venerdì 26 giugno 2015

LA MOSTRA

"FuturAnita" apre a Trieste
Alla Drogheria 28 gli anni futuristi della designer Anita Pittoni


La triestina Anita Pittoni (1901-1982)
Vorrebbe conoscere Christian Dior? Così scrive Salvatore Ferragamo in una lettera ad Anita Pittoni, dattiloscritta e datata 2 febbraio 1949. Ferragamo, il re delle scarpe, il calzolaio delle stelle di Hollywood, invita l'artigiana triestina a partecipare a una rassegna internazionale di moda a Firenze, la sollecita a prendere una decisione: vuole presentare e vendere i suoi prodotti, vuole incontrare Christian Dior?
Chissà che cosa sarebbe successo se Anita Pittoni avesse risposto di sì, chissà che incontro sarebbe stato quello tra la "pittrice dell'ago", come la definiva Anton Giulio Bragaglia, il calzolaio delle stelle di Hollywood, Ferragamo, e l'inventore del New Look, Christian Dior.
Ma il 1949 è un anno particolare per Anita. Il "genio della manualità", come la definiva il concittadino Tullio Kezich sul Corriere della Sera, si sta lasciando alle spalle la moda, e sta pensando di avventurarsi in un altro ambito. Alla composizione dei colori sostituisce la distillazione delle parole, alla sperimentazione con tessuti e materiali, il fruscio della carta, il gusto per la pubblicazione preziosa. Lo Studio d'arte decorativa appartiene ormai al passato, nascono le edizioni dello Zibaldone, il cui primo titolo uscirà nel settembre di quell'anno, sette mesi dopo l’invito di Ferragamo.
Questo interessante documento sui legami tra Anita Pittoni e i protagonisti internazionali della moda del suo tempo sarà in mostra, dal 27 giugno (vernice alle 17.30) al 17 luglio, alla libreria antiquaria Drogheria 28, parte di quel fondo di volumi, corrispondenze, depliant, riviste, "libri mastri" dello Studio d'arte decorativa, acquisito e ricomposto dal bibliofilo Simone Volpato. Una raccolta che ci restituisce gli anni dell'attività di moda e design di Anita, le sue fonti di ispirazione, le sue suggestioni, i suoi contatti, committenti e fornitori, l'attività quotidiana del laboratorio.
Tre gioielli di questo fondo firmati Giorgio Carmelich - un numero della rivista "Epeo", da lui fondata, sul bestseller la Sagra di Santa Gorizia di Vittorio Locchi, e due collage dedicati alla moda meccanica e a una scenografia orientale - saranno visibili per l'ultima volta a Trieste proprio in occasione di questa mostra, "FuturAnita", che anticipa e si collega al concorso internazionale per talenti del design ITS, in programma all'ex Pescheria di Trieste il 10 e 11 luglio. I tre Carmelich lasciano Trieste: li ha acquistati, infatti, la Fondazione Echaurren-Salaris di Roma, che, in trent’anni, ha messo insieme la più completa collezione di documenti, pubblicazioni, testimonianze sul futurismo.


Collage di Giorgio Carmelich esposti alla Drogheria 28 di Trieste (foto di Andrea Lasorte per Il Piccolo)

La lettera di Ferragamo chiude idealmente quel lungo periodo, cominciato verso la fine degli anni Venti, di Anita Pittoni creatrice di moda e dello Studio di via Cassa di risparmio, che fu la sua soddisfazione e il suo cruccio, dove sperimentò e si confrontò con altri designer, progettò rassegne ed esposizioni, costruì rapporti con gli amici futuristi, pensò e realizzò i suoi pezzi sperimentali, anticipatori nei disegni e nei materiali.
Ed è proprio la minuta “contabilità” del laboratorio che ci offre informazioni interessanti sui percorsi, spesso imprevedibili, sicuramente anticipatori, che prendevano la fantasia, il gusto grafico, la manualità di Anita. I suoi biografi, i cultori della memoria e qualche collezionista appassionato, troveranno tra queste carte alcune tracce per completare il racconto di una triestina per certi versi geniale, ostica e ingiustamente dimenticata. Tracce preziose, anche se piccole, frammentarie, discontinue, che sollecitano un lavoro certosino e affettuoso di “cucitura”.
Le forniture, dunque. A Milano Pittoni acquistava filati metallici d’argento, fili d’oro in lamina, rocchetti di “piattina” d’oro: dieci cartoline con i relativi ordinativi, dal 1932 al 1937, sono indirizzate ad “Arte del ricamo”, un negozio di telerie, specializzato in filati di seta e lana. Sono gli anni intensi della partecipazione alle fiere: la prima Mostra femminile d’arte al Castello Sforzesco, con in giuria Mario Sironi e Adolfo Wildt, dove vinse la medaglia d’argento, la Fiera di Firenze dell’Ente nazionale per l’artigianato, che nel febbraio del ’32 le anticipò 500 lire per favorire la sua presenza, la Mostra dell’eleganza femminile di Trieste nel gennaio 1935, la VI Mostra nazionale della Moda di Torino nel settembre dello stesso anno. Infine, nel ’38, l’Esposizione internazionale dell’artigianato di Berlino, di cui emerge notizia, per la prima volta, da questo fondo.
Arrivava da Milano, e anche da Trieste, un’altra “texture” d’elezione per la Pittoni, la juta, che ordinava, insieme a fibre di lino e canapa, alla ditta “Adolfo Lamperti” nel capoluogo lombardo e allo “Jutificio triestino” di Campo Marzio. Il telaio era stato scelto a Torino: due cartoline, del 20 febbraio e del 15 marzo 1939, forniscono dettagli sul trasporto del macchinario, in legno modulare, completo di tutti i suoi accessori. Molto laboriosa era l’attività di tinteggiatura dei filati, che negli anni Quaranta aveva come referenti la ditta Giuseppe Gozzoli e la tintoria Cozzi di Milano, dove Anita ordinava i rossi, rossi violacei, punti di verde per arredo e confezioni, mentre lo stabilimento a vapore Tintoria Angelo di via Madonnina 18 a Trieste, aveva provveduto all’azzurro di una partita di canapa.
Anche la geografia delle relazioni commerciali con i negozi triestini permette di entrare nella vita dello Studio. Edoardo Velicogna in piazza della Borsa, tra il 1934 e il ’38, inviava ad Anita fatture per la fornitura di materiali dai nomi sognanti, cotone perlè, seta iride, seta splender, filo oro, cotone papagallo, marlit, etamin, lana Tizian, lana oriente, tortiglia nero. Per il crine vegetale, la corda e la canapa, il negozio di riferimento era “Alberto Bignami” in via Diaz 2, per il panno lenci “Silvio Rustia” di viale XX Settembre 31, per i bottoni di stoffa e i plissè “Ettore Ciotti” di via San Spiridione 10, per i ricami “M. Bomman. Casa fondata nel 1902”, che aveva sede al numero 12 di via Cavana. Il veneziano “Donaggio & Figli”, specializzato in forniture peschereccie e in reti a macchina e a mano, provvedeva a soddisfare gli ordinativi di refe canapa, refe lino candido, lino cremato, canapa greggio.
Le tende a rete di Anita erano pezzo d’arredo apprezzato alla fine degli anni Trenta. Piacevano in modo particolare al celebre tessutaio veneziano Rubelli, al negozio d’arredamento “La casa moderna” di via Defilippi a Milano, che le aveva viste in esposizione alla Mostra del tessile di Roma, puntando gli occhi sul tipo “Pescatore” per i suoi campionari, all’architetto milanese Giancarlo Palanti, una delle figure di punta del razionalismo milanese tra le due guerre, poi trasferitosi in Brasile, dove fu tra gli urbanisti della moderna San Paolo.
In una serie di cartoline tra febbraio e maggio 1936, lo Studio di architettura di Franco Albini chiedeva di vedere urgentemente la Pittoni per gli arredi dell’appartamento dell’ingegner Falck, mentre l’azienda Richard Ginori sollecitava le tovaglie su cui mettere in mostra i suoi servizi griffati. Più tardi, e siamo già nel 1947, a meno di due anni dalla decisione di Anita di chiudere il capitolo moda, la celebre galleria d’arte Il Milione di Milano la invitava a non lasciare in sospeso gli ordini per arredare i suoi ambienti.
Tra il ’42 e il ’43, il diario quotidiano dello Studio triestino era compilato da una delle lavoranti migliori, Nelly. Scopriamo così che tra i clienti c’erano Gabriella Economo, l’architetto Pulitzer, le famiglie Nordio, Segre, Nobile, Raiser, artisti come Timmel, Spacal, Righi. Lei, Anita, era a Miasino, dove viveva con l’architetto e critico d’arte Agnoldomenico Pica. Lontana da Trieste e anche dall’idea di diventare editrice.

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La lettera di Salvatore Ferragamo ad Anita Pittoni del 2 febbraio 1949

martedì 23 giugno 2015

MODA & MODI

Stivali ogm: gli infra-boots

Ha sempre stupito anche voi la ragguardevole longevità degli stivali da ranchero in versione estiva? Vi chiedete da anni perché mai, arrivata la stagione della libertà podologica, ci sia una consistente pattuglia di fedelissime che si ostina a costringere le proprie estremità in quei boots da texano inurbato, col tacco squadrato e le decorazioni sul cuoio antitraspirante? La struttura ortodossa, dotata di punta affilata, che in verità richiede una dedizione alla causa che sconfina nel masochismo, è stata negli anni affiancata da versioni più light, indirizzate a un pubblico di country girl flessibile: al posto degli stivali, "tronchetti" da mandriano, alti quel tanto da ingessare solo la caviglia, o più morbidi stivali e stivaletti in camoscio da squaw, entrambe le opzioni accessoriate da borchie o frange, perché più ammenicoli penzolanti o sbrilluccicanti ci sono, più queste calzature sembrano diventare in egual proporzione pesanti e interessanti.
Perché rabbrividire, allora (sensazione salutare, visto l'accessorio in questione...), davanti all'ultima versione, al mandriano 2.0, che pur di non rinunciare all'amato stivale in qualsiasi stagione, arriva a sacrificarne un pezzo? La rete ha viralizzato subito l'invenzione, che non poteva che essere concepita tra le vacche e i cowboy dell'estate del Missouri: gli stivali infradito.
È un tale signor Scott Franklin di Springfield ad aver lanciato sul mercato i Redneck Cowboy Boots pare salutati da un certo successo commerciale. Ha spiegato lui stesso l'origine del bizzarro prototipo, dove si incontrano tutte le qualità che il mercato richiede oggi ai nuovi prodotti: praticità, portabilità, creatività. Il cow-designer dice di aver sentito l'esigenza di essere più libero e fresco, di andare in spiaggia o a bordo piscina ma senza dover scrostare dall'epidermide i suoi affezionati stivali. Ecco allora rispettate le due caratteristiche originali dell'articolo: il tacco zoccolante e il cuoio inciso che decora il polpaccio, largo abbastanza per infilarci il jeans. Scompare solo una fetta di pelle ed ecco che metatarso e dita del piede escono in libertà dalla loro prigione.

Gli infra-boots da mandriano Redneck Cowboy Boots

Dopo le sporty ciabatte (da piscina ma riconvertite all'urbanità, grazie anche ai cervelloni della Silicon Valley che le adorano), le birkenstock furry o ribattezzate field sandal (sempre birkenstock ma impellicciate e con un po' di make up), i cow-infra-stivali rivendicano orgogliosamente il loro ruolo: new entry nella galleria delle scarpe ogm.

venerdì 19 giugno 2015

L'INTERVISTA


Giovanna Botteri, corrispondente Rai dagli Usa: E Curzi mi disse, "Vai a Mosca"
 e racconta quello che vedi come a una persona cara...
Giovanna Botteri, corrispondente Rai dagli Stati Uniti

È stata testimone, e ha raccontato, l’assedio a Sarajevo durante la guerra in Bosnia dal ’92 al ’96, l’incendio della Biblioteca nazionale, la strage del pane, il genocidio dei musulmani a Srebrenica l’11 luglio 1995. Con occhi pieni di curiosità, passione, professionalità, con penna e telecamera, è stata in Algeria, Sudafrica, Iran, Albania, dove ha seguito la ribellione a Valona nel 1997, per poi passare al conflitto in Kosovo ed entrare a Pec' insieme all’esercito italiano nel 1999.
La triestina Giovanna Botteri, dal 2007 corrispondente Rai dagli Stati Uniti, è uno dei volti più noti della televisione italiana. Dagli anni Novanta, non c’è scenario di guerra, teatro “caldo” del mondo, che non l’abbia vista protagonista, con impegno, umanità e quell’inconfondibile energia che sempre trasmette dal video, nel documentare fatti e testimoniarci storie di uomini: nel ’91 il crollo dell’Urss, poi la guerra d’indipendenza in Croazia, l’Afghanistan dei talebani, l’inizio dei bombardamenti a Baghdad il 20 marzo 2003, che ha filmato in esclusiva mondiale con Guido Cravero, l’arrivo dei carri armati statunitensi il 9 aprile. Una carriera internazionale lunga e prestigiosa, cui va quest’anno il Premio speciale Marco Luchetta, che la giornalista riceverà al Politeama Rossetti il 2 luglio. Una sorta di premio alla carriera, dalla sua città. Come si sente, Giovanna?
«Magari dovrei rispondere semplicemente “vecchia”, pensando ai tempi in cui con Marco Luchetta dividevamo i corridoi del Dante, al tempo che è passato, a tutte le cose fatte, viste. Invece l’unica cosa che mi viene in mente è: “viva”. Sopravvissuta a quella terribile guerra in Bosnia che ha ucciso i miei amici, i miei colleghi, e assieme a loro città, famiglie. Alle altre che hanno devastato e continuano a devastare la vita e i sogni di migliaia di bambini e di civili. Ma anche a quella guerra sorda e sotterranea che ti rende cinica, fa dimenticare quello che è importante, il tuo dovere di raccontare, ed essere onesto. “Viva”, e contentissima di ricevere il Premio».
Giovanna Botteri ha sempre voluto fare la giornalista o aveva altri sogni?
«Non volevo fare la giornalista. Lo era già mio papà, non avrei mai osato un confronto con lui. Mi stavo laureando in filosofia, ero a Parigi a preparare la tesi, e leggevo i romanzi di Danilo Kiš. Avrei dato qualsiasi cosa pur di incontrarlo. Così gli scrivo attraverso la sua casa editrice italiana, e invento che voglio fargli un’intervista. Lui mi riceve, e io, con un registratore vecchissimo, gli chiedo tutto quello che posso... Euforica, trascrivo tutto, e trovo anche chi mi pubblica l’intervista! E capisco che non può esistere un mestiere più bello al mondo. Incontri gente straordinaria, attraversi come un viaggiatore le storie della gente e dei paesi, e ti pagano per farlo…»
Qual è stato l’incontro, o l’occasione, che ha dato una svolta alla sua carriera?
«Quando sono arrivata al tg3, Alessandro Curzi mi ha fatto fare la gavetta. Federica Sciarelli faceva la praticante al politico, Michele Santoro era viceredattore capo alla cultura. Cinque righe di notizia e un po’ di immagini a riporto. Poi mi manda a Mosca, dove Demetrio Volcic’ era il grande corrispondente in capo, per imparare. E io faccio la ragazzetta di bottega, le riunioni del mattino, una telefonata alla Tass per capire la versione ufficiale, una telefonata a quelli dell’opposizione per sentire altre fonti, e alla fine il confronto con i colleghi di Bbc e della Reuters prima della verifica sul posto. Il mondo è in ebollizione, e quando scoppia anche la Jugoslavia, Curzi mi manda a Sarajevo. Che cosa devo fare, che pezzi volete?, gli chiedo. E lui mi dice solo… “racconta”. Racconta quello che succede come stessi parlando a qualcuno a cui tieni. Non lo dimenticherò mai».
Ex Jugoslavia, Algeria, Iran, Albania, Afghanistan, Iraq: qual è l’esperienza che l’ha più coinvolta o dove ha avuto paura per la sua vita?
«A Sarajevo mi hanno insegnato a non vergognarsi della paura. Aver paura serve a essere prudenti, a pensar bene prima di commettere imprudenze, a non sottovalutare i rischi. Il panico, quello è pericoloso, perché non sei più lucido. Ho avuto paura tante volte, tante. Una volta siamo andati con uno dei battaglioni che difendeva Sarajevo sulla prima linea del monte Trebevi„, nelle trincee. Se l’artiglieria centra la tua trincea, finisci sepolto dalla terra, soffocato. Avevo un giubbotto antiproiettile, inutile, ma la notte mi ha aiutato a dormire».
Un bimbo gioca durante l'assedio di Sarajevo il 22 aprile 1996 (foto AFP)
Lei è all’ufficio di corrispondenza forse più invidiato del mondo. Dopo gli Stati Uniti, ha ancora un sogno da realizzare?
«Mi piacerebbe moltissimo lavorare a un programma di reportages, riprendere a girare e montare come una volta, con tempo e cura, raccontando le storie con le pause, i sospiri, il silenzio».
Le sarà capitato spesso di occuparsi di infanzia violata quando era inviata in teatri di guerra. C’è una storia che le è rimasta nel cuore?
«A Baghdad dopo i primi giorni di bombardamento e guerra, le madri non riuscivano più a tenere a casa i bambini. I ragazzini scappavano in strada, anche se le scuole erano chiuse, per giocare a pallone con gli amici. Era così che morivano, colpiti dalle schegge dell’esplosione, diventate come pugnali appuntiti. Allora le madri li riempivano di valium, perché stessero calmi, per poterli tenere in casa. La guerra è terribile, e lascia ferite che non guariscono mai».


Il bombardamento di Baghdad nel 2003: Botteri lo filmò con Guido Cravero in esclusiva mondiale

Ma oggi il mondo della rete, dei “social”, ha moltiplicato le forme di abuso sui minori anche lontano da guerre o degrado sociale...
«Penso che internet sia un grande strumento. Di libertà e di democrazia, oppure di violenza gratuita e vigliacca. Dipende da chi lo usa».
Che bambina era Giovanna Botteri?
«Classica. Grembiule bianco, cartella rigida sulle spalle, macchie di inchiostro sulle dita, cicciottella, non la prima della classe ma neanche l’ultima, spettinata, già allora».
Aveva dei miti, o dei modelli a cui voleva assomigliare?
«Da piccola, esistevano solo i miei. Mia mamma era perfetta. Era magra, elegante, parlava l’inglese benissimo. Mio papà sapeva tutto, sapeva dove stava il bene e il male. Così quando sono diventata un’adolescente, ho pensato solo a scappare…».
Qual è il servizio più frivolo che ha firmato?
«Non esistono servizi o notizie “frivole”. Tutto racconta la società in cui viviamo, i suoi gusti, le sue debolezze. I pezzi di società sono divertenti, e ti fanno capire con leggerezza quello che succede vicino o lontano da noi».
Iniziare ora a fare il giornalista è un’impresa difficile, ovunque. Se la sente di dare un suggerimento?
«Adesso è veramente difficile. Sempre meno spazi, e meno soldi. Chi comincia adesso deve avere davvero tanta forza, coraggio e determinazione. Crederci veramente, e non mollare».
Come vede la sua città, Trieste, dal suo osservatorio internazionale?
«No tuti quei che xe mati xe dentro, e no tuti quei che xe dentro xe mati, avevano scritto su un muro di San Giovanni. Mi è sempre sembrato un buon punto di vista, per Trieste e per la vita»
Ha un libro suo nel cassetto?
«Son piena di libri, ovunque, cassetti, scrivanie, in cucina e in bagno. Mi piace più leggere che
 scrivere"
@boria_a

lunedì 15 giugno 2015

LA MOSTRA

Fashion in Motion a Lubiana
Moda e glamour dalla Dolce Vita in poi


Abito da sera firmato Sorelle Fontana, 1953-1955, della collezione Quinto e Tinarelli


Moda italiana versus moda slovena? Messa così la questione, sembrerebbe un confronto con poco stile, quantomeno impari e sproporzionato. La mostra Fashion in motion, che si inaugura il 16 giugno alle 19 al Museo etnografico sloveno di Lubiana (dove sarà visitabile fino all'8 novembre), ha invece un obiettivo diverso. Basta leggere il “sottotitolo” per capire gli ordini di grandezza. Nessun paragone, la moda italiana è la protagonista, ma l’allestimento si propone allo stesso tempo di mettere a fuoco il contesto storico-politico nell’ex Jugoslavia nei suoi riflessi sull’abbigliamento proprio negli stessi anni in cui nasceva il made in Italy.
“Fashion in motion”, dunque, vuole essere una mostra interdiscipliare, in una duplice prospettiva. “Italian style 1951-1990” abbraccia una stagione lunghissima, prima il debutto della moda italiana e il suo affermarsi negli anni della “dolce vita” e della Hollywood sul Tevere, poi lo sviluppo di un prêt-à-porter altrettanto originale e di qualità. Dall’altro punto di vista, quello sloveno, ci sono solo “glimpses”, colpi d’occhio, piccoli ma significativi, dalla fine degli anni ’50 in poi, attraverso immagini e spezzoni di film che testimoniano l’identità e l’evoluzione del mondo di vestire dai tempi della Jugoslavia alla società dell’immagine degli anni Ottanta.
La mostra, che aprirà alla presenza dell’ambasciatrice italiana in Slovenia, Rossella Franchini Sherifis e dal ministro della Cultura della Repubblica slovena, Julijana Bizjak Mlakar, è stata curata da Nina Zdravic Polic del Museo etnografico, in collaborazione con esperti di istituzioni italiane e slovene, tra cui Raffaella Sgubin, sovrintendente del Museo della moda di Gorizia e Mateja Benedetti, stilista e docente alla Facoltà di design dell’Università di Lubiana.
Allestimento di grande effetto, complici le gigantografie delle foto di Federico Garolla, il reporter che ha colto e documentato il “glamour” degli anni Sessanta, con le indossatrici immortalate in solenni scorci urbani, sotto gli occhi ipnotizzati dei passanti. Su un enorme monitor scorrono le immagini di Anita Ekberg e Marcello Mastroianni nella fontana di Trevi, la sequenza de “La dolce vita” di Fellini che, meglio di chiunque altra, ha raccontato ed esportato nel mondo il fascino di un’epoca. Dalle Teche Rai provengono i video sulle origini del made in Italy: la prima sfilata a Villa Torrigiani, a Firenze, magione del geniale marchese Giovan Battista Giorgini, che convinse le sartorie italiane a fare fronte comune e a presentarsi ai compratori americani con le loro collezioni. Era il 12 febbraio 1951: la sfilata dei nove atelier - tra cui le Sorelle Fontana e Schuberth, presenti nella mostra di Lubiana - fu un successo, l’anticamera delle sfilate alla Sala Bianca di Firenze, dove, dal 1952 fino agli anni Sessanta, la moda italiana si mise in vetrina, sempre meno “couture” e sempre più prêt-à-porter. Colorato, perfettamente tagliato, fresco, pratico, elegante.
Al centro del percorso, su una pedana a più livelli, gli abiti di una ventina di stilisti, nella maggior parte provenienti dalla raccolta della Fondazione Sartirana Arte (Pavia), oltre a due modelli di Roberto Capucci, prestati dall’omonima Fondazione, e ad altri due provenienti dalla collezione Quinto Tinarelli. Le Sorelle Fontana (quasi un omaggio a Micol, l’ultima, che se n’è andata venerdì scorso a 101 anni), Emilio Schuberth, Valentino, Irene Galitzine, Emilio Pucci, Gianfranco Ferrè, Krizia, Missoni, Versace sono un’antologia delle origini della moda nazionale che si affranca dalla scopiazzatura francese e, attraverso i decenni, va alla conquista del mondo con i suoi tagli, i suoi materiali pregiati, il suo estro, la sua squisita artigianalità, la capacità di rinnovarsi. In un altro spazio del percorso, è stato allestito l’«atelier di uno stilista»: grucce appese a un binario in movimento propongono trompe l’oeil di Roberta di Camerino, cappottini di Capucci, le inconfondibili stampe di Pucci.
Abito "Arancio" di Roberto Capucci, 1982 (foto Claudia Primangeli)

A rappresentare l’attuale moda slovena ci sono alcuni modelli di Mateja Benedetti, designer di un’eco-couture dal taglio “scenografico” (non a caso è un’apprezzata costumista teatrale) che utilizza solo fibre e tinture naturali, prodotte a chilometro zero, e poi di Urška Drofenik, Maja Ferme, Maja Štamol Droljc, Svetlana Visintin.
I loro “outfit” sono il raccordo tra passato e presente. Una video installazione con spezzoni provenienti dagli archivi della tv slovena ci porta indietro nel tempo: gli anni ’50 quando la moda era lavoro, pagato e tutelato dai diritti, i ’60 con l’apertura dei grandi magazzini Modna hiša a Lubiana e il messaggio forte che la modernizzazione del paese passa attraverso il mercato, gli anni ’70 con la dicotomia nello sviluppo tra città e campagna, gli anni ’80 delle crisi economiche, dei prestiti internazionali e la consapevolezza che l’abito nasce lontano dai propri confini e vive di immagini, affascinanti ma anche ingannevoli.


Abito "Violoncello" di Roberto Capucci, 1982 (foto Amedeo Volpe)

venerdì 12 giugno 2015

IL PERSONAGGIO

Addio Micol Fontana, ultima signora della moda


Micol Fontana festeggia i cent'anni

Con lei si chiude un capitolo della grande storia della moda italiana, e non solo.

Se n’è andata oggi a Roma, a 101 anni, Micol Fontana, l’ultima delle tre sorelle partite da Traversetolo, in provincia di Parma, per un’avventura straordinaria di stile, fantasia e manualità che le porterà a vestire le stelle di Hollywood e le signore di sangue blu di mezzo mondo.
Nata nel 1913, all’età di dieci anni Micol comincia a prendere confidenza con il cucito nella sartoria di mamma Amabile, insieme alle sorelle Zoe, la più grande, e Giovanna, la più piccola. Ago e filo, una passione e una perizia che le unisce per tutta la vita, fin da quando, poco più che ventenni, nel 1936, decidono di lasciare il paese per trasferirsi a Roma, dove, tra le quattro mura di un appartamento in affitto, cuciono fino a notte fonda abiti semplici ma di ottimo taglio e gusto per i conoscenti e i primi clienti. Cominciano a farsi un nome Zoe, Micol e Giovanna, e i loro modelli diventano sempre più ricercati e preziosi, guadagnandosi l’attenzione dell’alta borghesia romana, a cominciare da Gioia Marconi, tra le loro prime estimatrici.
C’era un tempo in cui l’atelier era un mondo a parte, con le sue regole e i suoi segreti. Le signore dell’aristocrazia e del jet set, le attrici affermate e le stelline in carriera, vi si ritrovavano come in un salotto discreto.

In quello delle Sorelle Fontana, all’inizio aperto in via Liguria, nasce il vestito da sposa che Audrey Hepburn, nella capitale per girare “Vacanze romane” e fidanzata con il nobile inglese James Hanson, non indosserà mai. L’attrice prende il volo prima della prova finale, a due settimane dalla cerimonia, forse perchè già innamorata di Mel Ferrer, a cui dirà “sì” un paio di anni più tardi. Con un vestito griffato Fontana salgono all’altare Maria Pia di Savoia e Margaret Truman, figlia del presidente degli Stati Uniti, che si fa confezionare anche il guardaroba per il viaggio di nozze, più tardi, a metà degli anni ’60, le sceglierà Janet Auchincloss, sorellastra di Jackie Kennedy.

 Margaret Truman e Micol Fontana nel 1955

La celebrazione arriva con il matrimonio hollywoodiano di Linda Christian e Tyrone Power, il 28 gennaio 1949: l’attrice, “the anatomic bomb”, finisce sulle copertine di mezzo mondo avvolta in una nuvola di seta bianca, con merletti fatti a mano e centinaia di perle, consegnando alla storia della moda i cinque metri di strascico e le tre sorelle di Traversetolo a una fama internazionale.

Si aprono per loro le porte di Hollywood, se le contendono attrici come Joan Collins, Liz Taylor e Grace Kelly, first lady come Jackie e Soraya, signore del bel mondo alla Marella Agnelli. Tra le clienti più assidue c’è Ava Gardner, che veste Fontana nei film “La contessa scalza”, "Il sole sorgerà ancora” e "L'ultima spiaggia”, tra il ’54 e il ’59. Sempre per la Gardner creano l’«Abito Pretino», piuttosto trasgressivo nella Roma dell’aristrocrazia nera papalina, che viene poi ripreso per Anita Ekberg ne “La dolce vita” di Fellini.
Nel 1951, alla Sala Bianca di Firenze, le Sorelle Fontana sono protagoniste della nascita della moda italiana, nella storica sfilata organizzata dal marchese Giovan Battista Giorgini. «Non sapevo una parola di inglese, ma per noi parlavano le collezioni. Le americane ci amavano per la nostra sobrietà pratica e l’eleganza pacata», disse Micol qualche anno fa, ricordando le sorelle Zoe e Giovanna, scomparse nel 1998 e nel 2004. Insieme sfidarono Dior e Balmain e riscattarono la moda italiana dalla sudditanza ai francesi.
Nel 1994 nasce la Fondazione Micol Fontana, che raccoglie tutte le creazioni firmate con le sorelle, messo a disposizione dei giovani designer. Nell’archivio è custodito un patrimonio di oltre 200 abiti dal 1940 al 1990, oltre a una vasta raccolta di figurini, ricami ed accessori, biblioteca, emeroteca, fondo fotografico. La memoria straordinaria di una stagione in cui la moda italiana era creatività e qualità, gusto e stili inconfondibili. Fagocitata da costi e concorrenza, l’alta moda che facevano Micol e le sue sorelle è un lusso, di tempo e di attenzioni, che ha fatto la storia e non esiste più. Orgogliosamente si sono definite sempre "sarte", mai stiliste.

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Le Sorelle Fontana

lunedì 8 giugno 2015

MODA & MODI

Shibori a Trieste, bello e imperfetto


Una collana realizzata con la tecnica shibori: tessuto tinto e arricciato ad alta temperatura




Il fascino della tecnica shibori è che il risultato non è mai scontato. Le pieghe, i nodi, la temperatura, gli agenti atmosferici, perfino il tocco di chi lo esegue, rendono questo antico processo giapponese di decorazione del tessuto sempre imprevedibile.

La preparazione ha un che di rituale, come molte delle “cerimonie” orientali. Si comincia col piegare geometricamente la stoffa, che viene poi assicurata tra due supporti di legno, legata con uno spago, quindi immersa nell’acqua con il colore. La tinta corre lungo le pieghe, impregnando solo le parti non protette, così che quando si scioglie il laccio che immobilizza le fibre tra le tavolette di legno, sul tessuto si è impressa una geometria. A prima vista sembra una scansione ordinata, un disegno che si ripete, ma un’occhiata più attenta rivela che la tinta si è diffusa con piccole deviazioni “controllate”, con impercettibili sbavature, che è stata assorbita con maggiore o minore intensità. Lo stesso avviene se il tessuto è annodato, perchè il colore scivola lungo le arricciature, ma non riesce a penetrarvi.

Queste variabili rendono ogni pezzo di stoffa unico, proprio perchè imperfetto, irregolare. Se poi l’immersione nella tinta avviene ad alta temperatura, il tessuto si deforma e crea effetti tridimensionali.

Siete in vena di atmosfere orientaleggianti, ma non di paludarvi in un kimono? Un pezzo creato con lo shibori può bastare, di tendenza ma non sopra le righe. Da “Studiocinque e altro” a Trieste, Ines Paola Fontana e Roberta Debernardi, artigiane creative interessate al Giappone e alla sua ricerca formale (basta dare un’occhiata al sito per capirlo, www.studiocinqueealtro.com), si esercitano da tempo a sperimentare e contaminare tecniche tradizionali. Dallo shibori hanno ricavato una collezione di accessori, discreti e facilmente abbinabili, in tonalità morbide, con qualche guizzo di adrenalina.

Innanzitutto le stole, dove la scansione dei motivi ricavati dalle manipolazioni del tessuto durante la tintura, si declina in pezzi importanti ma non impegnativi. Poi borse e pochette, di diversa grandezza nei toni dell’azzurro, del tortora, del rosa, del rosso, e cinture obi, ricavate dall’accostamento dei pezzi “shibori” con tinte unite o tessuti d’arredamento più “industriali”. Ci sono anche collane lunghissime, ottenute infilando il tessuto su un ferro e immergendolo nel colore ad alta temperatura, al “modo” di Issey Miyake.
Tutto aereo, elegante, perfetto per spezzare il nero,“nippo” ma senza esagerazioni. (Studiocinque e altro viale D’Annunzio 4, tel. 040-775359)
twitter@boria_a 


Da studiocinqueealtro.com Trieste



IL LIBRO
Jackie: Così i Capi di Stato cadevano ai miei piedi
Biografia romanzata della più famosa first lady firmata da Adriano Angelini Sut


Jackie e il presidente JFK fotografati su Life nel 1961

Se fosse davvero il racconto della sua vita scritto da lei, a Jackie bisognerebbe riconoscere una sincerità quasi masochistica. A nessuno fa piacere ricordare, e tramandare ai posteri, di essere stata definita jettatrice, brutta come un vampiro, a letto fredda che neanche un cadavere. Di essersi impasticcata per vincere lo stress e attaccata alla bottiglia per reagire al dolore. Di aver sedotto Marlon Brando con la furia di un animale e di essersi risposata con un uomo esteticamente impresentabile, oltre che violento e sessista, solo per i suoi miliardi. Di portarsi addosso, e sulla stampa internazionale, un abbreviativo ispirato a un film porno sadomaso.
Ma, appunto, non stiamo parlando del diario autografo della first lady ancora più famosa di tutte, nè di una sua confessione registrata, come quella fatta allo storico Arthur Schlesinger e ancora, in buona parte, coperta dal segreto. “Jackie” di Adriano Angelini Sut (edizioni Gaffi, pagg. 384, euro 18,00) è invece la biografia romanzata di Jacqueline Lee Bouvier, vedova Kennedy risposata Onassis. Donna, icona, trendsetter invidiata, imitata, copiata di qua e di là dell’Oceano, non solo nei mille giorni in cui, con JFK, regnò su Camelot, ma anche quando, trasferito il suo trono a Skorpios, tra i veleni, gli odi e gli agguati della famiglia Onassis, incrinò il sogno di milioni di fan che la volevano vedova Kennedy, glamour e martire, per sempre. Il libro verrà presentato in anteprima l'11 giugno, alle 17.30, all’Associazione italo-americana di Trieste in piazza Sant’Antonio dal suo autore e dall’editore Alberto Gaffi, che ha rilevato la “Italo Svevo” di Trieste. 
La copertina di "Jackie" di Adriano Angelini Sut (Gaffi)

Angelini, scrittore e traduttore, finge che Jackie, ormai alla vigilia della morte per cancro ai polmoni, avvenuta nel 1994, racconti gli anni più intensi della sua vita, come in un lungo monologo, al fratellastro Yusha Auchincloss III, figlio del secondo marito di sua madre. Un espediente letterario - dice l’autore - scelto per presentare i fatti «secondo un punto di vista alternativo» e per ridare alla signora il suo «ruolo politico», spesso sottovalutato nei fiumi di libri e articoli dedicati alla saga di potere e sesso dei Kennedy.
Una Jackie, quella immaginata da Angelini, che si mette a nudo, esplicita e diretta fino al gusto del macabro, soprattutto nelle pagine sull’assassinio del presidente a Dallas, quando l’autore indugia sui pezzi del cervello di “Jack” schizzati sul famoso vestito - disegno e tessuto Chanel ma confezione nella sartoria Chez Ninon di Park Avenue - e sull’ultima carezza al pene del marito fatta nella morgue.
C’è un punto, però, su cui Angelini si affida all’intuizione e all’immaginazione del lettore e fa arenare la confessione su un punto di domanda: «E tu vuoi sapere se ho avuto una relazione con lui?». È il racconto della liaison che Jackie, rimasta vedova, intrecciò con Bobby, fratello del presidente, ucciso a sua volta nelle cucine dell’Hotel Ambassador a Los Angeles quando già vedeva la Casa Bianca a portata di mano.
Che si siano amati scandalosamente e apertamente nei lussuosi appartamenti di New York dove entrambi si erano trasferiti dopo Dallas è storia nota, che abbiano condiviso un grande dolore e i sospetti sulla mano del vicepresidente Lyndon Johnson nell’assassinio di JFK, è stato scritto e detto più volte. Ma Bobby era sposato con Ethel, aveva dieci figli (un altro nascerà dopo la sua morte) e grandi ambizioni politiche, lei era la vedova del fratello presidente: un divorzio e un matrimonio sarebbero stati fuori discussione.
Potrebbe, la Jackie di Angelini, confessare fino in fondo il rapporto con l’uomo con cui si sentì più desiderata e sessualmente appagata? Forse no. Lo chiama “flirtare” ed è avara di dettagli, se non indiretti.
Fingiamo anche noi, allora, come lo scrittore, che sia stato più facile parlare di Jack «che durava poco» e dell’irsuto Onassis, ai cui desideri confessa di essersi concessa, sullo yacht Christina, senza darsi nemmeno la pena di chiudere la porta della suite (e, almeno agli inizi, al di là dei rapporti obbligatori prescritti dal rigido contratto prematrimoniale).
Di Bobby sappiamo attraverso l’insofferenza della moglie Ethel. «Wow, non sarebbe fantastico se tornassimo alla Casa Bianca?», si lascia sfuggire Jackie quando lui accetta di correre per la candidatura dei democratici alla presidenza. «Tornassimo chi?», la fulmina la cognata. Era gelosissimo di Onassis e, dopo aver dato in escandescenze alla notizia del fidanzamento, la prega di tenere segreta la notizia fino alle elezioni, per non annientare la sua immagine. Sarà Jackie, però, e non la cattolica Ethel, a decidere di staccare la spina davanti all’encefalogramma piatto di Bobby.


Sull’annuario di fine liceo aveva scritto “non farò nè la casalinga nè la moglie”. Programma di minima, per una first lady più amata all’estero che in patria, dove, complici abiti esclusivi e conversazione brillante, giocherà un ruolo chiave nel gradimento internazionale di JFK.
Durante il primo viaggio in Francia incantò De Gaulle. In una Versailles illuminata solo a candele, si presentò a cena avvolta nel tubino bianco di seta avorio firmato Givenchy, con un lungo mantello che lasciava intravedere le spalle: «Sembra uscita da un dipinto di Watteau», le sussurrò il generale e, all’indomani, i quotidiani francesi titolavano “Versailles ha la sua regina”. I rapporti con De Gaulle rimasero sempre stretti: sarà lo statista francese, su richiesta di Bobby e Jackie, a fornire il famoso dossier sul complotto economico-politico-mafioso dietro la morte di JFK, redatto dai suoi servizi segreti. 
Jackie durante la visita in Pakistan nel 1961

Per la cena con Khrushchev allo Schönbrunn di Vienna, Jackie scelse un abito rosa senza maniche che il suo stilista americano di fiducia, Oleg Cassini (perchè anche lei, come Michelle, dovette sottostare a una certa real politik del guardaroba...), disegnò ispirandosi a un analogo modello di Dior. Il leader sovietico rinfacciò a Kennedy il poco polso con Castro a Cuba, minacciò guerra da ogni parte e annunciò la costruzione del Muro di Berlino, mentre dalla first lady americana si fece intrattenere con una conversazione leggera sui tre cagnolini spediti in orbita. I colloqui diplomatici furono un fallimento, ma due mesi dopo Khrushchev fece recapitare dall’ambasciatore russo alla signora della Casa Bianca un cucciolo terrorizzato di nome Pushinka.
In Pakistan e India, nel 1961, Jackie andò senza il marito, accompagnata dalla sorella Lee e, tra cavalcate ed escursioni in elefante negli abiti accesi di Balenciaga (rifatti da Cassini), la missione colpì l’immaginario come evento mediatico-mondano, più che diplomatico.
Jackie con JFK, il premier indiano Nehru e la figlia Indira Gandhi
Il presidente non era necessario, bastava Jackie a conquistare le folle. Tant’è che il successore di Jack, 
Lyndon Johnson, chiederà nel 1967 alla vedova, che avrebbe sposato Onassis l’anno dopo, di volare in via informale fino in Cambogia per arginare l’ondata anti-americana seguita alla guerra in Vietnam. L’abito verde acqua monospalla disegnatole per l’occasione da Valentino e consacrato dal servizio di Life, è rimasto nell’immaginario collettivo e non sono bastati i colori accesi di Michelle Obama, prima first lady effettivamente in carica a mettere piede in Cambogia, a surclassarlo.

@boria_a

Jackie durante la visita in Cambogia nel 1967 vestita da Valentino


lunedì 1 giugno 2015

IL PERSONAGGIO

Anita Pittoni, designer futurista a Trieste


Disegni, cataloghi, lettere, contatti in un piccolo fondo che racconta l'inizio dello Studio d'arte decorativa dell'artista e scrittrice 
 



La creatrice di moda, e poi scrittrice triestina, Anita Pittoni

Anita Pittoni futurista. Anzi, costumista futurista. E, fin dai suoi esordi come creatrice di moda, subito a contatto con i fermenti sperimentali, con le avanguardie della cultura italiana, a cominciare dal regista Anton Giulio Bragaglia e la sua “polifunzionale” “Casa d’arte”, ritrovo di intellettualità e mondanità romana.
Il nome di Anita fa capolino in una brochure rarissima. È quella de “La veglia dei lestofanti. Commedia jazz”, adattamento di Alberto Spaini e Corrado Alvaro all’opera di Brecht, andato in scena con gran clamore al Teatro sperimentale degli Indipendenti di Bragaglia nel 1930. Anita “Tosoni Pittoni” è indicata come costumista, l’architetto Antonio Valente come scenografo. Era stato il grafico Marcello Claris a introdurre Anita nella cerchia di Bragaglia. Siamo nei primi anni Venti, la designer triestina lavora ai costumi teatrali che sono un’entrata economica sicura (e li firma col suo “logo”), ma ha già in mente, in nuce, quello che sarà il futuro laboratorio.

 
L’ispirazione potrebbe esserle venuta dalla compagna di Anton Giulio, Giuseppina, che nello “Studio decorativo” della Casa d’arte romana produce cuscini, bambole, ventagli, paralumi, paraventi. Oppure dall’omonima Casa d’arte futurista fondata nel 1920 a Rovereto da Fortunato Depero e dalla moglie Rosetta, una sorta di museo dissacrante e lungimirante, dove si sperimenta la commistione, l’abbattimento dei muri tra le arti.



Anita legge anche il periodico di politica e arte “Cronache di attualità”, un’altra creatura del vulcanico Bragaglia, e sul risvolto di copertina di cinque numeri della rivista, tra il 1921 e il ’22, disegna, “alla Depero”, altrettanti costumi a matita grassa, gialli, neri, rossi e blu. Le “Cronache d’attualità” di Bragaglia non sono una rivista di provincia. Nei numeri conservati nel fondo Pittoni compaiono scritti di Pirandello, Corrado Alvaro, Sibilla Aleramo, Aldo Palazzeschi, xilografie di Depero, illustrazioni di Prampolini. E al Teatro degli indipendenti - quello per cui Anita ha esordito come costumista - vengono allestite mostre di Balla, Klimt, Schiele, oltre che Depero, Prampolini, il triestino Dudovich, il ceramista Cappelletti.

Anita Pittoni è agli inizi della sua avventura di designer, ma ha già contatti culturali preziosi e l’intelligenza di guardare a quanto nel mondo dell’arte e dell’artigianato d’autore accade a Roma e Milano, a Berlino, Parigi, Vienna. I suoi schizzi rispecchiano a pieno i dettami del “Manifesto della moda femminile futurista” di Volt (al secolo il poeta e giornalista Vincenzo Fani Ciotti), che promuove colori squillanti e forme asimmetriche, e vuole invadere gli atelier di materiali poveri come cartone, vetro, stagnola, alluminio, tela d’imballaggio, stoppa, canapa. La donna futurista deve osare nel guardaroba, sperimentare forme nuove, spirali e triangoli, e materie rivoluzionarie che costano poco.



 Anita Pittoni prova a  ideare il logo del suo Studio d'arte decorativa. Sono gli anni degli intensi rapporti con l'ambiente futurista

Pittoni coglie questi spunti e li fa suoi. Comincia dal suo logo - AP, PA, Anita, racchiusi da un cerchio, da un rettangolo o un quadrato - che si esercita a disegnare dietro un raro manifesto di Vito Timmel dedicato alla I Grande lotteria della fiera triestina, 3-18 settembre 1922, stampato da Modiano. Sullo stesso foglio, disegna “futuristicamente” giocattoli, un albero di Natale, un vaso di fiori, incrociando forme geometriche e assemblando i colori brillanti, giallo, rosso, arancione, col blu e nero dei contorni. Sul bordo del manifesto compare l’etichetta: “Anita Pittoni - Studio d’arte decorativa - Trieste - D’Annunzio 1”, l’indirizzo dell’abitazione.


Le amicizie, le influenze, gli scambi, le suggestioni e le ispirazioni della “prima” Pittoni, quella che Bragaglia chiama “indiavolatissima triestina”, ci sono restituiti dalla sua biblioteca di moda, un piccolo ma prezioso corpus acquisito dall’editore e libraio Simone Volpato, che lo esporrà nei prossimi mesi nel suo negozio antiquario Drogheria 28. Libri, riviste, cataloghi, corrispondenze, testimonianze di partecipazioni a fiere ed esposizioni raccontano l’avvio, lo sviluppo e la vita quotidiana dello studio d’arte decorativa di Anita, ma ancora di più i rapporti che sa intrattenere ad altissimo livello, con intellettuali e futuri committenti. Un patrimonio significativo per ricostruire la personalità della poliedrica artigiana, talent scout, editrice e scrittrice triestina, che farà gola ai musei di Trieste e Gorizia così come ai privati collezionisti.

 
Il fondo racchiude inoltre i doni che alla Pittoni fecero Emilio Dolfi, Livio Corsi e Marcello Claris. Da quest’ultimo riceve un piccolo tesoro, tre chicche firmate da Giorgio Carmelich: un numero della rivista “Epeo”, da lui fondata, relativo al libro di Vittorio Locchi sulla sagra di Santa Gorizia, e due collage dedicati alla “moda meccanica” e al teatro di sintesi-scenografia orientale.


"Samurai in scenografia orientale" di Giorgio Carmelich

Letture, contatti, ma anche attenzione alle produzioni contemporanee e forse l’idea di una rete di relazioni commerciali blasonate. Sta concretizzandosi per Anita l’idea di dedicarsi alle creazioni di moda, un’idea che coccola da tempo se - come testimoniano alcune corrispondenze - già anni prima, all’epoca dei contatti col “circolo” Bragaglia, nell’intestazione di lettere a lei indirizzate si parla di Lavori per arredamento, di Laboratorio lavori femminili e Studio d’arte decorativa.
 
Nello stesso anno in cui va a Vienna, nel 1928, la designer visita la Fiera della moda al Palazzo della Moda di Milano e nella corposa brochure che la illustra annota le stoffe di suo interesse - kasha, vigogna, lane d’angora, stoffe di lana a lamè oro e argento - e una serie di case di moda con cui interloquire. Anni dopo, tra il 1935 e il ’36, l’attività, già ben avviata, guarda a potenziali, importanti clienti, che “spunta” nella sezione triestina del Comitato delle patronesse sul fascicolo dell’Ente nazionale della moda Torino. E non sono testimonial da poco: marchesa Enrichetta Sospisio del Monte Bourbon, contessa Anna Segrè Sartorio, baronessa Maria Banfield Tripcovich, contessa Elisabetta Dentice di Fasso, signora Eleonora De Gutman Salem, signora Clori Artelli Pitteri, signora Nidia Frigessi di Castelbolognese. Nella sezione veneziana delle patronesse, invece, Anita si appunta le contesse Nerina Volpi di Misurata, Annamaria Foscari, Lyda Cini.



 I disegni alla Depero di Anita Pittoni dietro il manifesto di Vito Timmel

Libri - spesso con annotazioni e disegni originali a bordo pagina - riviste, pubblicazioni, campionari di stoffe (interessante quello dell’atelier Kunis di Berlino) raccontano gli stimoli che, negli anni, vanno concentrandosi in via Cassa di risparmio, dove trasferirà l'attività.

Anita segue con attenzione le critiche d’arte milanesi su “Emporium” di Raffaello Giolli, marito della pittrice e disegnatrice di tessuti Rosa Menni, con cui entra in contatto e collabora. Si interessa all’arte e alla cultura giapponese, com’è testimoniato dal catalogo di un’esposizione a Roma nel 1930 e da una serie di libretti del 1935-’36 su architetture, paesaggi, tradizioni nipponici. Raccoglie i numeri di “Bellezza”, “La donna”, “Cordelia” (a Trieste si forma anche un gruppo di fan “cordelliane”), “La moda della lana”, edita dalla Lana Rossi, dove, su un numero del 1934, sottolinea “l’originalità del vestito è strettamente legata all’originalità della stoffa impiegata... fibre vegetali commiste a fibre metalliche e cellophane...”.
 
Il suo è uno spazio aperto al mondo e in costante aggiornamento. Fin dagli inizi le piace sperimentare e conserva come una reliquia il volume di Carlo Carrà, “L’arte contemporanea alla prima biennale internazionale di Monza” del 1923 dove, nel capitolo su arazzi, pannelli, tappeti e merletti, l’autore cita tra gli espositori l’Associazione del batik di Trieste, di cui Anita fu tra le animatrici. Un ideale trait d'union con la odierna mostra "Mondi a Milano", al Museo delle culture fino al 19 luglio, dove, nella sezione dedicata alle Biennali e Triennali dei primi decenni del Novecento, sono esposti un due pezzi frangiato e i relativi e minuziosi cartamodelli con gli appunti di Anita.

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