giovedì 5 dicembre 2013

L'INTERVISTA
Ferzan Ozpetek: Rosso Istanbul, come l'amore

Ferzan Ozpetek torna a Istanbul, dov'è nato e cresciuto. Torna a rivedere sua madre, che nella fragilità della vecchiaia e della malattia ha scoperto un colore, il rosso, il colore di un nuovo amore. La sua città gli viene incontro con le memorie dell'infanzia: la nonna "principessa ottomana", le zie zitelle, ma libere e affamate di vita, la mamma bellissima e malinconica, che si è sposata due volte e custodisce un segreto, il padre scomparso per anni e poi riapparso, il primo amore dolce e proibito.
Ricordi, colori, passioni. È la trama di "Rosso Istanbul" (Mondadori, pagg. 111, euro 16,50), il primo libro del regista turco da anni trapiantato a Roma, arrivato in poche settimane alla terza ristampa. La storia di un ritorno, il suo, tra struggimento e nostalgia, intrecciata alla storia di una scoperta, quella della città, da parte di una donna incontrata per caso sull'aereo, che a Istanbul conoscerà il tradimento ma anche la voluttà e l'ebbrezza di una nuova libertà.
Biografia e invenzione si intrecciano, ancora una volta, nel paesaggio interiore di Ozpetek, autore di film come "Le fate ignoranti", "La finestra di fronte", "Saturno contro". Il regista e la sconosciuta si sfiorano, all'inizio e alla fine del viaggio nella città, nel passato di un uomo e nel futuro di una donna. E il romanzo, atto d'amore verso la madre, finisce per essere un contenitore magico di tanti amori, senza distinzioni di sesso, di età, di tempo. Nemmeno di numero, perchè, come lei gli ha insegnato, si può amare anche due persone allo stesso tempo, senza tradire nessuno. 
 Il regista Ferzan Ozpetek
Quanti rossi ci sono nel suo libro?
«Tanti. Tutto è cominciato dalla richiesta di mia madre: uno smalto rosso per le unghie. Poi c'è il rosso scarlatto dell'abito della ragazza che va incontro ai poliziotti con gli idranti per difendere gli alberi di Gezi Park. Il rosso dei carretti dei venditori ambulanti di simit, le ciambelle ricoperte di sesamo. Il rosso del cielo che vedo dalla finestra di casa mia, quando, di sera, sembra fondersi col mare».
E c'è il rosso sul colletto della donna, splendida, nella foto in copertina...
«È mia madre. L'idea di partenza del libro è nata dal cambiamento del nostro rapporto. Nel 2006 è stata operata male, è finita in coma e quando ne è uscita ha dovuto affrontare un periodo di riabilitazione. Così ha conosciuto il suo fisioterapista, un ragazzo di ventisei anni. Lei, all'epoca, ne aveva ottantadue, ma ha cambiato improvvisamente atteggiamento verso la vita. Non c'erano più il blu, il beige, le tinte pallide che l'avevano sempre accompagnata. Vedeva tutto coloratissimo, voleva il rossetto rosso, lo smalto rosso, la tuta da ginnastica rossa... E tra noi è come se si andasse creando una nuova conoscenza: una madre di una certa età che parla al figlio dell'amore, quasi fosse un suo amichetto. Naturalmente non tutto è biografico, perchè nel libro, come nei miei film, la conoscenza diretta si mescola all'invenzione, la verità alla fiction...».
Questo cambiamento l'ha colta alla sprovvista?
«Per due o tre minuti, confesso, sì. Poi ho scoperto che mi piaceva. Mi rilassava l'idea che mia madre fosse innamorata, quando sono lontano. Per tutta la vita facciamo i conti con i nostri genitori, e loro con noi. Ci poniamo lo stesso dilemma: sarò stato all'altezza? Mi sarò comportato bene? In fondo siamo bambini e genitori lungo tutto l'arco della nostra esistenza. Allora è caduto un tabù: parlare alla propria madre dell'amore». 

"Rosso Istanbul", il primo libro di Ozpetek
Com'è stata la sua educazione sentimentale?
«Tutta al femminile, e per fortuna. Le donne hanno un linguaggio superiore, un altro sguardo verso la vita rispetto agli uomini. Quello che io chiamo il mio harem è stato fondamentale per la mia educazione, anche se me ne sono accorto solo da grande, perchè è allora che uno riflette e valuta».
Mamma, ma anche due zie un po' speciali...
«Zia Betul e zia Güzin, bellissime e sempre elegantissime. Zia Betul - come la chiamo nel libro, ma non è il suo vero nome - è stata la mia maestra di aquiloni. Un giorno mi ha detto: "vieni, perchè ho comprato la carta per fare l'aquilone. Un uomo che non riesce a far volare un aquilone, non riesce a far felice una donna". Sembrava follia e invece zia Betul voleva dire che il modo di far felice una donna ha a che fare con la creatività, con il costruire qualcosa insieme. È importante nel rapporto tra due persone».
Donne emancipate?
«Molto, ma non a parole. Nei comportamenti e nei giudizi. Erano modernissime, perchè cresciute dagli anni venti in poi, nell'epoca del passaggio alla Repubblica. Ma non si sono trovate sempre bene nel cambiamento. Pensiamo che in Turchia le donne hanno votato prima che in Italia, si sono messe prima il bikini. Una trasformazione che è andata oltre il moderno. L'ultima volta che ho visto zia Betul mi ha fatto una grande tenerezza, era troppo intelligente per il mondo che la circondava».
E poi sua nonna, che le ha fatto scoprire il cinema.
«"Se fanno un film con la leonessa andiamo" diceva sempre. La leonessa era il leone della Metro Goldwin Mayer. Io le chiedevo continuamente: "Nonna, cos'è il cinema?". A quell'epoca i bambini non ci andavano, prima dei sette anni era vietato. Poi un giorno decise di portarmi, anche se non avevo ancora l'età giusta. Davano "Cleopatra" con Liz Taylor e Richard Burton, il mio primo film, il mio primo amore. Il cinema era Emek Sinemasi. Quando l'hanno buttato giù è stato un grande dolore, tanti si erano mobilitati per salvarlo. Così l'ho messo nel mio libro, l'ho salvato con le parole. Poi, una volta finito di scrivere "Rosso Istanbul", c'è stata la grande protesta per Gezi Park con la ragazza vestita di rosso contro la polizia. Mi succede anche nei film: il destino mi propone quello che sto girando, realtà e finzione si mescolano».
La protesta a Gezi Park (f. Osman Orsal/Reuters)
"Allacciate le cinture" è il suo nuovo film, con Kasia Smutniak, che uscirà a marzo. Le cinture per che cosa?
«Racconto di un matrimonio che dura da tredici anni in cui arriva una turbolenza abbastanza distruttiva. Le cinture servono a proteggersi».
Un film d'amore?
«L'amore è in tutte le cose che facciamo. Non c'è amicizia senza amore, non c'è la solidarietà. Tempo fa, una mattina prestissimo, saranno state circa le sette e un quarto, mi chiama la badante di mia madre. Come al solito mette giù la cornetta perchè richiami io. Stavo andando a girare "Magnifica presenza", a Cinecittà. Ho telefonato e mi ha passato mia madre. "Ricordati - mi ha detto - che niente è più importante dell'amore"».
Il film è ambientato a Lecce, una città di cui lei parla anche nel libro. Perchè?
«Il Salento è meraviglioso, Lecce la amo per le persone».
È mai stato a Trieste?
«Nel '78, tornavo dalla Turchia in auto, avevo fatto un lungo giro in Grecia e nell'ex Jugoslavia. Quando sono entrato a Trieste ho avuto una sensazione bellissima, come di un'allegria all'improvviso. Era fine agosto, un momento molto felice. Abbiamo mangiato in un ristorante, c'era un gruppo che suonava... So che Trieste è una città invernale, di vento forte, ma il mio ricordo è quello, di un cambiamento».
Lei, turco che vive da molti anni in Italia, in che cosa si sente italiano?
«Non lo so. Mi capita di sentirmi turco in Italia e italiano in Turchia. Io credo in quello che siamo in quel momento della nostra vita. Dappertutto mi sento straniero, ospite, e questa sensazione di vedermi "dall'esterno" mi piace. Avere due culture, due lingue, due paesi, due di tutto, è un grande privilegio».
Come mai ha scritto un libro?
«Per puro divertimento. Quando avevo diciott'anni ho vissuto vendendo i miei quadri, ero piuttosto bravo e ho avuto un piccolo successo personale come pittore. Allora raccontavo una storia dipingendo, come da regista la racconto nei film. Cambio solo il mezzo. In fondo, già scrivendo le sceneggiature, racconto una storia in un altro modo ancora».
L'amore di Ozpetek?
«Non sappiamo per quale motivo amiamo. L'amore non sa nè leggere nè scrivere, è ignorante».
twitter@boria_a
Il rosso di Istanbul

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