nel tempo. L’invenzione di un codice per parlare con fratelli e figli. È il tema centrale e più affascinante del romanzo, il filo rosso che attraversa le storie familiari e i destini, dalle nonne all’autrice, che con le parole lavora, come traduttrice e giornalista. È la rivendicazione di indipendenza di sua madre, con la sua voce alta e gli accenti irregolari, il personaggio più potente.


L’autrice, quel linguaggio, l’ha riempito nel tempo di cinema, di musica, di letture. L’ha rimodellato seguendo altre direzioni e amori, dove amarsi è sempre inventare un codice privato. Sua madre, ormai senza interlocutori, dimentica aggettivi, sbaglia coniugazioni, e l’affetto impone di rallentare, di ripetere, in uno sforzo anche fisico di transitare continuamente da un universo linguistico a un altro, perchè il divario non si allarghi. Ma dentro di sè la figlia conserva sgrammaticature ed errori, continua a dire “stiro da ferro” come quando i maestri usavano la matita rossa, perchè quella lingua materna rimane il territorio delle possibilità, della libertà.

mercoledì 20 marzo 2019

IL LIBRO

Paolo Rumiz, nei monasteri benedettini ho trovato le radici dell'Europa






«Tutto è cominciato per caso. Non sapevo nulla di Benedetto, nemmeno quando era vissuto. Mi ero persino dimenticato che fosse il patrono d’Europa. Nell’aprile 2017, durante la traversata a piedi della linea di faglia del terremoto nell’Italia centrale, scendo a piedi verso Norcia e la trovo seduta sulle sue rovine. In mezzo a questa devastazione, vedo la statua di Benedetto, illuminata dalle fotoelettriche, intatta. È stato allora che ho cominciato a chiedermi quale fosse la metafora dietro questa figura intatta, benedicente in mezzo alle rovine. La prima risposta nasceva dai miei dubbi: forse il santo ci sta indicando le macerie prossime venture. Poi mi sono detto: e se invece fosse vero il contrario? E cioè che l’idea benedettina è più forte delle macerie, se il santo stesse dando un segno di fiducia, di rinascita, in un momento pessimo, che per la prima volta vede l’Italia centrale, da sempre sismica, abbandonata a se stessa, piegata da un terremoto che provoca esodi senza ritorno. Un momento che, sulla stessa battigia, accomuna i destini dei migranti italiani a quelli che arrivano da oltreoceano».

Nasce da questa esperienza il nuovo libro di Paolo Rumiz, “Il filo infinito-Viaggio alle radici d’Europa”, dal 21 marzo 2019 in libreria edito da Feltrinelli (pagg. 176, euro 15,00), che l’autore presenterà al teatro Miela di Trieste il 2 aprile in un reading con accompagnamento di canti gregoriani eseguiti da artiste slovene.





Perchè il filo? Perchè Benedetto e i suoi monaci - spiega il giornalista e scrittore triestino - riuscirono a salvare l’Europa negli anni di violenza assoluta e di anarchia che seguirono alla caduta dell’impero romano, ricolonizzarono lande inselvatichite, abbandonate, crearono con i monasteri un network ante-litteram che salvò una cultura millenaria. Con una formula semplicissima, ora et labora, con la forza della fede e la seduzione profonda di una liturgia che coinvolge tutti i sensi, cristianizzarono orde di barbari spietati e violenti e li resero europei. Costruirono un’Europa della preghiera, della cultura, dell’agricoltura, in secoli che furono tutt’altro che bui.

Da una domanda è partito il viaggio di Rumiz, di cui il libro dà testimonianza. E la ricerca di una risposta l’ha portato in alcuni monasteri benedettini, indipendenti e diversissimi tra loro, maschili e femminili, di Italia, Svizzera, Francia, Belgio, Germania, Austria, Ungheria, per poi tornare a Norcia e all’isola di San Giorgio a Venezia, a conoscere da vicino quel “disordine organizzato”, come l’ha definito un abate, che ha custodito nei secoli un’idea oggi messa in pericolo da chiusure e sovranismi.



«Da laico e mangiapreti - dice Rumiz - mi sono convinto che quel fondamento cristiano è pilastro dell’identità europea. E ho voluto capire se nei 73 punti della regola benedettina, ci sia qualcosa che può servire a raddrizzare l’Europa di oggi, a tenerne in piedi l’ideale. L’idea di Europa nasce nei momenti di disperazione. Le più grandi prese di posizione a suo favore, nell’800 e nel XX secolo, sono state fatte quando il nazionalismo trionfava. Pensiamo a Victor Hugo, deriso e fischiato all’Assemblea nazionale francese perchè parlava di stati europei, pensiamo a quello che ha detto Stefan Zweig, suicidatosi a causa del nazismo, parole che sono una stella polare per chi vuole riavvicinarsi all’Europa, nonostante Bruxelles e i burocrati».


Il viaggio, iniziato - racconta Rumiz - sotto i cupi presagi delle devastazioni climatiche, dei proclami anti-migranti, della Brexit, ha avuto un input preciso: l’Europa è un’idea che nasce da chi non ce l’ha e soffre per la sua mancanza. Ecco allora, nei monasteri visitati, la riscoperta degli elementi che rendono attuale il messaggio di Benedetto, a cominciare dall’ascolto dell’altro, fondamento di una leadership non violenta nè assertiva. E l’incontro con i valori della convivialità, del canto. «La scoperta del gregoriano - prosegue Rumiz - è stata destabilizzante per me, i canti sono propedeutici ad avvicinarsi alla componente invisibile della vita. In questo i monasteri, indipendenti da qualsiasi gerarchia ecclesiastica, sono rivoluzionari, danno stimoli che la chiesa non ha. La liturgia ti seduce dal punto di vista acustico, olfattivo, del gusto. Tutto è concertato per convincerti con mezzi non canonici. I barbari sono stati cristianizzati anche grazie al vino, al pane, alla birra, con l’incantamento del canto, non con una liturgia che non avrebbero capito».


Il filo è il network benedettino. Ma anche l’immagine di una suora che faceva la maglia, intravista da una porta semiaperta, nell’area claustrale dell’abbazia lombarda di Viboldone. «Quando vidi quest’anziana vergine - dice Rumiz - mi vennero in mente la parca, il filo di Arianna, il filo del destino, tutte metafore legate alle donne, e pensai all’Europa come a un qualcosa di femminile. Quando lo dissi alla badessa, lei mi accompagnò nella chiesa trecentesca del monastero: c’erano due rosoni decorati, uno con Benedetto, l’altro con sua sorella Scolastica, che teneva in mano il rocchetto e la lana. Allora ho capito che avevo toccato un punto importante della storia».

È necessario imparare di nuovo a narrare l’Europa in modo “credibile”. Questo il messaggio che Rumiz ha raccolto nel corso del viaggio. «Dobbiamo riattivare la memoria di quanto siamo stati capaci di infliggerci, per capire che l’Europa nasce quando ci si massacra di più. Ho chiesto alla badessa di Norcia, una donna con le mani distrutte dal giardinaggio, profondamente immersa nelle cose, se la situazione sia peggiore oggi o al tempo di Benedetto. Oggi, mi ha risposto, perchè abbiamo perso il contatto con l’invisibile. L’Europa non può fondarsi solo sull’idea del benessere».

martedì 12 marzo 2019

MODA & MODI

 La tuta futurista è molto slow


Jumpsuit e boilersuit. Sempre di tuta si parla, ma c’è una sfumatura che fa la differenza. Glamour, morbida, fluida la prima; resistente, pratica, essenziale la seconda. Ed è quest’ultima, la tuta da lavoro, il capo che interpreta meglio i tempi che viviamo, anch’essi serrati e densi, inclini alle contaminazioni di un guardaroba prima ristretto in ambiti specifici. Una quotidiana marcia a tappe forzate che ha dissolto le differenze tra lavoro e tempo libero, inventando outfit multitasking, da adattare alle occasioni con pochi accorgimenti.

La boilersuit è salita in passerella senza perdere le sue caratteristiche: in cotone, denim, materiali resistenti che non si avvitano nè svolazzano ma seguono il corpo senza sacrificarlo, ha un taglio asciutto, tasche anteriori e si può aprire, far scendere e arrotolare in vita, come capita di vederla sugli operai nei cantieri all’aperto, lasciando a vista la t-shirt. O abbinare a un paio di tacchi, a scarpe da ginnastica con una piattaforma importante, riconvertendola con poco sforzo in un pezzo da sera.

Inventata dal futurista Thayaht, al secolo Ernesto Michahelles nel 1920 (tuta perche a T, tutta d’un pezzo, per vestire tutta la persona e tutte le persone), piacque agli operai sovietici che la videro sulla rivista Lef di Majakovskij e fu adottata dalle donne impiegate nelle fabbriche di munizioni con la seconda guerra mondiale. È fondamentalmente unisex, dunque più che mai contemporanea, in una stagione che ha reso liquidi i confini tra i sessi e i loro rispettivi involucri. Fa risparmiare tempo e stoffa e conquista i millennial, che hanno a cuore la moda green, attenta alla sostenibilità, agli sprechi e alla salute del pianeta. Nata nel mito della velocità, oggi la tuta è slow. Se non è versatilità questa.

domenica 3 marzo 2019

IL LIBRO

Le ragazze Aubrey diventano grandi
mentre l'Europa corre verso la guerra









Se avete amato le atmosfere domestiche, le pagine gonfie di musica, il rito del the e della conversazione, le angustie di una famiglia impoverita ma ricca di cultura e di talento, la scrittura precisa e pastosa che procede lentamente, senza l’urgenza dei fatti, sfidando piuttosto il lettore a esercitare i sensi - l’orecchio sulle note, ma anche il senso del colore nelle fioriture dei giardini e le papille gustative - potete farvi accompagnare, ancora una volta, nel salotto degli Aubrey, guidati dalla penna di Rebecca West. In libreria, con Fazi, arriva il secondo capitolo della sua trilogia, “Nel cuore della notte” (pagg. 404, euro 20,00), che originariamente uscì postumo, nel 1984, quasi trent’anni dopo il primo libro, anch’esso ripubblicato l’anno scorso dallo stesso editore col titolo di “La famiglia Aubrey” e diventato un caso editoriale.




Tutti i protagonisti, bambini nell’età edoardiana, sono cresciuti e la grande guerra si avvicina: le gemelle Rose e Mary studiano musica in collegi prestigiosi e si concentrano su un futuro da concertiste (hanno persino differenziato il cognome, per non pregiudicarsi), la sorella maggiore Cordelia ha accantonato il sogno del violino e pragmaticamente abbraccia una vita da donna sposata, quasi allontanata come un corpo estraneo in una famiglia dove l’appartenenza si misura sull’eccellenza musicale, l’unico fratello maschio, Richard Quin, è diventato un giovanotto piacente con un sacco di amici, la cugina Rosamund, solida e splendente, studia da infermiera e la madre Claire vigila con grazia sulla formazione artistica delle figlie, consumandosi per la sparizione del marito, brillante e scialacquatore, e per l’antico virtuosismo al piano che sente venir meno, con l’indurirsi delle dita, come la sua salute.


È sempre Rose a raccontare, alter ego della scrittrice inglese, al secolo Cicely Isabel Fairfield (1892-1983), giornalista e femminista (il suo pseudonimo lo prese dall’eroina ribelle di Ibsen), che firmò nel ’41 un reportage fondamentale per l’approfondimento della storia e della cultura jugoslava, “Black Lamb and Grey Falcon”, pubblicato solo in parte in Italia come “La vecchia Serbia e viaggio in Bosnia ed Erzegovina”. Ed è un racconto, quello di Rose, che cambia il tempo e i registri man mano che, lasciandosi alle spalle la fanciullezza e avvicinandosi all’età adulta, la vicenda corre verso la tragedia bellica e, nel microcosmo domestico, entra prima un’assenza ancor più lancinante di quella del padre Piers, poi la morte.


Come in una partitura, il larghissimo delle visite, delle disquisizioni d’arte, delle passeggiate, lascia il posto al presto dei distacchi, degli uomini curvi sotto il peso degli zaini, a un ultimo momento di affettuosità tra il soldato e la sua ragazza in un corridoio di Victoria Station, sotto il manifesto che pubblicizza un concerto di Rose tenutosi un anno prima...
La voce della narratrice è sicura mentre valuta il suo talento per la prima volta messo in discussione da un docente, con un filo di rimpianto per la spietatezza della formazione («Cos’altro avevo fatto in tutta la mia vita se non “apprendere la tecnica?” Questo era il motivo per cui non avevo avuto un’infanzia...»), è una voce feroce quando testimonia il classismo della società che la circonda («era dei debiti di nostro padre che le nostre compagne bisbigliavano in un angolo»), e sarcastica sul cattivo gusto di certi ambienti, in particolare la casa dei futuri parenti della sorella Cordelia («era un dimora vittoriana in mattoni grigi, a Campden Hill; e all’interno delle sue mura l’Asia si era presa la rivincita sulla colonizzazione. Ogni stanza era piena di cobra di ottone, zampe di elefante, mobili in teak, ciotole d’argento indiane e paraventi d’ebano e avorio...»).


Poi il ritmo della narrazione accelera, la musica si fa presaga della guerra. È il tempo dei concerti che diminuiscono, delle profezie sul futuro, delle licenze di Richard Quin attese con ansia, dell’ultima. «Vedemmo il puntino di luce rossa della sua sigaretta che passava dalle labbra alla mano e il bagliore della sua uniforme che lo rendeva simile a una lucciola...». La voce di Rose si distende nelle luminose pagine finali, il tempo è di nuovo larghissimo, quando la madre se ne va e ritrova l’energia indomabile, il nervo della concertista: «Sì, sì, non ci siamo ancora, ma è così che dovrebbe essere». E noi lettori restiamo in attesa di un altro movimento.

@boria_a