martedì 24 dicembre 2013

MODA & MODI

Rosso o nero? Meglio un colore da alchimisti
 
Non è un Capodanno in rosso. Per la prima volta, da anni a questa parte, il colore delle feste per antonomasia disturba nelle vetrine. I soliti reggiseni e i perizomi beneauguranti tinta fiamma non bucano il vetro, non penzolano pimpanti ad altezza occhio in un fuoco artificiale di pizzi e applicazioni, piuttosto se ne rimangono sdraiati, pensionabili, tra più modesti berretti col pon-pon e muffole. Non è solo colpa della crisi, della cui immanenza è comunque difficile scordarsi anche solo per un istante. Questione di feeling: non c'è l'umore, la spinta. Vediamo rosso, ma non addosso a noi. Qb, quanto basta, suggeriscono i capi rimasti a testimoniare le stagioni in cui tavolate e signore parevano sul punto di prendere fuoco. Così ci lasciamo alle spalle la superba gonna lunga di shantung, una pennellata ardente che esplode dietro il vetro, come faremmo con una puntata del Natale a Downton Abbey: era tutto così perfetto, peccato che sia finita.
Che colore ha allora lo spirito di queste feste?

Il nero dilaga nelle strade, contro ogni tentazione di cromoterapia antidepressiva. È immutabile, rassicurante, parla al budget prima che al cuore: durerò, ci promette, per tante occasioni ancora, sono la tinta più smemoratamente riciclabile, ti renderò identica, a dispetto degli anni, come un'iniezione di botox. Ma qualcosa ci dice che non è nemmeno un Natale in nero, seppure declinato in sete, trasparenze, pizzi, pelle ed ecopelle. No al Black Christmas come il Black Friday, il giorno dopo Thanksgiving, quando in America orde di consumatori a digiuno danno il via ai saldi natalizi arraffando i capi a buon mercato, in un'ubriacatura di quantità.
Guardiamoci intorno, è tempo di sfumature. Non di grigio, ormai esasperante con tutto il suo strascico di implicazioni pseudo-erotiche. Nessun colore è definito: il bianco sfuma nel torrone, il rosa nel cipria, il blu nel cobalto, il verde muschio si fa acquoso, il giallo evidenziatore impallidisce ma si carica di bagliori, di pagliuzze, diventa dorato, rotondo. Le pubblicità dei profumi, dei gioielli, degli accessori ci avvolgono in un'onda pastosa, senza punte, senza tinte urlate. Il 2014 - secondo il Pantone Color Institute, l'azienda americana che lancia i colori per industria e grafica - sarà "radiant orchid", mix di fucsia, viola e rosa. Nuance luminosa, che ispira fiducia, ma anche enigmatica, equilibrista. Un po' come stiamo imparando a essere noi, meno asseverativi, più alchimisti.

twitter@boria_a

Radiant orchid per il 2014

venerdì 6 dicembre 2013

IL LIBRO

Caselli e Ingroia, confronto a due voci sui vent'anni "contro"

Manifestazione a Palermo in memoria di don Puglisi, settembre 1993 (fonte Shobha/Contrasto)

Antonio Ingroia ricorda il primo incontro con Giovanni Falcone, nel suo ufficio-bunker alla procura di Palermo. Lui, neofita in magistratura, assegnato come uditore giudiziario al giudice blindato, il primo uditore della sua carriera. Non era un estroverso, Falcone. Spesso manifestava i suoi sentimenti solo con un'impercettibile smorfia del viso, con un cambio nel tono della voce. Dopo un mese, improvvisamente, rompe il silenzio e chiede a Ingroia se vuole occuparsi di inchieste di mafia. Il giovane magistrato, sorpreso, si vede consegnare un libro con centinaia e centinaia di verbali istruttori, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Antonino Calderone. Di lì alle settimane successive lo leggerà con attenzione, senza mai farlo uscire da quelle quattro mura d'ufficio, che si favoleggia imbottite di metallo, come le porte e le finestre, per salvare la vita al giudice Falcone. «Capita di occuparsi di fatti di mafia un po' per caso, un po' per destino», dice Ingroia. «Da quel momento in poi Falcone instaurò con me un rapporto di maggiore confidenza e mi piace pensare di aver superato positivamente uno dei test più impegnativi della mia vita».
Anche Gian Carlo Caselli ricorda. Giovanni Falcone è stato ucciso da poco, insieme alla moglie Francesca e alla scorta, nella strage di Capaci del 23 maggio 1992. Lui partecipa a un dibattito pubblico, a Milano, quando un ufficiale dei carabinieri gli si avvicina con un sorriso timido e gli sussurra, assicurandosi di non essere sentito: «Il dottor Borsellino le manda a dire che per lei non è ancora arrivato il momento di andare in pensione». Caselli è infastidito, crede che l'osservazione si riferisca al suo lavoro in Corte d'Assise come a una sorta di pre-quiescenza. A quelle parole ripenserà neanche tre mesi dopo, domenica 19 luglio, quando, mentre è impegnato in un dibattito sulla mafia in un piccolo paese del Piemonte, davanti a poca gente, deflagra la notizia della strage di via D'Amelio, dei cento chili di tritolo che hanno dilaniato il giudice Borsellino. E allora, nel momento di sommo strazio, Caselli rileggerà nella mente quella frase, accolta sul momento con irritazione, ma lucidamente profetica.
S'intitola "Caselli-Ingroia. Vent'anni contro. Dall'eredità di Falcone e Borsellino alla trattativa" il libro curato dal giornalista Maurizio De Luca, per oltre dieci anni direttore editoriale dei giornali locali del Gruppo Espresso, che esce per i tipi degli Editori Laterza (pagg. 261, euro 16,00). In occasione di un anniversario sofferto e dibattuto, davanti al crescere delle ombre e della polemica sui rapporti tra lo Stato e gli uomini di Cosa Nostra, i giudici Gian Carlo Caselli e Antonio Ingroia si mettono di nuovo a confronto, come fecero già una dozzina di anni fa, all'epoca dando materiale, con le loro riflessioni protrattesi per molte sere in casa di De Luca, al volume "L'eredità scomoda", edito nel 2001 da Feltrinelli. I due interlocutori, che non hanno più operato nella stessa procura - Caselli dirige quella di Torino, dove tra poco concluderà la sua carriera, Ingroia, rimasto fino a tempi recenti alla procura di Palermo, poi trasferitosi per un breve periodo in Guatemala, quindi prestato a una poca fortunata avventura politica e oggi uscito definitivamente della magistratura - si sono ritrovati "sulle stesse poltrone" di casa De Luca a condividere e mescolare ricordi e giudizi, impegni ed episodi inediti, nel segno di una lotta ancora lontana dalla conclusione. Il libro verrà presentato giovedì 12 dicembre, alle 18, al teatro san Genesio di Roma (via Podgora 1, zona Prati) in un dibattito tra Caselli, Ingroia, Marco Travaglio e Maurizio De Luca, alla presenza dello scrittore Andrea Camilleri.
Il silenzio delle mafie, i nemici di Falcone e Borsellino, Palermo sull'altare (quando nella chiesa di Sariano, paese in provincia di Rovigo, il fondatore del pool Antonino Caponnetto chiese scusa di aver detto pubblicamente che, dopo le stragi, a Palermo la speranza stava morendo, e strappò l'applauso di tanti giovani...), infine le scorte e le coperte. Quattro corposi capitoli racchiudono le lunghe riflessioni dei due magistrati, lucide al punto da sembrare asettiche nel rievocare passaggi particolarmente "sensibili", primo fra tutti quello sulla stagione dei veleni, delle diffidenze e delle invidie tra giudici. Falcone definito con sufficienza "genio e superuomo", accusato di protagonismo per la candidatura alla successione di Caponnetto come capo dell'ufficio istruzione del tribunale di Palermo (che perde). Poi, una volta diventato procuratore aggiunto, ostacolato in ogni modo dai colleghi, al punto da far circolare la voce che il fallito attentato dell'Addaura il 21 giugno 1989 (una borsa con 58 candelotti di tritolo ritrovata nei pressi della villa affittata per le vacanze) se lo fosse inventato di sana pianta per farsi pubblicità, lui che se ne andava in giro dicendo "prima o poi la mafia mi ucciderà". Borsellino, che, nel 1988, lancia pubblicamente ad Antonino Meli - diventato capo dell'ufficio istruzione al posto di Falcone - l'accusa di aver smantellato il pool, ricacciando la lotta alla criminalità indietro di cinquant'anni, e diventa l'oggetto di una guerra di maldicenze e insidie brutta e lunga. Dice Caselli: «Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, osannati da morti, da vivi sono stati pesantemente ostacolati e alla fine umiliati umanamente e professionalmente lapidati».
Caselli arriva a Palermo dopo gli attentati, «quando i corvi volavano ad altezza d'uomo». Gli suggeriscono di emarginare i pm sospettati di aver orchestrato le manovre contro i giudici assassinati, ma il nuovo procuratore capo preferisce lanciare a tutti la sfida di «fare squadra». «Quando viene detto che la Procura di Palermo, dopo le stragi, ha ottenuto risultati eccezionali - ricorda - credo si dica la verità». La complessa macchina si è rimessa in moto, nonostante gli ostacoli, le persistenti manovre sotterranee, i misteriosi incidenti, come la mancata sorveglianza da parte di Ros e Carabinieri della villa di Totò Riina, col risultato che, quando finalmente i magistrati riescono a entrarci, tutto si è volatilizzato.
Nella ricostruzione a due voci di una stagione e di un clima, si aprono anche spazi per ricordi e aneddoti quasi surreali. Dopo la morte di Borsellino, le scorte ai giudici di Palermo vengono rafforzate. Non una novità per Caselli, già abituato alla vita blindata per le sue inchieste sul terrorismo, un drammatico cambiamento di abitudini per Ingroia. Quando Caselli, nel '94, vuole a tutti i costi partecipare a un dibattito sulla legalità a Corleone, nel paese dei boss più potenti, il caposcorta accetta di assecondarlo solo con carta bianca sulle modalità del trasferimento: sdraiarsi sul sedile posteriore di un'auto anonima, che sarebbe stata collocata sul piano più alto di una bisarca, accanto ad altre auto tutte procurate dalla scorta, e rimanere per tutto il tragitto nascosto sotto una coperta. A poca distanza da Corleone, dopo chilometri di strada priva di ripari naturali, Caselli viene fatto scendere e caricato su un'altra macchina che aspetta nell'ombra. Il suo ingresso a Corleone è trionfale, tra gli stupefatti carabinieri del paese, che non riescono a capacitarsi da dove fosse spuntato il giudice.
Ingroia non aveva forse mai riflettuto a fondo su come la sua famiglia vivesse quella prigionia forzata. Lo fa un giorno, attraverso gli occhi del figlio Marco, all'epoca di sei anni. I due stanno per entrare nell'ascensore di casa, ma hanno talmente tanti pacchi e pacchettini, che l'agente di scorta, armato, rinuncia ad accompagnarli fin sulla soglia dell'appartamento, com'è suo obbligo, e decide di farli salire. Marco, guardando il padre nello specchio della cabina, gli lancia un bacio e gli dice con tenerezza: «Qui noi finora non siamo mai stati soli».
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Una foto di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone del 21 gennaio 1998

giovedì 5 dicembre 2013

L'INTERVISTA
Ferzan Ozpetek: Rosso Istanbul, come l'amore

Ferzan Ozpetek torna a Istanbul, dov'è nato e cresciuto. Torna a rivedere sua madre, che nella fragilità della vecchiaia e della malattia ha scoperto un colore, il rosso, il colore di un nuovo amore. La sua città gli viene incontro con le memorie dell'infanzia: la nonna "principessa ottomana", le zie zitelle, ma libere e affamate di vita, la mamma bellissima e malinconica, che si è sposata due volte e custodisce un segreto, il padre scomparso per anni e poi riapparso, il primo amore dolce e proibito.
Ricordi, colori, passioni. È la trama di "Rosso Istanbul" (Mondadori, pagg. 111, euro 16,50), il primo libro del regista turco da anni trapiantato a Roma, arrivato in poche settimane alla terza ristampa. La storia di un ritorno, il suo, tra struggimento e nostalgia, intrecciata alla storia di una scoperta, quella della città, da parte di una donna incontrata per caso sull'aereo, che a Istanbul conoscerà il tradimento ma anche la voluttà e l'ebbrezza di una nuova libertà.
Biografia e invenzione si intrecciano, ancora una volta, nel paesaggio interiore di Ozpetek, autore di film come "Le fate ignoranti", "La finestra di fronte", "Saturno contro". Il regista e la sconosciuta si sfiorano, all'inizio e alla fine del viaggio nella città, nel passato di un uomo e nel futuro di una donna. E il romanzo, atto d'amore verso la madre, finisce per essere un contenitore magico di tanti amori, senza distinzioni di sesso, di età, di tempo. Nemmeno di numero, perchè, come lei gli ha insegnato, si può amare anche due persone allo stesso tempo, senza tradire nessuno. 
 Il regista Ferzan Ozpetek
Quanti rossi ci sono nel suo libro?
«Tanti. Tutto è cominciato dalla richiesta di mia madre: uno smalto rosso per le unghie. Poi c'è il rosso scarlatto dell'abito della ragazza che va incontro ai poliziotti con gli idranti per difendere gli alberi di Gezi Park. Il rosso dei carretti dei venditori ambulanti di simit, le ciambelle ricoperte di sesamo. Il rosso del cielo che vedo dalla finestra di casa mia, quando, di sera, sembra fondersi col mare».
E c'è il rosso sul colletto della donna, splendida, nella foto in copertina...
«È mia madre. L'idea di partenza del libro è nata dal cambiamento del nostro rapporto. Nel 2006 è stata operata male, è finita in coma e quando ne è uscita ha dovuto affrontare un periodo di riabilitazione. Così ha conosciuto il suo fisioterapista, un ragazzo di ventisei anni. Lei, all'epoca, ne aveva ottantadue, ma ha cambiato improvvisamente atteggiamento verso la vita. Non c'erano più il blu, il beige, le tinte pallide che l'avevano sempre accompagnata. Vedeva tutto coloratissimo, voleva il rossetto rosso, lo smalto rosso, la tuta da ginnastica rossa... E tra noi è come se si andasse creando una nuova conoscenza: una madre di una certa età che parla al figlio dell'amore, quasi fosse un suo amichetto. Naturalmente non tutto è biografico, perchè nel libro, come nei miei film, la conoscenza diretta si mescola all'invenzione, la verità alla fiction...».
Questo cambiamento l'ha colta alla sprovvista?
«Per due o tre minuti, confesso, sì. Poi ho scoperto che mi piaceva. Mi rilassava l'idea che mia madre fosse innamorata, quando sono lontano. Per tutta la vita facciamo i conti con i nostri genitori, e loro con noi. Ci poniamo lo stesso dilemma: sarò stato all'altezza? Mi sarò comportato bene? In fondo siamo bambini e genitori lungo tutto l'arco della nostra esistenza. Allora è caduto un tabù: parlare alla propria madre dell'amore». 

"Rosso Istanbul", il primo libro di Ozpetek
Com'è stata la sua educazione sentimentale?
«Tutta al femminile, e per fortuna. Le donne hanno un linguaggio superiore, un altro sguardo verso la vita rispetto agli uomini. Quello che io chiamo il mio harem è stato fondamentale per la mia educazione, anche se me ne sono accorto solo da grande, perchè è allora che uno riflette e valuta».
Mamma, ma anche due zie un po' speciali...
«Zia Betul e zia Güzin, bellissime e sempre elegantissime. Zia Betul - come la chiamo nel libro, ma non è il suo vero nome - è stata la mia maestra di aquiloni. Un giorno mi ha detto: "vieni, perchè ho comprato la carta per fare l'aquilone. Un uomo che non riesce a far volare un aquilone, non riesce a far felice una donna". Sembrava follia e invece zia Betul voleva dire che il modo di far felice una donna ha a che fare con la creatività, con il costruire qualcosa insieme. È importante nel rapporto tra due persone».
Donne emancipate?
«Molto, ma non a parole. Nei comportamenti e nei giudizi. Erano modernissime, perchè cresciute dagli anni venti in poi, nell'epoca del passaggio alla Repubblica. Ma non si sono trovate sempre bene nel cambiamento. Pensiamo che in Turchia le donne hanno votato prima che in Italia, si sono messe prima il bikini. Una trasformazione che è andata oltre il moderno. L'ultima volta che ho visto zia Betul mi ha fatto una grande tenerezza, era troppo intelligente per il mondo che la circondava».
E poi sua nonna, che le ha fatto scoprire il cinema.
«"Se fanno un film con la leonessa andiamo" diceva sempre. La leonessa era il leone della Metro Goldwin Mayer. Io le chiedevo continuamente: "Nonna, cos'è il cinema?". A quell'epoca i bambini non ci andavano, prima dei sette anni era vietato. Poi un giorno decise di portarmi, anche se non avevo ancora l'età giusta. Davano "Cleopatra" con Liz Taylor e Richard Burton, il mio primo film, il mio primo amore. Il cinema era Emek Sinemasi. Quando l'hanno buttato giù è stato un grande dolore, tanti si erano mobilitati per salvarlo. Così l'ho messo nel mio libro, l'ho salvato con le parole. Poi, una volta finito di scrivere "Rosso Istanbul", c'è stata la grande protesta per Gezi Park con la ragazza vestita di rosso contro la polizia. Mi succede anche nei film: il destino mi propone quello che sto girando, realtà e finzione si mescolano».
La protesta a Gezi Park (f. Osman Orsal/Reuters)
"Allacciate le cinture" è il suo nuovo film, con Kasia Smutniak, che uscirà a marzo. Le cinture per che cosa?
«Racconto di un matrimonio che dura da tredici anni in cui arriva una turbolenza abbastanza distruttiva. Le cinture servono a proteggersi».
Un film d'amore?
«L'amore è in tutte le cose che facciamo. Non c'è amicizia senza amore, non c'è la solidarietà. Tempo fa, una mattina prestissimo, saranno state circa le sette e un quarto, mi chiama la badante di mia madre. Come al solito mette giù la cornetta perchè richiami io. Stavo andando a girare "Magnifica presenza", a Cinecittà. Ho telefonato e mi ha passato mia madre. "Ricordati - mi ha detto - che niente è più importante dell'amore"».
Il film è ambientato a Lecce, una città di cui lei parla anche nel libro. Perchè?
«Il Salento è meraviglioso, Lecce la amo per le persone».
È mai stato a Trieste?
«Nel '78, tornavo dalla Turchia in auto, avevo fatto un lungo giro in Grecia e nell'ex Jugoslavia. Quando sono entrato a Trieste ho avuto una sensazione bellissima, come di un'allegria all'improvviso. Era fine agosto, un momento molto felice. Abbiamo mangiato in un ristorante, c'era un gruppo che suonava... So che Trieste è una città invernale, di vento forte, ma il mio ricordo è quello, di un cambiamento».
Lei, turco che vive da molti anni in Italia, in che cosa si sente italiano?
«Non lo so. Mi capita di sentirmi turco in Italia e italiano in Turchia. Io credo in quello che siamo in quel momento della nostra vita. Dappertutto mi sento straniero, ospite, e questa sensazione di vedermi "dall'esterno" mi piace. Avere due culture, due lingue, due paesi, due di tutto, è un grande privilegio».
Come mai ha scritto un libro?
«Per puro divertimento. Quando avevo diciott'anni ho vissuto vendendo i miei quadri, ero piuttosto bravo e ho avuto un piccolo successo personale come pittore. Allora raccontavo una storia dipingendo, come da regista la racconto nei film. Cambio solo il mezzo. In fondo, già scrivendo le sceneggiature, racconto una storia in un altro modo ancora».
L'amore di Ozpetek?
«Non sappiamo per quale motivo amiamo. L'amore non sa nè leggere nè scrivere, è ignorante».
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Il rosso di Istanbul