lunedì 28 dicembre 2020

MODA & MODI

 

Il guardaroba pop di Bridgerton

perfetto per i giorni "rossi"

 

 

 

 


 

 


 

 

Sarà storicamente improbabile, superficiale nella psicologia dei personaggi, prevedibile negli intrecci amorosi e nella loro conclusione, pedante nel sottolineare a ogni inquadratura la parità tra aristocratici bianchi e neri, pura fantascienza nell’Inghilterra Regency del 1813, ma la serie Bridgerton, non a caso sbarcata su Netflix il giorno di Natale, è il prodotto da divano perfetto per i giorni “rossi” delle feste. Dal punto di vista dei costumi è un appagamento per gli occhi, nonostante il sovvertimento di ogni ortodossia.

Firmati dalla newyorkese Ellen Mirojnick, premio Emmy per Behind The Candelabra, che collabora con registi come Oliver Stone e Steven Spielberg e ha inventato il look di Angelina Jolie in Maleficent, sono un tripudio di colori, di fiori, un’esplosione di gioielli bling bling, uno skyline ardito di acconciature e parrucche, un rincorrersi di tiare e di cappelli, con splendidi busti (opera del corsettista Mr Pearl) e infilate di bottoncini che trasformano noiose scene di seduzione in momenti di autentico piacere.

 


 

 

Non aspettatevi l’algida perfezione di Downton Abbey, o il rigore delle riduzioni di Jane Austen per la Bbc, ma uno shakerato pop di Marie Antoinette di Sofia Coppola, La favorita di Lanthimos è un po’ di Piccole donne di Greta Gerwig. Come in quest’ultimo con Meg e Jo, il guardaroba sintetizza a colpo d’occhio il confronto emblematico tra sorelle, nella serie l’efebica Daphne Bridgerton, fresca sposa dell’ombroso e passionale duca di Hastings, perennemente circonfusa da abiti in stile impero in azzurri, grigi e bianchi crepuscolari, e la combattiva protofemminista sorella minore Eloisa, che predilige la libertà di vestiti e soprabiti alla caviglia e non espone il décolleté se non quando a malincuore richiesta dalla presentazione a corte.

Una palette di arancioni, verdi tropicali, gialli “illuminating” (secondo il recente verdetto Pantone) percorre tutti gli otto episodi, trasmettendo il messaggio che sta a cuore alla produttrice Shonda Rhimes, più forte di ogni verosimiglianza: l’incontro e la mescolanza tra culture e l’inclusività. Così i colori caratterizzano e rendono protagonisti i personaggi di contorno, i più interessanti e sfaccettati nel rompere le regole della sottomissione femminile: la maschia regina mistosangue Charlotte, lady Danbury e le sue feste per sole donne, e soprattutto la burrosa e minuscola Penelope, tutta curve e autoironia, la vera personificazione di un girl power ancora di là da venire.

martedì 15 dicembre 2020

MODA & MODI

 

Giallo e grigio, fiducia e vigore verso il 2021

 


 



 

Chiudiamo l’anno all’insegna del giallo grigio. Così ci dice Pantone, l’accademia coloristica americana che indica le tendenze cromatiche per i prossimi mesi, dall’arredamento al make-up, passando per moda, grafica, packaging. Nell’anno terribile della pandemia non potevano che essere due colori controversi a sintetizzare gli umori globali di un mondo diventato in pochi mesi ristretto alle pareti domestiche. L’«ultimate grey», il grigio dell’asettico design nordico, sintetizza tutto il malessere, lo smarrimento, i malumori, l’impotenza davanti al confinamento. Pantone rilancia e ci suggerisce di rovesciarlo e guardarlo in chiave positiva. Il grigio diventa allora lo sfondo su cui costruire, trasmette solidità, fiducia, resistenza, è un grande campo su cui inserire le pennellate di colore che ci serviranno nei prossimi mesi per ritrovare l’entusiasmo in una quotidianità completamente rovesciata.

Nel bigio dello smart working, delle feste solitarie, della negazione degli abbracci, della socialità ridotta, spetta a noi inventarci note di colore, dagli oggetti che ci circondano, all’ombretto sulle palpebre, all’accessorio che movimenta un outfit altrimenti monocorde, come tante giornate che ci siamo lasciati alle spalle. Ecco allora entrare in campo il giallo “illuminating”, una tinta che non piace a tutti (e a pochi sta bene), ma che questa volta equivale a una sferzata di energia. E deve farci dimenticare l'unico giallo che in questi mesi abbiamo sentito nominare a cadenza quotidiana: quello delle zone, il perimetro della nostra minore o maggiore reclusione.

Il binomio funziona meglio nella moda sportiva, l’activewear, dove gli abbinamenti freddi, tanto cari alle bottiglie per i bibitoni da palestra, trasmettono subito adrenalina, movimento, benessere. Nella vita di tutti i giorni l’accoppiata cromatica è più ostica: un tailleur grigio può illuminarsi con una camicia gialla, una gonna pencil di finta pelle si addolcisce con un sottilissimo maglione di mohair color pulcino, i cappotti a vestaglia tonalità fumo non ingrigiscono il viso se interrotti da una sciarpa “solare”, un punto luce all’angolo dell’occhio fa spiccare l’ombretto argentato.
 

Bisogna lavorarci un po’ per trovare l’equilibrio giusto, sembra indicare Pantone. Quest’anno più che mai, non è solo una questione di colore. 

sabato 12 dicembre 2020

L'INEDITO

 

I segreti di Umberto Saba: un figlio naturale

e due commesse che si avvelenarono per lui 




5 marzo 1955, Umberto Saba scrive al suo medico, Umberto Levi, primario nella clinica San Giusto di Gorizia. È la lettera numero tredici del piccolo carteggio tra il poeta e il dottore. Una confessione, finora inedita e dal contenuto scioccante, perchè conferma illazioni già da tempo in circolazione su un oscuro e terribile privato di Saba: l’esistenza di un figlio, Sergio, mai riconosciuto e il suicidio di due sorelle, Margherita e Malvina, entrambe commesse della libreria, che si avvelenarono a breve distanza l’una dall’altra il 19 aprile e il 20 giugno 1922.


Quello che scrive al dottor Levi è un Saba minato nel fisico, bisognoso di continue dosi di morfina, querulo e annebbiato, ma sempre sottilmente manipolatore (glielo imputava lo stesso Bazlen, quando di lui diceva: “ha fatto della sua malattia il suo monumento ed anche un terribile meccanismo per creare negli altri dipendenza affettiva e amorosa”). Scrive dunque Saba a Levi: «Sono tremendamente solo anche perchè ho preteso questa condizione. Non ho mai voluto che qualcuno potesse prendersi cura di me perchè mi sarei sentito offeso e in colpa. Dapprima verso mia figlia che non ha la tempra mentale per curarmi e sollevarmi... Avrei voluto che a prendersi cura di me ci fosse un figlio più forte; lo avrei avuto se non l’avessi respinto. Ma come potevo, stretto dall’odiato-amato amore di due donne, presentare un figlio? Per giunta sano e di un’altra donna? Lina ne sarebbe morta».


La scottante lettera numero 13 fa parte del Fondo Umberto Levi, oggi custodito nella Biblioteca Statale Isontina di Gorizia, dopo l’acquisizione da una famiglia di Cormons imparentata con Giustina Venezian, moglie di Levi. È stata una scelta precisa del bibliofilo Simone Volpato e di Mario Menato, direttore della Biblioteca, quella di non divulgare la missiva incriminata separatamente dall’intero carteggio, perchè avrebbe calamitato l’attenzione morbosa dei lettori, eclissando gli altri passaggi importanti della corrispondenza. La lettera viene ora pubblicata integralmente in “Immondi librai antiquari. Saba libraio, lettore e paziente di Umberto Levi” (Biblion Edizioni, pagg. 370, 25 euro) dal 12 dicembre in libreria, un corposo saggio dei due ricercatori che fa luce anche sulla varietà e consistenza della biblioteca dell’autore del “Canzoniere”, una dimensione coesistente, negli stessi spazi “fisici”, con l’attività di libraio antiquario.

 


 

 

Le lettere raccontano anche dei rapporti di Saba con Gobetti, mentre un altro gustoso inedito è la missiva indirizzata ad Anita Pittoni e scritta dopo il ’52, in cui Saba, dopo averle detto piuttosto seccamente che il fatto di annoverarlo tra gli autori dello Zibaldone non la autorizza a pretendere una pubblicità militante della casa editrice, le suggerisce la pubblicazione de “I pianti” in friulano di Pasolini (“ragazzo ... che sembra si sia formato in un’arcadia letteraria barbarica priva di modelli, che sperimenti una voce arcaica, quasi barbara, che non me lo fa dispiacere...”). 


Completa il saggio una lunga nota di Antonio Della Rocca sulle famiglie Levi e Venezian. A parlare del figlio naturale di Saba, Sergio, fu per la prima volta Stelio Mattioni, nella sua biografia pubblicata da Camunia nell’89. Era il 1959 - e lo riporta il Piccolo nel 2016 - quando una donna di mezza età andò a trovare Mattioni nel suo ufficio alla sede triestina della raffineria Total, rispondendo all’appello che lo stesso scrittore aveva fatto pubblicare sul Piccolo per la ricerca, dietro compenso, di lettere, appunti, ricordi personali del poeta in vista dell’opera biografica a cui stava lavorando. La donna aveva con sè una ventina di lettere, che sosteneva autentiche, in cui si svelava tutta la storia di Sergio, figlio mai riconosciuto del poeta. Per lasciarle a Mattioni, però, chiedeva l’assunzione del ragazzo nella raffineria. Nonostante Mattioni si schermisse, non potendo promettere alcun impiego, la donna gli regalò una missiva per stuzzicare la sua attenzione, datata 2 luglio 1929, e indirizzata da Saba a una sua commessa nella libreria antiquaria, Erna Poleselli. La latrice delle lettere lasciò un recapito, ma quando Mattioni tentò di rintracciarla, la misteriosa Erna, ovvero Ernesta, aveva cambiato casa.


La lettera n. 13 prosegue ed entra nella parte più spinosa della confessione al medico Levi, pregandolo di non farne parola con altri: «Ma in quella libreria ho sempre convissuto con il senso di colpa di aver spinto a morire due giovani ragazze di cui amai con fervore la loro giovane carne; due sorelle che, per la vergogna di tale sentimento e per aver sottratto dei libri decisero di uccidersi. E per me che ebbi tanta parte in questa loro decisione, giocando sulla loro giovinezza, fu una continua fonte di ansia e di dolore convivere con la loro morte. La libreria fu il luogo della mia morte e ciò è la pena».

 
Di Margherita e Malvina Frankel, 23 e 21 anni, figlie di Elena Fano, una cugina della moglie di Saba, aveva già parlato Roberto Curci nel suo libro “Via San Nicolò 30. Traditori e traditi nella Trieste nazista” (Il Mulino). Saba insidiava le sorelle nella libreria. Lo stesso Mattioni ricorda come l’appetito sessuale sempre acceso del poeta fosse stato trasfigurato nei versi per “Chiaretta” e “Paolina”, dove palpita la felicità dell’uomo maturo che ruba un bacio, tocca il seno, seduce due giovani donne. Perchè si avvelenarono Margherita e Malvina? Per la vergogna di aver ceduto alle attenzioni di Saba? O forse per il legame di parentela che le univa a Lina e rendeva impossibile rivelarle le attenzioni del marito?


Il poeta non le aveva dimenticate, a distanza di anni le sorelle suicide pesavano sulla sua coscienza. A Malvina aveva dedicato una delle liriche di “Fanciulle” del 1925, di Margherita parlava in una lettera ad Aldo Fortuna: «La mia signorina si è uccisa, due giorni dopo il mio ritorno a Trieste. Era una ragazza ben singolare, ch’io ebbi il torto di nemmeno vedere fin ch’era viva, ma il modo come s’è ucciso m’ha fatto accorto d’aver avuto accanto per sei mesi una creatura che avrei dovuto ammirare e curare».

 
La lettera n. 13 va al di là delle congetture. Certo, il Saba che scrive a Levi non è lucido, ma mai c’era stata un’ammissione così esplicita della sua responsabilità nel suicidio delle ragazze, avvenuto in quella libreria che è una sorta di scena del crimine degli “abusi” sessuali. Confessione piena? Affatto. Anche questa volta si infila tra le righe la manipolazione: ha amato sì “la giovane carne” delle Frankel, ma loro potrebbero anche essersi avvelenate “per aver sottratto dei libri”. Il poeta voleva alleggerire il suo ruolo? Insinuava il dubbio sulla probità delle commesse? La stessa chiusa fa dubitare: Saba prega il dottore di ricordarlo “come una buona persona che spesso cadeva nel gusto di far male”, non come poeta, perchè, aggiunge, “non lo sono mai stato”. Un congedo del tutto in contraddizione con altre lettere a Levi, già pubblicate da Zovatto nel 1986, in cui Saba rivendica fieramente la sua arte.


Ugualmente drammatica è l’altra lettera inedita presentata nel volume di Volpato e Menato. Non c’è data nella missiva. «Dobbiamo fare un patto, segreto», esordisce Saba rivolto al medico. «Ad ogni mia richiesta di morfina lei dovrà rispondere positivamente ed io le sarò grato e la ricompenserò diventando un paziente diligente. In più, per sdebitarmi le regalerò alcuni libri». È un tentativo di corruzione destinato a rimanere vano. Saba lo sa bene, anche se cerca di allettare il “buon amico dottore” con i preziosi volumi, “tutti esemplari assai costosi”, sottratti dalla sua libreria, sotto il naso di Carletto: Nievo, Leopardi, un Petrarca, anche un certo Pascoli, non quello sdolcinato dell’aquilone e dell’assiuolo, a cui si riteneva assolutamente superiore. 


E prosegue, pregando il medico di tagliare i tempi e fornirgli i medicinali, con un’insistenza che si avverte sottotraccia: «Avrò bisogno di vederla per tediarla con tutti i miei problemi mentali che si presentano con malanni fisici insopportabili; lei mi ascolterà per breve tempo e poi sarà perentorio nella cura (perchè non accelerare l’evento in modo tale da risparmiarci una dolorosa commedia?»).
La lettera deve rimanere segreta, conclude il poeta, ringraziando Levi per la sua “pazienza sterminata” e definendosi “intransigente e del tutto irrecuperabile”.
Poi un guizzo, tenta la carta dell’ironia: «Le mancherò, sono certo, un giorno!», chiude la missiva.

sabato 5 dicembre 2020

IL LIBRO

 

Elizabeth Jane Howard

La caduta senza fine di Daisy

nelle grinfie

del giardiniere predatore 




 

Come un animale Henry si impadronisce del territorio dove si muoverà, lo studia, impara a riconoscerne gli ambienti e gli odori, coglie e registra ogni dettaglio che potrebbe tradirlo. Lo stesso fa con le donne: le individua, le annusa, si infila nella loro vita con mosse calcolate, diventa presente, poi assiduo, poi indispensabile. Prima che la preda possa rendersene conto, Henry è entrato nella sua testa e la pilota dal di dentro, tirando i fili dell’adulazione, della comprensione, del desiderio sessuale, fino a ottenere il risultato voluto. È uno psicopatico che sa impersonare con naturalezza tutta la gamma dei ruoli, da servitore ad amante, senza che la vittima designata si accorga di essere tale. E, come capita per alcuni animali, solo gli estranei, quelli che li guardano dal di fuori, riescono a percepire la loro seconda natura, gli “scarti” nel comportamento, il lato ferino, anafettivo, opportunistico, potenzialmente letale per il più debole del malato rapporto a due. È un riconoscimento mutuo, una diffidenza istintiva, che scatena la reazione del predatore e l’allontanamento di chi cerca di fare breccia nel suo perimetro.


Elizabeth Jane Howard (1923-2014), l’acclamata autrice inglese della saga dei Cazalet ha vissuto questa esperienza e, almeno in parte, la racconta attraverso la finzione nel romanzo “Falling” del 1969, che ora Fazi ripubblica con il titolo, meno efficace, di “Perdersi”, nella bella traduzione di Sabrina Terziani e Manuela Francescon.

 

 È la storia della relazione tra Daisy, sceneggiatrice di successo ultrasessantenne, bellezza appena appannata e due matrimoni falliti alle spalle, e il giardiniere Henry, anche lui over sessanta, che della sua presa sulle donne ha fatto un’arte perversa di plagio e seduzione per i suoi interessi. Lui parla al lettore in prima persona, la vicenda di lei è invece raccontata in terza, a marcare l’aspetto più interessante del romanzo, che non è la prevedibile dipendenza in cui la donna cadrà, circuita impercettibilmente fino al totale annientamento di ogni sua difesa, ma il viaggio nella mente perturbata dell’abusatore.


Orfano, allontanato dal padre e dalla matrigna, costretto a lasciare gli studi e a diventare giardiniere come il genitore, Henry ha una famelica passione per i libri, che diventano altrettanti strumenti per costruire la sua immagine agli occhi degli altri: una mente eletta costretta dalla malasorte e dagli amori sfortunati a condurre una vita al di sotto della sua cultura e dei suoi meriti, in attesa dell’incontro che lo riscatterà.


Quando Daisy, dopo la rottura col secondo marito, l’affascinante attore Jason più giovane di lei di sette anni, decide di acquistare un cottage fuori Londra per curare le sue ferite, Henry capisce che l’incontro fatidico è finalmente arrivato. Si offre come giardiniere e nei lunghi mesi un cui Daisy è lontana dalla sua proprietà, trattenuta prima in Messico poi a Los Angeles dalla frattura di un piede durante una vacanza, Henry applica la strategia che ha collaudato fin da bambino, con la sua prima vittima, la bruttina e ricca Daphne, figlia dei proprietari della tenuta dove lavorava il padre: conoscere il territorio, poi la personalità della sua preda, per anticiparne i desideri e soggiogarne a poco a poco la volontà. Legge le sceneggiature di Daisy, i libri della sua biblioteca, infine scova il diario della donna e cataloga tutte le informazioni utili sul suo passato. Apprende degli amori falliti, dell’unica figlia con cui ha un rapporto problematico e comincia ad avvicinarsi a lei nel modo che gli è più congeniale: le scrive, prima da dipendente che aspetta istruzioni sulle piantumazioni, poi da confidente, infine da amico, in un registro che passa magistralmente dal formale al colloquiale all’allusivo.


La preparazione dell’ingannno è lunghissima, occupa buona parte del libro, e accompagna il lettore nei meandri di una mente cinica, dalle cui confessioni in prima persona è impossibile districare la verità dall’artificio. Alla fine, quando l’obiettivo sembra a portata di mano, un diniego di Daisy determinerà lo “scarto”, quella perdita di controllo che gli estranei avevano intuito nella personalità dell’uomo. Gli eventi precipitano, anche troppo repentinamente per il palato del lettore ormai abituato alla lenta progressione nella posta a Daisy. “Falling”, la caduta del titolo originale, resta nel finale sospeso come su un precipizio. Henry è ancora là fuori, sembra dirci l’autrice, che non tace le sue fragilità. E quanti Henry ci sono, pronti a porgere il braccio a una donna per trascinarla a fondo? 

@boria_a

mercoledì 2 dicembre 2020

L'INTERVISTA

 Buon compleanno Roberto Capucci!

I novant'anni dell'ultimo aristocratico della moda italiana

 

Roberto Capucci fotografato da Gianluca Baronchelli

 

 

Settant’anni tra colonne, capitelli, rosoni, architetture ardite. Prima immaginate, poi certosinamente disegnate, in bianco e nero e a colori, infine trasferite nelle sete, nelle organze, nei taffetà. Oggi Roberto Capucci, l’ultimo aristocratico della moda italiana, compie novant’anni. Dice di non volere auguri, anche se in fondo non gli dispiace la telefonata degli amici, pochi e selezionati, nella casa che guarda Roma ai suoi piedi.

Ma una parte del cuore del couturier è a Villa Manin di Passariano (Udine), dove da alcuni anni hanno sede la Fondazione che porta il suo nome e l’imponente archivio Capucci, 480 abiti, migliaia di disegni e illustrazioni, documenti, immagini, audiovisivi, un capitolo lunghissimo, irripetibile della moda italiana. E il Friuli Venezia Giulia, regione che Capucci ama, gli ha tributato negli anni due importanti omaggi, a Palazzo Attems Petzenstein e ai Musei provinciali di Borgo Castello di Gorizia nel 2004, in una mostra di 110 abiti-scultura e di disegni autografi, curata da Raffaella Sgubin, e a Villa Manin nel 2018, dove, per iniziativa dell’Erpac, le creazioni di Capucci hanno incontrato le immagini floreali di Massimo Gardone.

 

 

Roberto Capucci e le immagini di Massimo Gardone a Villa Manin di Passariano



 

 

Foto di Massimo Gardone

 

 

 

Maestro Capucci, come festeggia questo traguardo? «Ma sa che da quando sono nato non ho mai festeggiato un compleanno? Quando ero a scuola mia mamma mi spingeva a invitare gli amichetti della classe. Ho sempre risposto allo stesso modo: voglio stare da solo, per conto mio, a pensare. Che c’è da celebrare? Direi che piuttosto c’è da meditare sugli anni che vanno avanti. Sono arrivato a novanta e sono contento, perchè nella mia vita ho fatto quello che volevo».

 

 

Roberto Capucci fotografato da Gianluca Baronchelli

 


Settant’anni di carriera. Ha ancora un sogno? «Sogno sempre. Forse sono sbagliato, perchè invece di pensare a cose più pratiche, ho sempre sognato di fare i vestiti che mi piacevano, che davano un senso alla mia vita. Tutto quello che ho fatto è nato dall’amore per questo lavoro, dallo stare con la testa chinata sul foglio 50 per 70 a disegnare, prima in bianco e nero, poi, quando tutto è perfetto, col colore. Ho iniziato negli anni ’50 e continuo, ogni giorno. Questa è la mia vita. Una forma di egoismo? Non so, non credo, per me la cosa più importante è creare».


E un rimpianto? «Nessuno. Ho avuto una bella famiglia, adoravo mia madre, mia sorella lavorava con me, mio fratello, di dodici anni più giovane, era attore, poi imprenditore. Ha avuto sette figli, pensi, e tre mogli, poi per fortuna si è calmato. Quando ci vedevamo erano momenti d’amore e di felicità. Oggi ne ho dieci, tra nipoti e pronipoti».


Un suo abito celebre è tornato pochi giorni fa in televisione, nel film sulla vita di Rita Levi Montalcini. Com’è nato quel vestito?
«In modo molto semplice. Sapevo dell’Oscar, ma la Montalcini l’avevo vista in foto solo seduta. È piccola e magrissima, mi dissero. Così disegnai un vestito con tre colori molto caravaggeschi, verde scuro il davanti, viola scuro ai lati, dietro amaranto. “È perfetto per me”, mi disse. Avevo disegnato una leggera coda di mezzo metro, che lei rifiutò. “Le pare che porto la coda?”. Allora io le dissi: “Professoressa, lei è l’unica donna che prende il Nobel. Quando si alza, si alzeranno tutti gli uomini in frac. Lei andrà verso il re, perciò lei deve essere la regina della serata”. Accettò. “La chiamo se non casco”, mi salutò. Siamo diventati molto amici. Dopo una mostra che feci a Stoccolma, inaugurata dalla regina, che mi chiese di portare il vestito del Nobel, la Montalcini me lo regalò. “Capucci - disse - ormai l’hanno visto tutti”».

 

 

 



Lei ha lavorato con Pasolini in “Teorema”. Come lo ricorda? «Educatissimo, rispettoso, una persona meravigliosa. Quando venne in sartoria erano tutti perplessi. Io invece ero contento: avevo letto tutti i suoi libri, le sue poesie, adoravo quella dedicata alla madre. Pasolini mi disse: “Le porto la scaletta del film così lei inizia a disegnare per questa donna bellissima e borghese”. Io ero talmente emozionato che non gli chiesi nemmeno chi fosse la protagonista. Poi, quando venne la seconda volta, me lo disse. Mi prese quasi un infarto. Era l’attrice che più amavo, Silvana Mangano. Avevo realizzato due desideri: conoscere Pasolini e vestire la Mangano, che non era mai venuta da me, perchè era fedele alla sua sartoria».

 

 

"Teorema" (foto di Angelo Novi/Cineteca di Bologna)
 


La sua musa... «Figlia di un ferroviere, origini umili, ma classe incredibile, innata. Difficile spiegare cos’era, era bella tutta, gambe, mani, ginocchia, vita sottile. Mi raccontò che era nauseata dalla parte che faceva in “Riso amaro”, non le piaceva, non voleva fare quel tipo di bomba atomica italiana. Cominciò a dimagrire finchè in “Morte a Venezia” di Visconti era una visione. Stupenda». 


Lei ancora la disegna. «Sempre. Mi ha talmente influenzato che dopo di lei non ho più voluto vestire nessuna attrice sul set. Quel film è stato un sogno, tutto è andato bene, ne ho un ricordo prezioso. Nella vita ne basta uno, una cosa bella non la devi ripetere».


Ha sempre vestito, invece Franca Valeri, mancata poco tempo fa...
«Non aveva il corpo della Mangano, ma era straordinaria, quello che poteva dire con una battuta valeva l’oro del mondo. Spiritosissima, intelligentissima, coltissima. La adoravo, eravamo amici per la pelle. L’ultimo vestito gliel’ho fatto a 95 anni. Ne aveva centinaia di miei, tutti colorati, alcuni neri ma sempre con piccole rushes a colori, blu, royale, rosso scuro, verde. Si vestiva con facilità, perchè non portava abiti alla moda ma abiti adatti a Franca Valeri».


Che dive ha amato vestire? «Non la Loren, era un po’ troppa, una donna forte, e poi non avevamo un contatto. Catherine Spaak, la prima moglie di mio fratello, era molto bella, molto francese. Le attrici di teatro le ho vestite tutte, Rina Morelli, Andreina Pagnani, Valeria Moriconi, Mariangela Melato. Me ne mancano due dive: la Lollobrigida, che non era il mio genere. E Monica Vitti, persona bellissima, ero suo amico, ma stava molto attenta a non spendere».


E Marilyn? «L’ho vestita, ma non l’ho mai conosciuta. Veniva da me Milton Green, suo amico e fotografo personale, che era anche amico di una mia collaboratrice. Io gli davo i disegni con i campioni di tessuto, sapevo che la Monroe amava abiti stretti, drappeggiati. Lui mi portava le misure e i modelli che aveva scelto. Purtroppo quando è morta sono stati venduti da Sotheby’s a Londra, l’ho saputo tardi, altrimenti almeno uno l’avrei ricomprato per ricordo».


Adesso lei disegna costumi per il balletto, come quest’estate, per il Festival di Spoleto. «È stata un’esperienza straordinaria. Andavo sempre a Spoleto ai tempi di Visconti, di Nureyev, di Shippers, poi, morti loro, l’ho un po’ disertato. Ultimamente ho conosciuto Daniele Cipriani, bravissimo organizzatore di balletti, che ha una passione pazzesca per i miei abiti. Mi ha proposto di realizzare quindici bozzetti per “Le creature di Prometeo”, unica partitura di Beethoven per la danza. È stato un successo, alla fine gli applausi erano quasi imbarazzanti».

 
Lei ha cominciato a vent’anni, nel ’51, con Giovan Battista Giorgini, l’inventore della moda italiana. C’è un momento in cui si è sentito scoraggiato? «Sì, una volta, tornando da Parigi. All’epoca avevo due case di moda, una a Parigi in Rue Cambon e una a Roma in via Gregoriana. Facevo una vita d’inferno, avanti e indietro dalla Francia. Avvertii un senso di stanchezza, volevo mostrare i miei abiti quando ero pronto, senza scadenze obbligate. Il mio “Oceano”, ordinato dal Ministero degli esteri per l’Expo di Lisbona, costato una follia, richiese il lavoro di cinque ragazze per cinque mesi. Impensabile per me fare due collezioni l’anno».


È uno stress che vivono molti stilisti di oggi. «Uno sbaglio. Il lato commerciale vince, intorno a questi signori c’è gente che li sfrutta, poveretti. Quando ho portato la mia collezione a Berlino, nel 1992, c’erano 232 modelli, fatti in un anno e mezzo circa. Ho esposto in Cina, Giappone, in America, in Europa, ma sempre con i miei tempi».


Cosa risponde a chi dice che lei fa sculture, non vestiti da mettersi addosso? «Lavoro dal ’51, se non avessi mai venduto, sarei fallito da tempo. Io ho sempre venduto, indubbiamente a signore molto particolari. Le principesse romane, le aristocratiche, erano tutte mie clienti, donne di enorme personalità, con cui lavoravo benissimo, sapevo quello che a loro piaceva. La principessa Pallavicini, per esempio, che ha uno dei palazzi più belli d’Italia, venne in sartoria negli anni ’50. Voleva maniche lunghe, scollatura a giro collo, vita stretta e la coda da sera. Io obiettai: “La calpestano principessa”. E lei mi rispose: «Un signore non pesta mai la coda a una dama”. S’immagini dire oggi una cosa del genere? Mi mettono in galera, dicono “questo è un pazzo”».

 

 

La mostra di Roberto Capucci a Palazzo Attems di Gorizia nel 2004 (foto Carlo Slauzero)


È contento di aver raccolto tutto il suo archivio a Villa Manin? «Moltissimo. Il posto è splendido, fuori dal mondo, in un punto eccezionale, dove non c’è moda. È perfetto per chi, come me, non ha mai fatto la moda alla moda. Nel ’58, quando inventai la linea quadrata, d’avanguardia e molto rischiosa, la stampa italiana mi coprì di critiche. “Ha messo la donna in scatola, è morto” dissero. Poi l’America mi diede l’Oscar per la collezione dell’anno. Quando tornai in Italia ricevetti un premio anche a Milano, me lo consegnò Jole Veneziani. “Lo prendo con molta gioia - ringraziai - ma ricordatevi che quando ho mostrato questi abiti in Italia mi avete massacrato”».


Lei viene spesso in Friuli Venezia Giulia... «Mi piace da morire, c’è calma, educazione. Roma è tra le più belle città del mondo, ma è caotica, troppo turistica, almeno prima del virus. Io ci sono nato, da casa mia ho un panorama stupendo, ma ogni tanto mi dà molta gioia andare in luoghi più sereni, più familiari».


Capucci si è mai innamorato? «Mai. Sì, del mio lavoro».


Lei è molto critico verso la moda di oggi. «Quando vedo la donna dissacrata, mezza nuda, che gira per le passerelle, non la amo molto. Fare moda è avere rispetto per la donna. Non si può servirsene come strumento di divertimento. La donna è un simbolo talmente meraviglioso, è madre, moglie, mette al mondo i figli, li educa. Come si fa a massacrarla? Perchè uno che fa moda si deve sbizzarrire per le proprie follie? Non mi riguarda».


Lascia un erede? «No, nessuno. Ho fatto una moda molto difficile ed è molto difficile trovare qualcuno che la continui. E l’ho fatta in un momento eccezionale, dopo la guerra, quando la gente ricominciava a vivere e le donne avevano voglia di vestiti, di ricevimenti, di cose belle. Avevo alle spalle il liceo artistico, gli studi all’Accademia di belle arti. La mia mano era più propensa a disegnare architetture che vestiti, mi interessavano più le linee che gli ornamenti. Oggi chi può dire a un ragazzo di fare questo percorso?».


Come si vestirà oggi? «Pullover a collo alto, che rigiro, e pantaloni di lana. Ne ho talmente tanti di colori da mettermi addosso che a volte sembro un pappagallo. Mi piacciono molto, mi fanno pensare di essere più giovane».


C’è una donna che ancora vorrebbe vestire? «Un certo tipo di donna è sparito, è curiosissimo, non se ne sente più parlare. Alle attrici tutti quelli che fanno il prêt-à-porter oggi regalano vestiti. Non c’è un’altra Audrey Hepburn, che purtroppo io non vestii perché il suo sarto era Givenchy, non c’è la Garbo, la Mangano. No, non mi viene in mente nessuna».

martedì 1 dicembre 2020

MODA & MODI 

Black o Block? Il venerdì nero più divisivo

 

 

Black Friday, Block Friday. Mentre ci dibattiamo tra i colori delle zone, sperando che la palette del confinamento da arancione non passi a toni più decisi, tra le pareti domestiche si infiltrano gli sconti del venerdì nero. Non solo l’americanissimo giorno che segue il Thanksgiving, cioè il 27 novembre, da qualche anno importato con successo in Europa, ma un’intera settimana di ribassi pilotati dai colossi dell’e-commerce. Black Friday divisivo, quest’anno più che mai, tra i commercianti che, per non essere tagliati fuori del tutto, si allineano all’innaturale corsa agli sconti, e quelli che resistono, difendendo il prezzo “giusto”. Il coprifuoco è un perverso alleato dell’acquisto compulsivo. Gli esperti dicono che 83 milioni di vendite al giorno migreranno dai negozi fisici alle piattaforme. Chiusi tra quattro pareti, il clic sul l’uscita del carrello virtuale ha un effetto risarcitorio. Mentre scrivo la radio bombarda gli spot di Amazon: fai prima i regali di Natale, hai un’intera settimana di offerte, eviterei le facce perplesse allo scarto dei pacchi...


In questo 2020 sospeso le proteste contro i ribassi del Friday nero si fanno sentire più forti, sull’onda del movimento planetario che, ben prima del virus, ha inchiodato la moda cheap e fast (ma non solo) alle sue responsabilità: massivamente inquinante, moltiplicatrice degli sprechi, sfruttatrice dei lavoratori. I negozi di “prossimità” cercano di resistere agli allettamenti dei Golia della distribuzione, facendo leva sulle parole che durante il lockdown della primavera scorsa abbiamo ripetuto come un mantra: acquisti etici, soppesati, mirati a valorizzare qualità e territorialità, garantendo la rete dei negozi che sostanziano il nostro tessuto sociale. Acquisti che non depredano nè la Terra nè il capitale umano (i magazzinieri di Amazon in queste ore, i fattorini delle consegne, che oltretutto intasano e inquinano le città).


Lentezza, è la parola chiave del 2020 pandemico, un significato ampio, esteso al diritto-dovere di riprenderci tempi più umani, anche negli acquisti. Sobrietà, ha detto Papa Francesco domenica all’Angelus, invitando a guardare chi ci sta vicino. Alcuni grandi brand dell’abbigliamento suggeriscono di disertare l’acquisto frenetico per stare con gli altri o all’aria aperta, consapevoli che le nuove generazioni premiano scelte più sostenibili. Qualsiasi corsa allo sconto interroga la nostra coscienza. Anche la corsa che non vede nessuno, seduti sul divano, davanti a uno schermo. 

venerdì 27 novembre 2020

IL CARTEGGIO INEDITO

Cara Linuccia, Cara Anita

le lettere di due amiche-nemiche

 


Linuccia col padre Umberto Saba


 

«Cara Linuccia, penso a te, che sei tutt’uno con la poesia di tuo padre e con Trieste». È il 6 settembre 1957, Umberto Saba è morto da undici giorni a Villa San Giusto di Gorizia, dove era ricoverato da nove mesi. Anita Pittoni, da Trieste, scrive alla figlia del poeta, Linuccia, che vive a Roma. Il passaggio della lettera dà il titolo al volume che raccoglie il carteggio inedito tra le due donne, l’una scrittrice, editrice, designer, l’altra pittrice, pubblicato ora da biblohaus in un’edizione critica a cura di Gabriella Norio. Le lettere appartengono al corposo Fondo Anita Pittoni, acquisito in tempi diversi dal Comune, che ha co-edito il libro con la Drogheria 28 di Simone Volpato. «Giani e io - prosegue la lettera, una delle primissime del volumetto - passiamo le ore leggendo il Canzoniere che è la nostra consolazione... La poesia di Saba è l’acqua fresca di una fonte magicamente lenitrice e forse guaritrice...».

 

 

La corrispondenza tra Anita e Linuccia, in tutto 131 lettere, copre un arco di tempo che va dal 1957 al 1966. Sono scritti per lo più brevi, che si susseguono a distanza ravvicinata nei primi anni, per poi diradarsi e interrompersi bruscamente. Pochi giorni prima del Natale 1965, il giorno 22, Anita scrive a Linuccia lamentando di non sentirla da molti mesi, dispiacendosi per la vita “assai dura”, anzi “cattiva” che conduce a Trieste (“per via di certa gente che mi gioca tiri continui”) e tornando sul tema che, come un fastidioso filo conduttore, una frizione latente e irrisolta tra le due, percorre tutto il carteggio: la mancata concessione di Linucca alla casa editrice di Anita, lo Zibaldone, delle lettere di Saba alla moglie Lina e a lei.

 

Linuccia con la mamma Lina Wolfler nel 1916

 


 


Linuccia, ha già detto il no definitivo, ben sei anni prima, accampando un presunto divieto dell’editore nazionale (“Einaudi mi ha risposto un no categorico”, scritto che ha purtroppo “smarrito”...). Ma nel biglietto datato 1 gennaio 1966, suona quasi tranchant e taglia corto con le lamentazioni di Anita: «Tutte le città dove si vive hanno un lato amaro, non solo Trieste. Trieste che ora a me, quando ci vengo in visita, pare così affettuosa e amichevole. Ti auguro un anno di buon lavoro e di serenità». Sarà l’ultima lettera che si scambiano.


Sono amiche, Anita e Linuccia, quel tanto che può consentirlo due personalità forti, determinate, prepotenti, poco disposte a cedere terreno. Per quanto punteggiate da vicendevoli attestazioni di stima e chiuse da ricordi e abbracci estesi ai rispettivi compagni, Giani Stuparich di Anita, Carlo Levi di Linuccia, con anche il marito di quest’ultima, Lionello Zorn Giorni, le lettere sono attraversate da una sottile tensione, da un filo di intransigenza, almeno per quanto riguarda gli interessi editoriali di entrambe.


A unire le due donne, all’indomani della morte di Saba, è il comune obiettivo di valorizzare l’opera e la figura del poeta, a dividerle inesorabilmente gli strumenti per raggiungerlo. L’unico progetto condiviso che va a buon fine è la pubblicazione con lo Zibaldone del saggio inedito di Saba “Quel che resta da fare ai poeti”, che vede la luce nella primavera del ’57 in 525 copie, in un’edizione lodata dalla critica e apprezzata molto da Linuccia. Altre iniziative editoriali sfumano. Lo Zibaldone sta in piedi a fatica, la Pittoni arranca dietro ai soldi e spesso i suoi progetti finiscono per rimanere annunci nei Bollettini pubblicitari che spedisce un po’ ovunque.

 

 

Anita Pittoni

 


Su un punto, però, Anita si era intestardita. La missive di Umberto a moglie e figlia, da editare in due libretti distinti. Non si contano le lettere in cui la Pittoni cerca di blandire e convincere Linuccia. «Lo Zibaldone è particolarmente adatto a queste pubblicazioni. Pensaci. Ed ha una cerchia scelta di lettori. E la collana triestina resta nella storia: questo te lo garantisco. Certo che Saba non ha bisogno di questo, ma dentro, nella collana triestina, tutto acquista un altro sentimento», le scrive l’1 maggio 1958. Insiste, più volte anche l’anno successivo, è assillante, progetta date, uscite, numero di cartelle e il 23 settembre aggiunge perentoria: «Le nostre edizioni sono limitatissime... Inoltre servono ad affezionare ancor più i lettori a Saba. Tu dici che non c’è bisogno? Ma l’affezione non è mai troppa».


Linuccia tergiversa, ha altri programmi. Sta lavorando a una monumentale raccolta di tutto l’epistolario paterno (si parla di circa 3mila lettere), da cui non vuole scorporare quelle private, che gli editori nazionali avrebbero senz’altro ritenuto le più appetibili per i lettori. E poi non è interessata a divulgare l’aspetto “familiare” del genitore, dell’uomo con le sue debolezze, ma solo a celebrare la fama del poeta. Anzi, si è fatta venire il mal di fegato per l’uscita del libro dell’amica del padre, Nora Baldi, intitolato “Il paradiso di Saba” ed edito nel ’58, prendendosela anche con Mondadori. «Quel libro per me è un dolore», scrive ad Anita. «L’abbondanza dei superlativi, sempre sgradevole, con l’accompagnamento di quei fatti, che raccontati da lei sono o sciocchi o assurdi, è pietoso». E Anita pronta la conforta: «Giani e io siamo rimasti orripilati. Non ci sono parole. Sotto tutte le immaginazioni negative che avevamo!». Nonostante questi tira e molla, nemmeno l’epistolario che Linuccia ha tanto a cuore riesce a essere pubblicato. Troppo imponente il lavoro per la sua salute cagionevole, le riuscirà solo di dare alle stampe l’”Epigrafe” del padre e di cominciare a dedicarsi alle Prose.

 


 


Pochi, nel carteggio, gli scambi più intimi e quasi sempre legati a lutti che toccano entrambe, a cominciare dalla morte di Giotti, il 21 settembre ’57 all’ospedale Maggiore, con la preoccupazione di Anita che la moglie Nina Schekotoff, già un po’ persa, venga sradicata dalla sua casa di via Lamarmora 34, da quelle stanze - scrive - «che hanno dentro il cielo, dove tutto è ordinato e tranquillo». Nel gennaio 1960 muore il fratello di Anita, Bruno. L’anno orribile è però il 1961. Il 7 aprile la malattia si porta via Giani Stuparich, il 13 agosto la pittrice Maria Lupieri, legata d’amicizia a entrambe, mediatrice, trait d’union affettivo tra loro. «Maria mancata oggi ti abbraccio» scrive Linuccia da Roma, dove l’artista era andata a tentare altre cure. La misogina Anita, che definiva Maria «l’unica amica», forse si rammarica che accanto a lei, fino all’ultimo, ci sia Linuccia. 


Ricorrenti sono le annotazioni legate ad acciacchi vari, la nefrite e l’herpes di Linuccia, il cuore “strapazzato” di Anita, che diventa esaurimento nervoso man mano che la situazione dello Zibaldone si complica («se deve morire non mi resta che morire anch’io. Altra strada non ho...»). A farle il sangue cattivo è anche l’ambiente dell’editoria nazionale, i giornalisti “omaggiati” dei preziosi libretti dello Zibaldone che li ignorano, i recensori del Corriere, dove occuparsi della poesia di Saba “purtroppo tocca a Montale o a Cecchi”. O i postulanti come Stelio Mattioni (che raccoglieva materiale per la sua biografia di Saba), “mediocrissimo con grandi ambizioni”, “fascista e matto”, “invadente” “un che se sburta” secondo il tagliente giudizio di Anita, su cui Linuccia concorda: “È di quelli che pensano: noi poveri triestini, che nissun ne iuta a scriver le biografie dei nostri grandi”.


Perchè il romanzo epistolare si interrompe di colpo? Ne parla, nella postfazione al volume, Roberto Benedetti, mettendo in luce, attraverso altre corrispondenze che coinvolgono Maria Lupieri e sua sorella Ena, quanto di “non detto” ci fosse tra le righe delle lettere, quanto la personalità di Anita fosse ingombrante, il suo egocentrismo insopportabile, quanto Linuccia si lamentasse di lei con altri e cercasse di sottrarsi alle sue pressioni. Anche l’amicizia condivisa con Maria, e in seguito la celebrazione postuma della pittrice a Trieste, che non la vide protagonista, fu motivo di gelosia per la Pittoni. Nell’ultima lettera a Linuccia, quel 22 dicembre 1965, Anita, ritornando sulla trita faccenda delle lettere, menziona un nuovo fronte: alcuni inediti di Svevo che vuole pubblicare e il conflitto con la figlia Letizia Fonda Savio che li considera suoi.

 

La pittrice Maria Lupieri (1901-1961)

 

Un copione di cui Linuccia già conosce la fine. Non commenta e si congeda. In un’intervista del 1980, poco prima della morte, parla dell’eccellenza delle donne triestine citando Fiore de Enriquez, Leonor Fini e Maria Lupieri. Per Anita neanche una parola.

martedì 17 novembre 2020

MODA & MODI

Il flower power di Jill versus

il military chic di Melania

 

 

Fiori contro le uniformi, Jill versus Melania. È la sintesi del nuovo corso alla Casa Bianca, che con la signora Biden segna un cambio di passo anche nel guardaroba. Si è visto nei due dibattiti faccia a faccia dei mariti prima del voto, le uniche occasioni in cui le first ladies, una in carica e una ancora aspirante, sono apparse accanto sullo stesso palco.

 

Jill Biden a Cleveland

 

Melania a Cleveland

 

A Cleveland Melania vestiva un tailleur pantalone gessato Dolce&Gabbana, rigido e inespugnabile, da amministratore delegato di una coppia in affari, mentre Jill fluttuava in un abito verde bottiglia con pannello a frange sul davanti. A Nashville, nell’ultimo confronto, dr Jill, come la chiamano i media per le due lauree e il dottorato in educazione, si è gettata al collo del marito in un tubino a maniche corte cosparso di fiori su fondo azzurro, griffe a parti invertite ancora una volta Dolce&Gabbana, mentre Melania era sideralmente distaccata, anche dalla mano di Donald, nel suo Dior blu a braccia nude, issata sul piedistallo delle inconfondibili Louboutin.

 

Il faccia a faccia a Nashville

 

 

 

Melania in un  militare Alexander McQueen parla alla Convention Repubblicana dal giardino della Casa Bianca, agosto 2020

 

 Tramonta il military chic della signora Trump, le cinture strette in vita, i lunghi cappotti come uniformi da parata, la palette mimetica con tanto nero, verde oliva, bottoni dorati. Il suo incedere da ex indossatrice, che accanto a The Donald sembrava la falcata di un corazziere, quasi a sottolineare la muscolarità dell’approccio.

 

 

Jill Biden in Oscar de la Renta

 

Sul palco la nuova Flotus Jill ha portato una spruzzata di flower power, a trasmettere empatia e inclusione, un linguaggio fisico fatto di contatti spontanei piuttosto che di mani unite per circostanza, anch’essi segnali di un’inversione di rotta nella politica. Perchè nessuna scelta delle first ladies è casuale o priva di conseguenze agli occhi degli osservatori. Nel primo discorso di Biden da presidente eletto Jill era al suo fianco vestita in un asimmetrico blu firmato da Oscar de la Renta (i cui direttori creativi, Fernando Garcia e Laura Kim, sono entrambi immigrati negli Stati Uniti), percorso da un ramo di fiori ricamati con gialli e rossi in evidenza.

 

Il cambio di stagione è radicale negli armadi della Casa Bianca. Ma sicuramente i consiglieri della nuova first lady sono già al lavoro per rendere il suo messaggio meno naif. Dopo i colori e i fiori dell’euforia, servono precisione, armonia, dettagli per lasciare il proprio segno nello stile. E in questo la soldatessa Melania non ha sbagliato.

venerdì 13 novembre 2020

L'intervista

Le donne Curiel: Ortensia, Gigliola, Raffaella

Una dinastia nella moda

 

Determinata, creativa, affascinante, in anticipo sui tempi. Una donna moderna, che ha attraversato i capitoli più bui del ‘900 senza mai rinunciare al suo sogno di bambina: disegnare abiti, diventare stilista, aprire un atelier, far splendere le donne. Gigliola Curiel (1919-1969) l’ha realizzato quel sogno, nonostante la guerra, le persecuzioni contro gli ebrei, le fughe rocambolesche, il dolore per la morte del fratello maggiore, Eugenio, illuminato intellettuale antifascista, medaglia d’oro al valor militare, freddato a colpi di pistola in strada a Milano il 24 febbraio 1945.


La griffe Curiel è un capitolo importante della storia della moda italiana, che oggi ci racconta Gaetano Castellini Curiel, figlio della primogenita di Gigliola, Raffaella, anche lei stilista di successo, nel libro appena uscito “Gigliola Curiel. Una vita nella moda” (Le Lettere).

 



Gigliola Curiel a Trieste

 

 Questa dinastia creativa al femminile comincia a Palazzo Smolars, a Trieste, tra via Mazzini e via Dante, agli albori del secolo scorso. Di famiglia triestina, Gigliola respira e assorbe stile e gusto nella sartoria di zia Ortensia, sorella del padre Giulio e prima di otto figli, che, negli anni Venti, dopo aver aiutato a crescere i fratelli, col sostegno del marito Benedetto Pardo apre il suo laboratorio e diventa la sarta più ricercata di Trieste. I suoi modelli piacciono alle nobildonne viennesi, alle signore dell’alta borghesia cittadina, ad attrici e cantanti di grido. Ma quello di Gaetano, nato pochi mesi dopo la morte della nonna, non è solo il racconto di una personalità dirompente, al centro di un’avventura imprenditoriale che ancora continua. È la biografia di una grande famiglia ebrea, i cui componenti testimoniano, nei loro percorsi di vita, gli ideali, gli orrori, le conquiste di un intero secolo.


Gaetano, chi erano i Curiel? Il capofamiglia, Giulio, era un ingegnere navale, di famiglia triestina da generazioni. Aveva sposato Lucia, sorella del filosofo Ludovico Limentani. Vivevano in via Romagna, la sera Lucia si metteva al piano e i ragazzi cantavano. Nel 1929, per la crisi internazionale e per il calo delle commesse navali con il passaggio all’Italia, i Curiel hanno gravi problemi economici. Quando cominciano a risollevarsi, Giulio si ammala e muore. Da buoni triestini i quattro figli lasciano la città e cominciano a viaggiare. Eugenio studia fisica a Firenze e poi a Padova, dove si laurea, studia filosofia, intraprende la carriera accademica, aderisce al Partito comunista. Sergio va nei paesi scandinavi e si occupa di import export di legname. Grazia si sposa a Milano e Gigliola, che ha una grande passione per la moda, a 25 anni decide di seguire la sorella per cercare di realizzare il suo sogno. Comincia mostrando i disegni dei suoi modelli a un sarto di via Durini.

 

La famiglia Curiel: mamma Lucia, Eugenio, Sergio, Grazia e Gigliola

 


E si sposa... Nel ’41, con Carlo Bettinelli, commerciante di pelli. Lui era molto legato al Vaticano e in quei momenti poteva tornare utile essere la moglie di un cattolico. Il marito aveva stabilimenti in Germania e Russia, ma Gigliola non si accontenta di fare la moglie di un uomo abbiente. È decisa, indipendente. Si separa che è incinta di mia mamma Raffaella. La bambina nascerà a Gardone Riviera, in casa di un gerarca fascista. Gigliola era finita lì grazie a una sua amica, la contessa Pletikova, una di quelle persone che aiutavano gli ebrei a scappare, oggi le chiameremmo “fixer”, e che a sua volta era amica del gerarca. Gigliola partorisce da single e quando il lago di Garda diventa il quartier generale delle truppe di Salò decide di scappare. Tramite il colonnello Giuseppe Ghisetti, un suo ammiratore, arriva a Roma.


Dove? All’Hotel Plaza, quartier generale delle SS. “Mi cercheranno dappertutto tranne qua”, diceva. Un bel coraggio, lei, ebrea, con un fratello al confino a Ventotene. Si presenta come cugina di Ghisetti, e, attraverso i contatti di questo con Eugen Dolmann, il capo dei servizi segreti nazisti in Italia, può sistemarsi nell’albergo. A Roma conosce Maria Alzetta, una giovane friulana, che diventa la tata di mia mamma e poi anche di mia zia Gabriella. È rimasta in casa nostra quarant’anni. Aveva lavorato per l’ambasciatore d’Italia a Berlino e quando i nazisti le fermavano lei parlava con loro in tedesco, mentre mia nonna scappava.

 

 

Gigliola con la piccola Raffaella

 


Aveva rinunciato alla moda? Macchè. Si era finta cliente per entrare nell’atelier delle sorelle Fontana con i suoi disegni. Lì incontra Micol, che capisce subito il suo talento. Ne nacque un rapporto di stima reciproca, rimasero in contatto. Intanto mia nonna si spostava, arrivavano notizie che gli americani stavano per sbarcare e lei andava loro incontro. In Umbria, ad Anzio, a Napoli... seminava corteggiatori da tutte le parti. Il marito era sparito, lei era una donna libera.


Anche Sergio ha una brutta avventura... Sergio viene arrestato e portato in via Tasso, nella sede della Gestapo, dove cercano di carpirgli informazioni su Eugenio. Lui prova a corrompere qualcuno ma non ci riesce e, dopo alcune ore in cella, all’alba viene messo sul camion diretto alle Fosse Ardeatine. È allora che finge una rissa, un soldato tedesco lo blocca e lo butta giù dal camion. Lo credono morto e lo lasciano lì. Riuscirà a tornare a Roma seppure con una gamba ferita.


Sua nonna spezzava i cuori, ma si innamorerà ancora? Certo, di Nino Brozzetti, un amico di Sergio, che l’aveva conosciuto in Albania, come lui imprenditore dell’import export. Fu Sergio a fargli incontrare Gigliola, che per uno dei suoi spostamenti si trovava a Todi. Tra i due scoppiò un grande amore, un amore scandaloso, perché Nino era sposato con una maestra del posto. Più tardi, a Milano, nacque la loro figlia Gabriella.


Il 1945 è un anno cruciale... A pochi giorni dalla Liberazione muore Eugenio, l’intellettuale che si scriveva con Einstein, il fratello amatissimo, il punto di riferimento. Per mia nonna è un dolore lacerante. Ho scoperto durante le ricerche per il libro che Berlinguer aveva dichiarato che veniva a Milano solo in due occasioni, per rendere omaggio alla tomba di Eugenio Curiel e per la festa dell’Unità.


E l’atelier? Nonostante il dolore, Gigliola lo apre nello stesso anno, in via Borgogna a Milano, sopra il bar Ginrosa, affacciato su piazza San Babila. Nell’euforia post bellica la gente aveva voglia di rinascere, di uscire, di vestirsi bene. Ha subito successo. Casa sua e di Nino diventa un salotto particolare. E ancora una volta lei rompe gli schemi, mescola le persone: artisti, intellettuali, imprenditori e le sue mannequin, come Maria che sposerà Renato Angiolillo, fondatore e direttore del Tempo, o Marta, la futura contessa Marzotto. 

 



La vita nell'atelier Curiel a Milano, aperto nel '45

 


A Parigi non incontrò Dior ma... Lo scià di Persia, Reza Pahlevi. Si incrociarono nell’atelier di Dior in Avenue Montagne, dove Gigliola era andata a comprare dei disegni. La sera, tornando in albergo, si ritrovò la vasca della stanza da bagno piena di rose cremisi inviate dallo scià. Gliele rimandò indietro. Era una grande seduttrice, non bellissima in senso tradizionale, ma piena di energia. Il suo atelier arrivò a impiegare più di cento lavoranti, a rivaleggiare con Biki, Jole Veneziani, Germana Marucelli, le grandi sarte che vestivano le signore alla Scala, come fece anche lei.

 




 


Gigliola Curiel alla prima della Scala ne l1960

 


È vero che Camilla Cederna definì Gigliola “la mamma degli scemarelli”? Sì, sull’Europeo chiamò i modelli da giorno “scemarelli” o “curiellini”. Mia nonna si inventò uno spin off dell’abito nero di Chanel, tubini che potevi mettere di giorno o di sera solo cambiando un accessorio. Grazie alla lobby ebraica entrò in contatto con Bergdorf Goodman a New York e li vendette subito in America. È stata la prima stilista italiana a esportare negli Usa il Made in Italy. E le americane quando venivano in Italia compravano nel suo atelier.

 

Raffaella Curiel con la madre Gigliola

 


Com’era il rapporto tra Raffaella e sua nonna? Mia madre si sentiva un po’ soffocata. Nei suoi confronti l’educazione era più rigida rispetto a quella della sorella. Quando litigavano per questo, mia nonna le diceva “tua sorella ha un padre”, perché nel frattempo Carlo si era risposato e aveva avuto altri figli. Ci teneva che Raffaella frequentasse l’alta borghesia milanese, che andasse in chiesa, mentre Gabriella era più libera. In generale però la famiglia era di idee molto aperte. Comunque mia mamma dovette minacciare di andare a lavorare alla Rinascente perchè mia nonna le affidasse una collezione.


Oggi l'atelier Curiel? È stato acquisito dal colosso cinese Redstone. L’archivio è ancora a Milano ed è stato completamente digitalizzato, disegno per disegno. Mia madre ha aperto un altro atelier per le sue clienti che cercano l’alta moda e il ready to wear, mentre mia sorella Gigliola è rimasta a lavorare con i nuovi proprietari, che sono più orientati al mercato dei Millennial, al prêt-à-porter.


Sua madre che cosa le ha detto del libro? Si è commossa. Mia zia invece è rimasta colpita da come sia riuscito a far emergere il carattere della nonna pur non avendola conosciuta. In questo periodo più che mai è importante ricostruire la storia delle persone della propria famiglia, andare indietro nel tempo, cercare le loro tracce. Un patrimonio da lasciare per il futuro.

mercoledì 4 novembre 2020

MODA & MODI

 

L'obiettivo di Parks alla Fondazione Bisazza

 




 

 




 




Un meraviglioso spazio tutto da scoprire quello della Fondazione Bisazza a Montecchio Maggiore in provincia di Vicenza. Negli enormi capannoni un tempo dedicati alla produzione industriale di tessere da mosaico, oggi delocalizzata in India, sono stati ricavati circa ottomila metri quadri di gallerie espositive, dedicate all’architettura e al design e affacciate su giardini dal sapore zen. È qui che oggi trovano una collocazione ideale le fotografie di moda firmate da Norman Parkinson e da altri quattro maestri internazionali come gli americani Milton Greene, il ritrattista delle celebrità, tra cui un’intensa Marilyn, e Jerry Schatzberg e gli inglesi Terence Donovan e Terry O’Neill.

 

Nei loro obiettivi fermano e restituiscono ai visitatori i cambiamenti nel ruolo delle donne, le trasformazioni della società, del gusto, del modo di vestire e il nuovo linguaggio con cui la moda comunicava se stessa in un arco di tempo cruciale del secolo scorso. 1948-1968, dalla fame di vita all’indomani della guerra agli anni della liberazione femminile sulle ali dei movimenti giovanili della contestazione. Parkinson, “Parks”, nel percorso studiato dalla curatrice Caterina Carrillo de Albornoz, ci racconta scatto dopo scatto il glamour degli anni ‘50, gli swinging ‘60, lo stile urbano, il guardaroba dei viaggi, la couture postbellica.

 

Cambia il modo di rappresentare le donne nei servizi di moda, non più modelle artificialmente in posa negli studi, ma in movimento nelle metropoli, in spiaggia, donne in viaggio o immortalate in destinazioni esotiche. Nel percorso - in totale per i quattro artisti una settantina di immagini - ci fa idealmente da guida la moglie di Parkinson, la altissima e scolpita modella Wenda (oggi 97 anni), che trasmette la quintessenza di un’eleganza ineffabile. Tra le chicche, una sensuale e giovanissima Carmen Dell’Orefice, mannequin quasi novantenne che ancora sfila, ritratta da Parks in abito da sera, mentre con un braccio nudo nasconde gli occhi e con l’altro afferra la preda maschile. E un modello Capucci nel 1951, fotografato da Milton Greene su una vecchia scala a chiocciola, le enormi volute della gonna a riprendere la curva degli scalini.


Da visitare anche un’interessante collezione permanente di enormi oggetti pop firmati da artisti, architetti e designer - Urquiola, Sottsass, Mendini, Cibic, Paladino, Chia, tra gli altri - e realizzati in tessere di mosaico.

info@fondazionebisazza.it

giovedì 29 ottobre 2020

IL LIBRO

Due donne, un'ex moglie, un'amante

Cristina Comencini: Quando "l'altra" non è più una nemica 




 

«Quello di cui voglio scrivere non riguarda il nostro amore, ormai finito da tempo. La passione, la convivenza tra un uomo e una donna sono sempre uniche quando ci sei dentro, banali e ripetitive se le vedi da fuori. Voglio scrivere di lei, e di lui tra noi». Elena, venticinque anni, giovane professionista, e Maria, over cinquanta, separata con tre figli, sono, reciprocamente, “l’altra”. In mezzo a loro Pietro. Era l’ex professore universitario di Elena e ora sta con lei, che ha trent’anni in meno, in un quotidiano leggero fatto di cene a base di hummus e caipirinha, frigorifero sempre vuoto e buon sesso. Era l’ex marito di Maria, il padre di quei figli nati quando erano ancora entrambi all’università e vivevano un loro eden di amore, sogni, disordine, carriere da costruire, l’ostinazione di non voler replicare l’ipocrita modello domestico dei genitori. Poi il tradimento scoperto da Maria, Pietro che dorme con una collega durante i viaggi di lavoro, la rottura, per lei la prigione di una storia da cui non riesce a liberarsi.
Voler conoscere “l’altra” è una tentazione non originale, figuriamoci oggi, con le possibilità di nascondersi che offre la rete. Maria chiede l’amicizia a Elena su Facebook con un nome fasullo, poi le si para di fronte a una festa, rivela il trucco, e le dà appuntamento in un bar: «Informata? Io ho vissuto con te ogni giorno, come una sorella minore odiata, invidiata...».


Dopo l’incontro con quella donna alta, sicura di sè, elegante, la fotografa che ritrae solo letti sfatti, orme, tracce, quasi i relitti di un passato che non ce la fa a passare, anche Elena vuole sapere dell’«altra» e scorre all’indietro quello che Maria le scriveva di Pietro (nei post su Facebook trasformato in Alberto). La tenerezza, i litigi, i bambini, il peso della routine da cui lui cominciava a sentirsi schiacciato, la scoperta di una relazione, forse neanche la prima: «Tu mi chiedi perchè non me ne sono andata dopo che l’ho visto con l’altra donna? Perchè come dici tu, lei non era il problema, anche se l’ho pensato per anni e ho creato con l’immaginazione una terribile nemica. Il fatto è che sono dipendente dall’affetto accumulato, dai gesti replicati, dalla conoscenza reciproca e anche dalla noia, sì, anche da quella».


Per liberarsene Maria va a cercare Elena, l’ultima, “L’altra donna”. È il titolo del romanzo con cui Cristina Comencini (Einaudi), scrittrice, regista, drammaturga, ci trascina dentro il legame di due donne con lo stesso uomo, in due momenti diversi, e dentro il legame che si costruisce tra loro, seppure a distanza. Rivali? Solo nel senso etimologico di «chi spartisce con un’altra persona l’acqua di un medesimo ruscello». Perchè se Pietro è al centro di quel dialogo virtuale, mentre i racconti di entrambe su di lui si caricano di particolari, la sua figura rimpicciolisce sul fondo, un traditore compulsivo nè cattivo nè coraggioso, costretto a replicarsi, nella sua ricerca di conferme, fino alla fine. E nelle geometrie di questi rapporti, fatti di post, di lettere mai spedite, di confessioni - tra Maria, Pietro, l’amica di entrambi Rita, Elena - si inserisce alla fine anche Francesco, l’ultimo dei tre figli della coppia, bellissimo e dislessico, che sterza la vicenda al suo esito.

 

 

Cristina Comencini, scrittrice e regista
 


In qualche maniera l’incontro con l’altra è terapeutico. Per Maria dissipa le fantasie con cui aveva popolato la mente, per Elena è la perdita della leggerezza, la fine dell’inganno più crudele dell’amore, illudersi che si possa fare tabula rasa e cominciare ogni volta una nuova vita. Gli studi scientifici dicono che il 63% delle donne conserva il dna di tutti gli uomini con cui ha fatto sesso, è il cosiddetto “microchimerismo maschile”, la prima condivisione con tutte le altre, che sono venute prima e che verranno dopo. E in questa stratificazione, in questo cantiere sempre aperto che sono le relazioni, non c’è solo biologia, ma ricordi, scoperte, tradimenti, ritagli di felicità, dolore, strappi e altri inizi, mai vergini solo diversi. “Ora sapevo che non ci si salva da soli - dice Elena - che siamo una catena di storie d’amore, una dentro l’altra, e che i fallimenti appartengono a tutti... Ero figlia di una serie di donne che venivano prima di me, come lui lo era degli uomini e anche di quello che era stato con Maria». Le rivali che dividono l’acqua delle stesso ruscello - per abitudine, per piacere, per capriccio - non devono per forza essere nemiche.