mercoledì 14 luglio 2021

MODA & MODI

Giada torna in viaggio con le collane mappe 


Silvia Vatta indossa un orecchino di Giulia Savino della linea Istantanee


 

È questa l’ultima settimana di apertura “fisica” di Giada (fino al 17 luglio 2021), lo spazio di via Roma a Trieste dedicato al gioiello contemporaneo e alla ricerca e proposta di nuovi designer europei. Silvia Vatta, che lo gestisce da anni sulla scorta di una tradizione familiare cominciata negli anni  '60 con la nonna, che operava nel settore dell’oro, ha deciso di continuare la sua attività per il momento solo online.

Chiudere, il negozio, però, è solo la tappa di un percorso. E non a caso la prima collezione che metterà in Rete una volta abbassate le serrande sarà una selezione di pezzi della designer torinese Giulia Savino, orecchini e collane, dedicati al tema del viaggio. Viaggio che è spostamento geografico, ma anche sperimentazione di nuovi linguaggi e strumenti, in un momento che chiede a tutti di ritrovarsi e reinventarsi. 

E piccoli ma intensi viaggi nella fantasia, nella creatività, nell’artigianalità della mente e del cuore, sono stati quelli proposti da Giada in questi anni, che ha spesso aperto le porte del negozio ai creativi, perché raccontassero in presa diretta il loro mondo. Tanti gli incontri, con Antonello Malfa e i suoi stupefacenti pezzi naturali, anelli, orecchini e ciondoli ricavati da conchiglie, ricci, coralli, pietre, che lui stesso definisce “arcimboldi dell’accessorio”; o con il “trottolaio” Mauro Sarti, che dall’arte antica del giocattolo ha trasferito nei suoi anelli i giochi e gli incastri perfetti di curve e rette, l’equilibrio delle forme e dei legni, conservandone lo spirito ludico; o con Simone Vera Bath, la designer tedesca nei cui anelli e collane si rintracciano gli studi di architettura e storia dell’arte, pezzi ferrigni in bronzo, argento, oro, dove la bellezza sta nella “sorpresa dell’irregolarità”.
 

Avete mai pensato di mettervi una città al collo? Di trasformare la mappa di Roma, Firenze, Bruxelles, Parigi, New York in una collana a catenella di ottone placcato oro, che disegna con leggerezza sul busto un itinerario del cuore? È questo il viaggio che intraprende ora online Silvia Vatta insieme alla designer Giulia Savino, creatrice e responsabile del dipartimento di gioielleria dell’Istituto europeo del design di Milano, la cui collezione dedicata a città e metropoli del mondo si intitola 1.20.000. Anche i suoi orecchini in ottone placcato a polvere sono ”Istantanee” colorate o in bianco e nero, dal nome di un’altra collezione che ci porta in giro per il mondo in una serie dedicata alle architetture di palazzi e musei, concentrate in piccoli e leggerissimi pezzi geometrici.
 

Parola chiave, dunque, il viaggio. Che in questi mesi di confinamento a singhiozzo nel planetario spazio virtuale ha offerto a tanti l’opportunità di non rinunciare ai propri sogni e di continuare a fare ricerca, paradossalmente moltiplicando le occasioni di incontro seppure filtrate da uno schermo. Viaggio che è anche accettare la sfida, e le rinunce, della trasformazione. In questo senso lo interpreta Silvia Vatta, puntando a ritornare in presenza e a riprendere gli eventi con i creativi, contro l’impersonalità e la serialità delle produzioni industriali. Se qualcosa ci hanno lasciato lockdown e chiusure, è la voglia di unicità, di ascoltare la storia, personalissima, racchiusa anche in un piccolo accessorio di materiali poveri. E in un prossimo futuro potrebbe esserci la mappa di Trieste da indossare come una collana. Il viaggio ricomincerà da lì.  www.giadatrieste.com

domenica 11 luglio 2021

IL LIBRO 

 Madeleine St John e il cuore segreto delle cose

 

 


In tre anni, dalla prima pubblicazione de “Le signore in nero” nel 2019, l’editore Garzanti ci ha fatto scoprire il talento di Madeleine St John, unica scrittrice australiana candidata al Man Booker Prize e proprio con il romanzo, il suo terzo, appena arrivato in libreria, “Il cuore segreto delle cose” (pagg. 206, euro 16, traduzione di Mariagiulia Castagnone, in originale "The Essence of the Thing", anno 1997). Come in “Una donna quasi perfetta”, il secondo titolo di St John, uscito nel 2020, tutto succede nelle prime due pagine: là era la scoperta di un tradimento, qui una rottura.
«Non c’è un bel modo per dirlo, ma ho deciso... sì, insomma, sono arrivato alla conclusione... che dobbiamo lasciarci». In un salotto di Notting Hill a Londra - dove la stessa autrice, morta nel 2006, visse a lungo facendo la commessa in librerie e antiquari - Jonathan, avvocato, pronuncia queste parole con una «maschera di tranquilla sicurezza». La sua compagna Nicola, il cappotto ancora indosso e le mani chiuse sul pacchetto di sigarette appena comprato, sente «che lo stomaco si era fatto di ghiaccio, le caviglie erano diventate acqua».

 


 


Dopo anni di convivenza, l’annuncio della fine arriva senza apparenti segnali premonitori. «Mi dispiace, ma è meglio essere chiari. Questa cosa tra noi non funziona, lo sai bene anche tu», continua lui, snocciolando un elenco di faccende pratiche da sbrigare: se ne andrà il weekend dai genitori (e siamo a giovedì) così lei avrà il tempo di lasciare la casa, lunedì verrà l’agente per una valutazione aggiornata, naturalmente sarà lui a rilevarla. Tre giorni prima hanno fatto l’amore? Irrilevante per Jonathan: «Gli uomini hanno un atteggiamento verso il sesso diverso da quello delle donne, cosa che d’altronde succede in molti altri campi». Non dà spiegazioni, il rapporto è liquidato come una pratica legale, sono le donne che hanno bisogno di frugare nell’anima altrui perchè “devono compensare il loro vuoto interiore”...


Da questo momento le loro vite si separano. Jonathan mente ai genitori sulla rottura, ma si rincuora al pensiero che il peggio è passato e che tra poche ore sarà definitivamente libero da esami continui, intimità, condivisione di sè. “Libero e solo, perchè la solitudine equivaleva alla libertà”: così si convince. Nicola, invece, nell’appendice della convivenza forzata che precede il suo trasferimento, continua a stirare le camicie di lui e a scervellarsi, cercando di rivivere il passato e di trovare il punto il cui tutto ha cominciato a incrinarsi. Saranno stati quei black out inspiegabili di attenzione nei suoi confronti? Il periodo di pausa dalla pillola anticoncezionale, che obbliga a fare i conti con un possibile futuro familiare? Ma mentre combatte per nascondere la disperazione, trova in sè un’energia insperata: detta le condizioni perchè in casa non si incrocino e pretende di sapere la verità. Non c’è un’altra, ha detto Jonathan. E allora? 


Quando riesce finalmente a metterlo all’angolo, dismettendo quel distacco e quella freddezza che ha indossato facendosi violenza per difendere la sua vulnerabilità, il responso di lui non lascia spiragli: “stiamo perdendo tempo”, “non voglio più vivere con te”, “questo rapporto non ha futuro”. E il definitivo: “io non ti amo”.


Madeleine St John e un’artista nel non far succedere più niente, se non nell’anima della sua sconquassata protagonista. Come ne “Le signore in nero” o “Una donna quasi perfetta” (che chi non ha letto avrà il piacere di scoprire avendo a disposizione oggi in italiano tre dei quattro romanzi della St John), sono gli interstizi delle relazioni a interessarla, quei confini labili dove l’abitudine diventa indifferenza, la confidenza nell’altro egoismo, la convivenza sottile prova di forza, l’autocompiacimento abuso del partner.


Jonathan resta lì, nel bell’appartamento di Notting Hill, che improvvisamente ha “smesso di respirare”. Nicola va avanti, attraversando tutte le fasi della fine di una relazione: l’incredulità, il senso di colpa, la devastazione, il sostegno delle amiche, i primi tentativi di reagire affacciandosi a una vita diversa, che non è fatta per lei ma la riporta a galla.


Le donne di St John sono sempre delle sopravvissute, com’è stata lei, colta e irrisolta, in bilico tra mondi diversi. Donne raccontate senza femminismo militante, senza frustrazione o vittimismo, colte nella loro scomposta, disarmata, tenace volontà di darsi altre opportunità e rimettersi in gioco. Le ultime pagine del romanzo sono un piccolo colpo di teatro, che rimette i protagonisti l’una di fronte all’altro, a ruoli già invertiti. Nessuno vince, perché St John preferisce al lieto fine consolatorio fermarsi sulla soglia degli smottamenti dell’animo, al bivio di scelte. Lasciando a Nicola, a tutte le altre, a noi, la responsabilità, forse il privilegio di sbagliare ancora, magari di tornare indietro.

sabato 3 luglio 2021

LA RISCOPERTA

 

Pia Rimini e L'Amore Muto delle donne

 

 

“L’amore muto” dà il titolo alla raccolta di racconti di Pia Rimini, che la casa editrice Readerforblind ha appena pubblicato. Una preziosa riscoperta - quattro anni dopo l’uscita in forma di e-book del suo primo romanzo, “Il giunco” (1930) per Tombolini editore, con la prefazione di Maria Neglia - che restituisce intatte la potenza e la ricchezza della scrittura di un’autrice diventata precocemente famosa tra gli anni Venti e Trenta, recensita non solo da giornali femminili come “Lidel”, ma dal Corriere della Sera, dal Popolo d’Italia, dal Giornale d’Italia, dal Marzocco, dall’Italia Letteraria. Di lei la la Stampa scrisse “più del Soldati e del Moravia possiede qualità davvero promettenti”.

 

 



Oggi Pia Rimini non la ricorda quasi nessuno. Nata nel 1900 a Trieste da un’ottima famiglia borghese e morta ad Auschwitz nel 1945, fu portata alla Risiera di San Sabba a causa del cognome ebreo nonostante si fosse convertita al cattolicesimo e battezzata. Nulla potè l’intercessione del vescovo Antonio Santin, amico di famiglia, il “pastore santo” che l’aveva guidata ad abbracciare la fede cattolica all’annuncio delle leggi razziali.


Al di là della sua prosa, forte, piena di odori, sapori, umori, vicina ai moduli del verismo ma al tempo stesso originale, al di là dei temi, che oggi rileggiamo con stupore per la modernità e la sensibilità dello scavo nella psicologia femminile, è la stessa vita di Pia Rimini ad avere molto del romanzo. Affascinante, coraggiosa, a diciott’anni restò incinta di un ufficiale arrivato a Trieste con l’esercito liberatore e decise di portare avanti sola la gravidanza, che si concluse col dramma della nascita di un bambino morto. Questo strazio personale attraversa quasi tutti i racconti de “L’amore muto”, dove la maternità negata, strappata, umiliata è uno dei motivi ricorrenti, sempre affrontato in modo viscerale e con uno sguardo empatico nei confronti delle vittime, madri e bambini. Diventata scrittrice di successo, Pia Rimini si sposò nel 1937 con Ercole Rivalta, anch’egli ebreo e molto più anziano, giornalista irredentista, antisocialista e antislavo, che l’aveva aiutata a emergere come autrice nel panorama nazionale. Il matrimonio finì dopo poco col divorzio. Pia passò per la Risiera e da lì fu messa su un convoglio diretto al campo di sterminio in Polonia.

 

Pia Rimini

 


È un paradosso - scrive Giulia Caminito nella prefazione alla selezione dei diciotto racconti - che in passato la scrittrice sia stata criticata per essere “ripetitiva” - perchè le sue protagoniste sono sempre usate dagli uomini e disperate - “presenzialista” - perchè prendeva la parola a tutte le conferenze - “permalosa”, perchè si accalorava e non gradiva le critiche. Sono proprio questi “difetti” che oggi ne sollecitano la riscoperta e l’approfondimento. Una donna convinta delle sue scelte, sicura nell’esporle pubblicamente, un’intellettuale che nel periodo in cui nascono i primi movimenti femministi in tutta Europa e, a causa della guerra, la componente femminile entra massicciamente nell’industria, nell’agricoltura, nella sanità, si fa paladina delle istanze e dei diritti delle donne, in famiglia e nei luoghi di lavoro. Una scrittrice che si mette in dialogo ideale con Ada Negri, Matilde Serao, Amanda Guglielminetti, Sibilla Aleramo, ai cui registri l’avvicinano molti passi de “L’amore muto”, pur mantenendo ognuna di queste autrici la personalità del suo sguardo e della sua cifra.


Perché l’amore muto? Perché la protagonista del racconto è il paradigma di tutte le altre che incontriamo in questi scritti. Secca, gialla, Sollazzi Letizia, inaridita senza essere mai fiorita. Una ragazza affamata d’amore a cui la Sora Domenica, una sorta di sensale di unioni sbilenche e di opportunità, procura una marito che non sarà mai tale. “Attese una, due, tre notti, una settimana, un mese, e l’amore aveva sempre la stessa faccia spietatamente serena: un bacio in fronte, la mattina, una stretta di mano prima e dopo l’ora di ufficio e la sera una buona notte che usciva di tra il guanciale e le lenzuola, bianco e freddo. Poi: il buio. E attesa e oscurità diventavano tutta un’angoscia sbigottita, turgida di rancore”.

 


 


Tra i ritratti di Pia Rimini c’è Cicciotta, la cameriera quindicenne che respira sul lenzuolo gli odori e le forme dell’uomo al quale ogni mattina rifà il letto, quel signor Francesco che la prende come una cosa sua, mentre a lei resta solo l’angoscia delle lenzuola di bucato macchiate e di un alone di unto sui pantaloni di lui da togliere. E la Mora, cameriera e prostituta per tirar su il figlioletto, che si concede il lusso di amare e scopre l’inganno dell’uomo con cui aveva sognato una famiglia solo dopo la sua morte, costretta all’umiliazione di fingere davanti alla vedova. E Teresa, la protagonista del racconto d’apertura, “Maria e Giacomo”, una donna che ha appena perso il suo bambino e che non potrà averne altri. Nei pensieri che la attraversano nel suo letto ospedale riconosciamo il tormento mai risolto dell’autrice, quella smania di essere in qualche modo ricambiata nel suo dare e darsi che non trova esito.


A Pia Rimini - fa notare Giulia Caminito - venne riconosciuto fin dalle prime recensioni la capacità di raccontare le donne della sua epoca, ragazze costrette a matrimoni di convenienza, ingannate con finte promesse, abusate nel silenzio di tutti, sfruttate nel lavoro e nel letto, tormentate da figli perduti, malnutriti, sottratti, donne stroncate in ogni tentativo di ribellione a un destino imprigionato nei ruoli sociali. Forte è l’attenzione al corpo femminile, spesso descritto nei sussulti di una passione che è tutta sogno e aspettativa, e finisce avvilita al contatto con la brutalità è l’indifferenza.


E sorprende quanto l’autrice riesca a parlare in modo così diretto, scoperto e insieme delicato, della sensualità delle sue protagoniste. Donne che cercano l’amore ma anche il piacere, percepito, certo inconsciamente, in modo confuso e contraddittorio, ma in qualche modo come uno scopo a cui aspirare, come la ragazza anonima del racconto “Il calice che non si svuota”: “La sera, nel suo lettuccio, diceva entro sè: sono sua; e si premeva sul materasso, pensando che fosse lui. E provava una gioia intensa al pensiero che niente poteva fare che ciò che era stato, non fosse. Si toccava la pelle dove lui l’aveva toccata e sentiva sulle dita la forma e il calore della sua carezza”.

 

È passato un secolo. Pia Rimini ha raccontato il suo tempo guardando molto avanti. Scavando dentro ferite, che oggi si riaprono sul corpo delle donne. Ecco perché la sentiamo ancora viva.