venerdì 27 novembre 2020

IL CARTEGGIO INEDITO

Cara Linuccia, Cara Anita

le lettere di due amiche-nemiche

 


Linuccia col padre Umberto Saba


 

«Cara Linuccia, penso a te, che sei tutt’uno con la poesia di tuo padre e con Trieste». È il 6 settembre 1957, Umberto Saba è morto da undici giorni a Villa San Giusto di Gorizia, dove era ricoverato da nove mesi. Anita Pittoni, da Trieste, scrive alla figlia del poeta, Linuccia, che vive a Roma. Il passaggio della lettera dà il titolo al volume che raccoglie il carteggio inedito tra le due donne, l’una scrittrice, editrice, designer, l’altra pittrice, pubblicato ora da biblohaus in un’edizione critica a cura di Gabriella Norio. Le lettere appartengono al corposo Fondo Anita Pittoni, acquisito in tempi diversi dal Comune, che ha co-edito il libro con la Drogheria 28 di Simone Volpato. «Giani e io - prosegue la lettera, una delle primissime del volumetto - passiamo le ore leggendo il Canzoniere che è la nostra consolazione... La poesia di Saba è l’acqua fresca di una fonte magicamente lenitrice e forse guaritrice...».

 

 

La corrispondenza tra Anita e Linuccia, in tutto 131 lettere, copre un arco di tempo che va dal 1957 al 1966. Sono scritti per lo più brevi, che si susseguono a distanza ravvicinata nei primi anni, per poi diradarsi e interrompersi bruscamente. Pochi giorni prima del Natale 1965, il giorno 22, Anita scrive a Linuccia lamentando di non sentirla da molti mesi, dispiacendosi per la vita “assai dura”, anzi “cattiva” che conduce a Trieste (“per via di certa gente che mi gioca tiri continui”) e tornando sul tema che, come un fastidioso filo conduttore, una frizione latente e irrisolta tra le due, percorre tutto il carteggio: la mancata concessione di Linucca alla casa editrice di Anita, lo Zibaldone, delle lettere di Saba alla moglie Lina e a lei.

 

Linuccia con la mamma Lina Wolfler nel 1916

 


 


Linuccia, ha già detto il no definitivo, ben sei anni prima, accampando un presunto divieto dell’editore nazionale (“Einaudi mi ha risposto un no categorico”, scritto che ha purtroppo “smarrito”...). Ma nel biglietto datato 1 gennaio 1966, suona quasi tranchant e taglia corto con le lamentazioni di Anita: «Tutte le città dove si vive hanno un lato amaro, non solo Trieste. Trieste che ora a me, quando ci vengo in visita, pare così affettuosa e amichevole. Ti auguro un anno di buon lavoro e di serenità». Sarà l’ultima lettera che si scambiano.


Sono amiche, Anita e Linuccia, quel tanto che può consentirlo due personalità forti, determinate, prepotenti, poco disposte a cedere terreno. Per quanto punteggiate da vicendevoli attestazioni di stima e chiuse da ricordi e abbracci estesi ai rispettivi compagni, Giani Stuparich di Anita, Carlo Levi di Linuccia, con anche il marito di quest’ultima, Lionello Zorn Giorni, le lettere sono attraversate da una sottile tensione, da un filo di intransigenza, almeno per quanto riguarda gli interessi editoriali di entrambe.


A unire le due donne, all’indomani della morte di Saba, è il comune obiettivo di valorizzare l’opera e la figura del poeta, a dividerle inesorabilmente gli strumenti per raggiungerlo. L’unico progetto condiviso che va a buon fine è la pubblicazione con lo Zibaldone del saggio inedito di Saba “Quel che resta da fare ai poeti”, che vede la luce nella primavera del ’57 in 525 copie, in un’edizione lodata dalla critica e apprezzata molto da Linuccia. Altre iniziative editoriali sfumano. Lo Zibaldone sta in piedi a fatica, la Pittoni arranca dietro ai soldi e spesso i suoi progetti finiscono per rimanere annunci nei Bollettini pubblicitari che spedisce un po’ ovunque.

 

 

Anita Pittoni

 


Su un punto, però, Anita si era intestardita. La missive di Umberto a moglie e figlia, da editare in due libretti distinti. Non si contano le lettere in cui la Pittoni cerca di blandire e convincere Linuccia. «Lo Zibaldone è particolarmente adatto a queste pubblicazioni. Pensaci. Ed ha una cerchia scelta di lettori. E la collana triestina resta nella storia: questo te lo garantisco. Certo che Saba non ha bisogno di questo, ma dentro, nella collana triestina, tutto acquista un altro sentimento», le scrive l’1 maggio 1958. Insiste, più volte anche l’anno successivo, è assillante, progetta date, uscite, numero di cartelle e il 23 settembre aggiunge perentoria: «Le nostre edizioni sono limitatissime... Inoltre servono ad affezionare ancor più i lettori a Saba. Tu dici che non c’è bisogno? Ma l’affezione non è mai troppa».


Linuccia tergiversa, ha altri programmi. Sta lavorando a una monumentale raccolta di tutto l’epistolario paterno (si parla di circa 3mila lettere), da cui non vuole scorporare quelle private, che gli editori nazionali avrebbero senz’altro ritenuto le più appetibili per i lettori. E poi non è interessata a divulgare l’aspetto “familiare” del genitore, dell’uomo con le sue debolezze, ma solo a celebrare la fama del poeta. Anzi, si è fatta venire il mal di fegato per l’uscita del libro dell’amica del padre, Nora Baldi, intitolato “Il paradiso di Saba” ed edito nel ’58, prendendosela anche con Mondadori. «Quel libro per me è un dolore», scrive ad Anita. «L’abbondanza dei superlativi, sempre sgradevole, con l’accompagnamento di quei fatti, che raccontati da lei sono o sciocchi o assurdi, è pietoso». E Anita pronta la conforta: «Giani e io siamo rimasti orripilati. Non ci sono parole. Sotto tutte le immaginazioni negative che avevamo!». Nonostante questi tira e molla, nemmeno l’epistolario che Linuccia ha tanto a cuore riesce a essere pubblicato. Troppo imponente il lavoro per la sua salute cagionevole, le riuscirà solo di dare alle stampe l’”Epigrafe” del padre e di cominciare a dedicarsi alle Prose.

 


 


Pochi, nel carteggio, gli scambi più intimi e quasi sempre legati a lutti che toccano entrambe, a cominciare dalla morte di Giotti, il 21 settembre ’57 all’ospedale Maggiore, con la preoccupazione di Anita che la moglie Nina Schekotoff, già un po’ persa, venga sradicata dalla sua casa di via Lamarmora 34, da quelle stanze - scrive - «che hanno dentro il cielo, dove tutto è ordinato e tranquillo». Nel gennaio 1960 muore il fratello di Anita, Bruno. L’anno orribile è però il 1961. Il 7 aprile la malattia si porta via Giani Stuparich, il 13 agosto la pittrice Maria Lupieri, legata d’amicizia a entrambe, mediatrice, trait d’union affettivo tra loro. «Maria mancata oggi ti abbraccio» scrive Linuccia da Roma, dove l’artista era andata a tentare altre cure. La misogina Anita, che definiva Maria «l’unica amica», forse si rammarica che accanto a lei, fino all’ultimo, ci sia Linuccia. 


Ricorrenti sono le annotazioni legate ad acciacchi vari, la nefrite e l’herpes di Linuccia, il cuore “strapazzato” di Anita, che diventa esaurimento nervoso man mano che la situazione dello Zibaldone si complica («se deve morire non mi resta che morire anch’io. Altra strada non ho...»). A farle il sangue cattivo è anche l’ambiente dell’editoria nazionale, i giornalisti “omaggiati” dei preziosi libretti dello Zibaldone che li ignorano, i recensori del Corriere, dove occuparsi della poesia di Saba “purtroppo tocca a Montale o a Cecchi”. O i postulanti come Stelio Mattioni (che raccoglieva materiale per la sua biografia di Saba), “mediocrissimo con grandi ambizioni”, “fascista e matto”, “invadente” “un che se sburta” secondo il tagliente giudizio di Anita, su cui Linuccia concorda: “È di quelli che pensano: noi poveri triestini, che nissun ne iuta a scriver le biografie dei nostri grandi”.


Perchè il romanzo epistolare si interrompe di colpo? Ne parla, nella postfazione al volume, Roberto Benedetti, mettendo in luce, attraverso altre corrispondenze che coinvolgono Maria Lupieri e sua sorella Ena, quanto di “non detto” ci fosse tra le righe delle lettere, quanto la personalità di Anita fosse ingombrante, il suo egocentrismo insopportabile, quanto Linuccia si lamentasse di lei con altri e cercasse di sottrarsi alle sue pressioni. Anche l’amicizia condivisa con Maria, e in seguito la celebrazione postuma della pittrice a Trieste, che non la vide protagonista, fu motivo di gelosia per la Pittoni. Nell’ultima lettera a Linuccia, quel 22 dicembre 1965, Anita, ritornando sulla trita faccenda delle lettere, menziona un nuovo fronte: alcuni inediti di Svevo che vuole pubblicare e il conflitto con la figlia Letizia Fonda Savio che li considera suoi.

 

La pittrice Maria Lupieri (1901-1961)

 

Un copione di cui Linuccia già conosce la fine. Non commenta e si congeda. In un’intervista del 1980, poco prima della morte, parla dell’eccellenza delle donne triestine citando Fiore de Enriquez, Leonor Fini e Maria Lupieri. Per Anita neanche una parola.

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