sabato 29 ottobre 2016

 IL LIBRO

Smetto di mangiare e divento una pianta






«Ho fatto un sogno» dice la giovane Yeong-hye per spiegare al marito un gesto dirompente nel loro scandito e anaffettivo menage familiare: si è svegliata nel cuore della notte e si messa a fissare il frigorifero, da cui, la mattina dopo, ha estratto tutta la carne - una provvista sostanziosa e costosa - per gettarla nell’immondizia. «Ho fatto un sogno» continua a ripetere all’uomo, spiazzato e subito seccato da quell’indecifrabile atto di ribellione all’ordine domestico e alle consuetudini sociali.

Nel cuore della notte Yeong-hye si è vista dentro un granaio, circondata e soffocata da enormi quarti di carne ancora gocciolanti di sangue. «Cerco di passare oltre ma la carne... non c’è fine alla carne, e nessuna via d’uscita. Ho del sangue in bocca, i vestiti intrisi di sangue appiccicati alla pelle».

Dopo quell’incubo, tutto sarà stravolto nella vita di Yeong-hye e dell’opaco signor Cheong, che aveva scelto la moglie proprio per le doti di arrendevolezza e passività, per l’inattitudine al confronto. Non sarà più vita, anzi, ma una lenta e allucinata discesa in quella che la protagonista intende sia la sua mutazione finale, una nuova forma di esistenza vegetale cui bastano il sole della fotosintesi, e l’acqua, per alimentarsi. Yeong-hye non vuole più mangiare carne, nè toccarla, nè cucinarla (lei che sapeva fare così bene brodi densi e speziati, manzi insaporiti e saltati, vongole e cozze tenerissime...). E nemmeno adempiere agli obblighi coniugali: «Il tuo corpo puzza di carne», risponde imperturbabile al marito.


Comincia così “La vegetariana” (Adelphi, pagg. 177, euro 18,00, traduzione di Milena Zemira Ciccimarra) della scrittrice sud-coreana Han Kang, che ha vinto il prestigioso Man Booker International Prize 2016 battendo anche “Storia della bambina perduta” di Elena Ferrante, e già tradotto in nove lingue. Un racconto breve e crudele, affilato e fiabesco al tempo stesso, diviso in tre parti, che corrispondono alle tre prospettive da cui la vicenda è narrata: quella di Cheong, che non esita a usare violenza alla moglie, verbale e sessuale, per costringerla a tornare sulla sua decisione, quella del cognato, marito della sorella In-hye, un videoartista attratto morbosamente dalla nuova fisicità di Yeong-hye, al punto da dipingerne il corpo di fiori e poi possederla, accelerando la sua malattia e lo sconvolgimento dei rapporti dell’intera famiglia. Infine, quella della stessa In-hye, al cui racconto è affidata la parte più ardua, il crudo decorso ospedaliero, le costrizioni e le contenzioni, con la speranza di salvare la sorella attraverso il recupero della parte intatta e sognante dell’infanzia in comune.


 
Han Kang con la traduttrice inglese Deborah Smith



 

Molte le chiavi di lettura di una storia ricca di simboli, e di temi, che avviluppa il lettore, con un finale sconcertante. Il sangue del sogno, quello delle bestie macellate, è lo stesso che Yeong-hye vomita nella fase terminale della malattia, quando i sanitari si accaniscono su di lei come un animale da squartare. È una violenza che parte da lontano, dall’infanzia della protagonista, dalle botte del padre, veterano della guerra in Vietnam, il primo che, davanti a tutto la famiglia, tenterà di forzarla ad aprire la bocca per spingerle dentro un pezzo di maiale e ripristinare così l’ordine rovesciato dalla sua testardaggine. Il matrimonio chiude Yeong-hye in una routine di convenzioni e indifferenza («prima che mia moglie diventasse vegetariana, l’avevo sempre considerata del tutto insignificante»: l’attacco del libro), anche l’amplesso col cognato è la soddisfazione unilaterale delle fantasie di lui, ossessionato dalla sua “macchia mongolica”, una voglia sopra la natica.

Il rifiuto del cibo diventa così l’unico modo che la giovane donna ha a disposizione per far sentire la propria voce, per rompere il muro delle convenzioni coniugali, familiari, sociali. L’unico modo per spezzare una catena di violenza, che è anche quella dei silenzi, delle regole di chi l’ha considerata prima la componente invisibile e innocua di una compagine dominata dal patriarca, poi la parte silenziosa e sfruttabile di un rapporto a due. Non è il rifiuto di chi chiede attenzione quello di Yeong-hye, ma di chi vuole difendersi dalle aggressioni esterne entrando in un altro ordine di relazioni, abbracciando una natura diversa dalla propria. E in questa dimensione vegetale gli alimenti non sono più necessari, con tutti i rapporti di forza che implicano, bastano sole e acqua. Una sottrazione volontaria, follemente lucida, che è la strada per la liberazione.

@boria_a

lunedì 24 ottobre 2016

 MODA & MODI

 Nostalgia di gambe a triangolo


Stirrup pants di Balenciaga firmati Demna Gvasalia
 




Chi ha passato da un pezzo la mezza età li ricorda soprattutto come pantaloni da sci. Braghe rigide con una propaggine da infilare sotto il piede, e poi dentro gli scarponi, per proteggere le estremità da freddo e neve. Una sorta di ghetta spessa, che mai rimaneva perfettamente in asse, fastidiosa sotto la pianta del piede.

A metà degli anni Ottanta eccoli "sdoganati": la staffa rimane, anzi si mette bene in vista, ma i pantaloni si sono alleggeriti e colorati, diventando una sorta di leggings di maglina da abbinare a ballerine e mocassini. Portati con maglioni oversize, hanno attraversato tutto il decennio tra gli Ottanta e i Novanta, una stagione della moda su cui il brutto si è accanito particolarmente, dalla testa ai piedi, cominciando con le cotonature e finendo proprio nei calzoni a imbuto.

Così dallo sport, dove erano stati adottati per andare a cavallo prima ancora che per sciare, i pantaloni con la ghetta si sono ritrovati a far parte dell’abbigliamento di tutti i giorni. Un upgrade? Macchè. Consistenza del tessuto a parte, hanno mantenuto lo stesso taglio e le caratteristiche di semplicità e praticità (tutte presunte, in realtà. Questi calzoni non sono semplici da portare se non si è alte, snelle e con gambe sottili. Quanto a una propaggine sotto la scarpa, la praticità, anche nel senso di igiene, diventa un concetto approssimativo...).


Oggi ritornano, per l’ennesima volta, e molto più ambiziosi. Il decennio maledetto delle cofane, delle spalle imbottite, delle paillettes spruzzate ovunque, ci restituisce anche loro, gli "stirrup pants" (come li chiamano gli specializzati), che oggi salgono in cattedra, lasciano le scarpe rasoterra, e si agganciano sotto un paio di stiletto da gran sera.
Come l'animalier e le imbottiture, suscitano reazioni viscerali, muovono gli strati più profondi del nostro gusto, chiedono odio o pretendono dedizione totale.


Demna Gvasalia, lo stilista georgiano che disegna Balenciaga e il suo proprio brand, Vetements, li ha mandati in passerella insieme alle spallone, in un tailleur che concentra tutto il dna di un’epoca che molti vorrebbero dimenticare, con le sue proporzioni esagerate e i suoi ammenicoli e sbarluccichii (la collezione di Gvasalia, dove i pantaloni con le ghette erano accostati anche a bomber con le spalle scese, ha fatto gridare la totalità della stampa al miracolo creativo: sarebbe la quintessenza dell'estetica del brutto...). Non era il solo: li hanno proposti anche Versace e, per Marni, Consuelo Castiglioni, giusto prima di abbandonare la direzione creativa del marchio che ha fondato e che oggi fa parte del vasto carnet di Renzo Rosso.


Sulla scia delle griffe, i pantaloni con le ghette li troveremo anche da Zara. Così basterà che su Instagram qualche influencer con migliaia di follower ci si faccia fotografare dentro, perchè orde di ragazzine rispolverino le gambe a triangolo delle loro mamme. Come se il tempo fosse passato invano.

sabato 22 ottobre 2016

 LA CONVERSAZIONE

 La moda della Grande Guerra liberò Berlino e Vienna dai "diktat" di Parigi









Le riviste della Biblioteca di costume Lipperheide (Musei statali di Berlino)




Il nero così amato dalle fashioniste? È una moda nata con la prima guerra mondiale. Niente a che fare con il minimalismo dei giapponesi e con il fascino senza tempo del “little black dress”, ma più prosaiche ragioni di semplicità, praticità e soprattutto lavabilità. Le donne che lasciano le quattro mura domestiche ed entrano in massa nel mondo del lavoro per sostituire gli uomini mandati al fronte, hanno bisogno di “involucri” in cui sia facile muoversi, che non si impiglino nei macchinari industriali, che permettano di viaggiare confortevolmente sui mezzi pubblici e non temano l’acqua.

Il conflitto incubatore di “trend”, diremmo oggi. Che corrispondono a una rivoluzione epocale nel ruolo e nella posizione sociale della donna. E il colore è appunto una delle tante, radicali trasformazioni nel guardaroba femminile che la Grande guerra porta con sè e che, a distanza di oltre cent’anni, rimangono ancora ben salde nella moda contemporanea. Come l’adozione di capi maschili, l’ispirazione militare nelle giacche, le gonne e camicette diventate “uniforme” quotidiana, per spezzare la ricchezza e la cerimoniosità degli abiti interi, prima distinti per le diverse occasioni della giornata e improvvisamente così difficili da mantenere e manutenere. Un’epoca era finita, anche nell’armadio. L’estetica correva insieme alla storia.


Di questi temi si è parlato a Gorizia (venerdì 21 ottobre 2016), ai Musei provinciali di Borgo Castello, nella conversazione su guerra e vestiti “Krieg und Kleider, 1914-1918: Immagini della moda di Parigi, Vienna e Berlino”, protagonista Adelheid Rasche, storica dell’arte e della moda, dal 1990 chief curator della Collezione di immagini di moda-Biblioteca di costume Lipperheide della Biblioteca d’arte dei Musei statali di Berlino, che è stata introdotta dalla sovrintendente goriziana Raffaella Sgubin.


L’appuntamento si è inserito nell’ambito della mostra “Guerra e moda - L’alba della donna moderna” (aperta fino al 4 dicembre) che, abbracciando un arco di tempo dal 1905 al 1925, racconta come il primo conflitto mondiale “rivestì” le donne, dentro e fuori casa. La mostra goriziana e quella allestita a Berlino nel 2014, con lo stesso titolo della conferenza odierna, partono da una ricerca comune di Rasche e Sgubin sul fondo Lipperheide dei musei statali di Berlino, una collezione dedicata alla storia culturale dell’abbigliamento e della moda, con riviste, giornali illustrati, monografie, foto e illustrazioni di moda, disegni e album a stampa. Vi sono inclusi i lussuosi disegni della casa di moda berlinese Alfred-Marie, fondata dall'artista tedesco Otto Haas-Heye, che aveva risieduto a lungo a Parigi e, una volta tornato in patria, aveva aperto un atelier di ispirazione francese, da cui uscivano piccole collezioni di alta moda. Di questo couturier i musei tedeschi non conservano neanche un modello (presumibilmente tutti sono andati distrutti nel corso della seconda guerra mondiale), solo foto e disegni, tra cui quelli di Annie Offterdinger, all'epoca modellista neanche ventenne da Alfred-Marie, autentiche opere d'arte.


Interrotti i contatti con la Francia, Austria e Germania cominciarono a elaborare un proprio stile. Vienna e Berlino “liberati” con la guerra dai diktat di Parigi? «Non esageriamo», dice Adelheid Rasche. «Le riviste austriache e tedesche parlavano di moda “nostra”, “indipendente”, in realtà quelle francesi continuavano a circolare nel centro Europa. La differenza è che Austria e Germania cominciano con la guerra a utilizzare materiali e produzioni proprie per ispirarsi ai modelli francesi. È l’inizio di una moda nazionale».


Più che di “moda”, Rasche preferisce parlare di “abbigliamento” del conflitto. «Nelle riviste e nelle lettere che abbiamo esaminato - spiega - si illustra appunto un vestiario adatto ai lavori quotidiani. Le donne viaggiano sui mezzi pubblici, hanno bisogno di gonne e camicie pratiche, in materiali facili da lavare, perchè manca il sapone. Gli orli si accorciano, si adottano il nero e molti colori scuri, maschili, che si sporcano meno. Ci sono pochi ricami, che sono impegnativi da conservare. Dopo la guerra, saranno le più giovani a fare di questi elementi una moda: capelli e stile a la garçonne. Ma non ci sono solo gli abiti. In questo periodo, soprattutto a Vienna, si sviluppa un’arte grafica raffinata. Le cartoline rappresentano lo stile moderno, un’estetica totale che abbraccia dipinti, grafica, arredamento, moda».


Ragioni economiche e psicologiche fanno della moda della Grande guerra un tema tutt’altro che frivolo. Ci sono le industrie del settore da tutelare e sostenere. Ci sono i soldati, che vogliono vedersi circondati dalla bellezza, nelle pause dall’orrore del fronte. «Tutte le riviste - conclude Rasche - invitano le donne a “farsi” belle. Per le fabbriche del paese, per tener alto il loro morale e risollevare quello dei soldati che vengono in licenza. La moda è quasi un dovere».

martedì 18 ottobre 2016

L'INTERVISTA

Ilvo Diamanti: Le frontiere sono un male solo se diventano muri 





Ilvo Diamanti




Barriere o ponti? Si apre con un confronto sul tema delle migrazioni e sull’atteggiamento dell’Europa e dei suoi paesi verso un fenomeno che sta cambiando radicalmente gli equilibri sociali e politici del vecchio continente, la tre giorni “Ad alta voce” di Coop Alleanza 3.0 a Trieste, rassegna di letture e dibattiti con protagonisti della cultura, delle arti, del giornalismo e della società civile.

Alle 17.30 di giovedì 20 ottobre 2016, al Salone degli Incanti di Trieste, di accoglienza e respingimenti parleranno la ricercatrice Marina Calculli, esperta di Medio Oriente, in particolare Siria e Libano, il direttore del Piccolo Enzo D’Antona, il sociologo e politologo Ilvo Diamanti, il giornalista Ezio Mauro, già direttore di Repubblica, e il presidente di Coop Alleanza 3.0 Adriano Turrini, presentati dall’attore e regista Gaetano Ruocco Guadagno.

Un’analisi, come ha anticipato Diamanti, particolarmente opportuna a Trieste e in una regione come il Friuli Venezia Giulia che si confronta da vicino con l’Austria, spaccata su un’eventuale chiusura del Brennero per contrastare gli afflussi di migranti dall’Italia, e con i paesi dell’ex Jugoslavia, che alzano muri spinati per bloccare la rotta balcanica.
Proprio a Ilvo Diamanti, presidente della società di ricerche sulle dinamiche sociali Demos & Pi, abbiamo chiesto di anticipare alcuni dei nodi che verranno affrontati nel dibattito. Matteo Renzi, infatti, alla vigilia dell’esame della commissione europea sulla manovra economica italiana, ha rimandato al mittente le critiche alle nostre spese sull’immigrazione, sollecitando piuttosto gli altri paesi ad aiutarci. Da parte sua Pierre Moscovici, commissario agli Affari monetari, ha ammesso che «in questo momento l’Ue non è in grande forma».


Professor Diamanti, c’è la sensazione che in Europa stiano crescendo le barriere più che i ponti. Siamo diventati meno solidali? «La solidarietà è più facile nel momento in cui è a distanza, in cui gli “altri” non sono qui, a casa nostra. È una solidarietà che costa meno. Non che sia meno importante, ma non mette in discussione la nostra vita, la nostra percezione dell’ambiente, la qualità della nostra esistenza quotidiana. Oggi il problema principale è che ci sentiamo “esposti” al mondo. Un problema che non riguarda solo noi, ovviamente, è quasi esistenziale. La globalizzazione - un termine spesso usato in modo generico - sta a sottolineare qualcosa di ben preciso: tutto ciò che avviene nel mondo ha effetti su di noi, in questo momento. Ci sono i media che amplificano le informazioni, c’è la rete su cui le notizie corrono. Quindi ci sentiamo vulnerabili, senza tutela. E abbiamo più bisogno di confini».


Per questo sale la paura?  «L’ultima rilevazione di Demos testimonia una crescita evidente delle “paure globali”, le paure del mondo che incombe su di noi. C’è la paura senza volto, quella dei mercati, dello spread, della Fed, parole che la gente comune a volte non capisce ma che le danno la sensazione di essere colpita nei suoi interessi. E poi c’è la paura che assume un volto, quello dell’altro che entra a casa tua, degli stranieri che premono alle frontiere spinti dalla disperazione. L’Italia è di per sè un paese di frontiera e di costiera. A questo si aggiunge ora il problema che ci sentiamo minacciati perchè i confini vengono messi in discussione. Ti accorgi che non servono questi confini, ma al tempo stesso ne hai bisogno, perchè hai paura dello straniero. Così vorremmo chiuderli, proprio mentre intorno a noi altri lo stanno già facendo, come la Svizzera e l’Ungheria, e in Austria non tira una buona aria...».


Sono timori affrontabili o questo conflitto tra noi e gli altri diventerà strutturale? «Credo che la paura si possa affrontare se esiste un’autorità che rassicura. Accetto l’altro, con cui “negozio” la mia identità, nel momento in cui qualcuno tutela entrambi. Naturalmente se questo avviene su base europea siamo davanti a uno scenario, se ciascun paese negozia per sè, la situazione è diversa. L’Inghilterra ha votato la Brexit, i paesi del Nord chiudono le frontiere con noi: così semplicemente finisce l’Europa. L’Europa è fondata su questo più che sull’euro. Non credo si possano affidare un progetto e un’identità comune a una moneta. Preferirei avere un riferimento religioso, addirittura una squadra di calcio, piuttosto che una moneta. Cedere la sovranità ai mercati finanziari. Il vero progetto europeo è nato a Schengen: casa mia è dove mi muovo liberamente senza porte chiuse, ma ho una recinzione che mi protegge dall’esterno. Se invece abbiamo relazioni bilaterali con l’esterno, ovvero ciascun paese fa quel che vuole, e all’interno chiudiamo i confini, allora l’Europa non esiste più».


La Francia ci accusa di non riconoscere i migranti... Se non siamo più tanto solidali, certamente siamo più soli in Europa. «Diciamo che facciamo un po’ i furbi. Se i migranti vengono controllati vengono anche “riconosciuti”, quindi per il diritto internazionale dobbiamo tenerceli e gli altri paesi li rimandano da noi. Certo che ci hanno lasciati soli, perchè l’immigrazione suscita maggiore tensione e sul tema della sicurezza e insicurezza si gioca il consenso. Puoi avere politiche europee in tema di economia e di movimenti migratori, ma poi i governi sono eletti su base nazionale. La collisione è inevitabile».


C’è una geografia della nostra paura dello straniero? «Noi abbiamo sempre più paura degli stranieri perchè demograficamente siamo fermi. L’Italia è in calo demografico da tre anni. Il saldo tra nascite e decessi, compresi gli immigrati (perchè i loro tassi di fertilità si adeguano al paese), è negativo: un dato che non si verificava dal 1917-’18. Siamo sotto la soglia dell’equilibrio demografico. Dovremmo chiudere le frontiere, ma perchè gli immigrati non se ne vadano. E chi ha più paura degli stranieri? Secondo i dati che abbiamo rilevato: i più anziani, i meno istruiti, le casalinghe, chi sta più di quattro ore al giorno davanti alla televisione. Se incrociamo le informazioni la risposta viene da sè: siamo un paese più vecchio, quindi più impaurito».



Il trattato di Schengen ha le ore contate? «Non voglio fare previsioni impegnative, nè essere l’uccello del malaugurio. Mi limito ai dati del sondaggio che abbiamo realizzato nel gennaio 2016, testando una serie di paesi europei. In Italia il 48% vuole ripristinare i controlli alle frontiere, per il 35% i controlli vanno ripristinati in determinate circostanze, per il 15% va mantenuta la situazione attuale. Schengen non piace a otto persone su dieci. In Italia, Francia, Spagna e Germania solo una minoranza è a favore di Schengen, in Italia e Francia questa minoranza è ancora più ridotta, da noi la maggioranza vuole ripristinare i controlli tout-court. Solo i giovani si sottraggono a questa logica e sono per l’apertura, contro le frontiere».


È solo l’ondata migratoria all’origine della crisi dell’Europa? «C’è una forte difficoltà nel costruire l’Europa perchè non c’è condivisione. L’Europa non nasce da sola, ci vuole un investimento chiaro e determinato. Ora cominciamo ad avere problemi anche a Est... È come se avessimo nostalgia dei muri».


Che risposta possiamo dare al problema migranti? «I confini sono importanti per distinguere noi dagli altri e per riconoscersi reciprocamente. Il filosofo francese Régis Debray ha scritto un “Elogio delle frontiere”. Il problema nasce quando le frontiere diventano muri che ci rendono schiavi delle nostre paure, che alimentano il senso di sicurezza ma non ci proteggono dalla disperazione altrui».

mercoledì 12 ottobre 2016

LA MOSTRA

La Remington? Me la metto a tracolla





 
"Hommage a Remington" di Patrizia Donà



La macchina da scrivere si trasforma in un “oggetto da indossare”. E non una macchina da scrivere qualunque, ma una vecchia Remington, reperto di archeologia del design dei primi del Novecento, nera ed elegante, massiccia e allo stesso tempo leggera nelle linee. La designer italo-croata Patrizia Donà ne è rimasta affascinata, ma non con l’approccio del collezionista. Ha studiato la natura meccanica complessa e l’estetica raffinata della Remington, ne ha smontato le varie parti, recuperato i pezzi, e li ha riconvertiti in un qualcosa di completamente diverso, per forma e funzione: la borsa. Oggetto da indossare, “wearable object”. Dove gli elementi della macchina da scrivere sono “citazioni”, indizi per metterci sulle tracce dell’originario strumento di lavoro, ma ormai trasformati in un accessorio fashion, o in pezzi al confine tra arte e moda, che mantengono un forte contenuto di design.

 
La designer italo-croata Patrizia Donà fotografata da Suzana Holtgrave



Le borse di Patrizia Donà prodotte a Zagabria con la firma “LaboratorioDonà”, insieme a una serie di oggetti d’arte della stessa designer, saranno da sabato 15 ottobre 2016 per la prima volta esposte in Italia all’Atelier Home Gallery di Trieste, (l’inaugurazione è alle 18.30), dove si inseriranno nella mostra “Plastic Divas” della connazionale Toni Mazuranic. Un dialogo tra due artiste accomunate non solo dalla provenienza geografica, ma anche da una simile riflessione sull’immagine della donna contemporanea e sui condizionamenti veicolati da pubblicità e magazine (www.atelierhomegallery.org).


I lavori di Donà - spiega la curatrice Matilde Tiriticco - rappresentano due serie distinte e due momenti espositivi autonomi. Le borse - in tutto sei: quattro a mano e tracolla e due clutch - fanno parte della serie “Hommage a Remington”, che ha vinto nel 2009 il Zagreb Salon Award: in pelle, con la patella colorata in tinte pastello e una fascia in acciaio inox con il titolo della collezione, recuperano i tasti e le parti metalliche della macchina da scrivere come bottoni e giunture, elementi decorativi e funzionali perfettamente inseriti nell’insieme.
Le borse più artistiche - e qui siamo già dalle parti dell’oggetto da esposizione - riutizzano l’intera tastiera della Remington, ri-allestita sulla tracolla in un modello perfetto per far impazzire le fashion setter a caccia di fotografi fuori dalle sfilate.
«La collezione - spiega Tiriticco - può essere vista come un work in progress, un processo in cui ogni parte della macchina viene riutilizzato, riciclato con un intento implicito o esplicito. Il risultato sono dei veri e propri oggetti da indossare, alcuni dei quali possono essere esposti in mostre, altri tranquillamente portati. Nel processo di decostruzione-ricostruzione, questi oggetti perdono la loro funzione e la loro forma originale, ottenendo una nuova identità grazie all’essere posti in un contesto inedito».






La seconda serie, che dà vita all’altro momento espositivo, prende il nome di “Pleasure to Superfluity”. Si tratta di oggetti, in ceramica o poliestere, che vengono privati della loro funzione e utilità ed esistono solamente per essere ammirati. Patrizia Donà utilizza parti di strumenti, come il misuratore della pressione sanguigna o una bottiglia di olio per macchine, li assembla con rimmel e tacchi, simbolo della bellezza femminile, e crea così collages tridimensionali.
 

Il tema e l’obiettivo sono gli stessi sviluppati nei ritratti delle Plastic Divas di Toni Mazuranic: l’ossessione della donna per certe parti del corpo, occhi e piedi, su cui interviene con il make-up o “esaltandole” con accorgimenti torturanti come un paio di stiletto. «Su queste parti “feticcio” si applica qualcosa - spiega Tiriticco - che anestetizza l’aspetto naturale. Proprio come i volti che la pittrice Mazuranic ricopre di glitter o vinile, per richiamare lo sguardo dell’osservatore sulla distorsione che questi elementi determinano nella percezione della bellezza. Entrambe, Donà e Mazuranic, invitano a riflettere sulle pratiche “intrusive” di ritocchi e adattamenti che dominano la comunicazione e la trasmissione dei canoni estetici, finendo per condizionare il modo in cui le donne si guardano e vogliono diventare.




 
"Pleasure to Superfluiti" di Patrizia Donà




Patrizia Donà ha studiato alla facoltà di filosofia dell’Università di Zagabria, quindi fashion design alla Willem de Kooning Academy di Rotterdam, dove si è laureata con lode nel 2006. Ha lavorato per il brand A.F. Vandervorst ad Anversa e, dal 2012, crea con il proprio marchio, LaboratorioDona, collezionando premi per il design di accessori. Borse e oggetti - già esposti in musei e biennali del design da Shanghai a Ottawa e Toronto, da Maastricht a Francoforte e Amsterdan - si potranno ammirare all’Atelier Home Gallery fino al 30 ottobre 2016 (giovedì, venerdì e sabato 18-20 o su appuntamento contattando info@atelierhomegallery.org).
@boria_a

leggi anche  http://ariannaboria.blogspot.com/2016/09/la-mostra-lifting-e-photoshop-le-cover.html

domenica 9 ottobre 2016

MODA & MODI

Tutto il guardaroba sta in bagno


Che le mezze stagioni non esistano più, è un’asserzione vetusta. Come le mezze maniche e le mezze calzette, la moda da tempo rifugge dalle zone grigie, prive di estremi ed estremismi, dove un tempo mamme e nonne riponevano il tailleur blu e gli impermeabili foderati che “scavallavano” i mesi intermedi tra grandi caldi e grandi freddi. 

Oggi ci si spinge più in là: non esistono più nemmeno le differenze tra “dentro” e “fuori”, quello che si indossa nell’intimità della propria casa esce baldanzosamente per strada, quello che era l’abbigliamento comodo in cui rifugiarsi e accoccolarsi, lontano da sguardi e giudizi altrui, rivendica la dignità di mostrarsi in pubblico. Anzi, secondo le passerelle appena archiviate, bastano i capi e gli accessori che di solito teniamo in un’unica stanza, per fornirci quanto ci serve per uscire.


Pensate a un’enorme cabina armadio quattro stagioni, dove tutto l’indossabile è presente contemporaneamente, dalle pedule pelose al microbikini? Siete fuori strada: è in bagno la summa e la sintesi del guardaroba. E se già vi pareva una forzatura l’evoluzione del pigiama di seta in completo da passeggio, tanto amata dalle vip e dalle cosiddette influencer di Instagram, che lo ritengono indispensabile per viaggiare comode senza rinunciare alla raffinatezza, allora avrete qualche difficoltà a familiarizzare con l’idea che accappatoi, vestaglie, ciabatte e cuffie da doccia possano lasciare i ganci accanto al termosifone o dietro la porta, uscire dai cassetti sotto il lavandino e invadere il paesaggio urbano senza imbarazzi.


Follia? Non secondo molti marchi che hanno proposto per la prossima primavera accappatoi colorati e con cappuccio, chiusi in vita dalla cintura, da sostituire al trench o al chiodo. Nessuno sforzo di fantasia: sono capi molto filologici, identici a quelli che si utilizzano in piscina o che forniscono gli hotel a molte stelle insieme alle ciabattine monogrammate di spugna. Se mai siete riusciti a trafugarne un paio, è il momento di sfoggiarle senza più sensi di colpa o di optare per la versione con suola opportunamente rinforzata che troverete in negozio.



Miu Miu, accappatoi e cuffie da bagno


E le cuffie da bagno con i fiori di gomma? Dalle passerelle fanno sapere che possono essere riconvertite in neo-moderni copricapi da pioggia. In qualche miniera del vintage se ne trovano di simili a quelle che Esther Williams metteva sui set degli anni ’50. Non saranno in materiali tecno, ma almeno hanno il profumo di un’epoca e non aspirano a niente di più che il getto della doccia. 



Esther Williams



@boria_a
 

sabato 8 ottobre 2016

IL LIBRO

"Le ragazze" di Emma Cline hanno sfiorato l'abisso




Emma Cline




Peccato che parlando dello straordinario esordio letterario dell’anno, “Le ragazze” della ventiquattrenne americana Emma Cline (Einaudi Stile Libero, pagg. 334, euro 18,00), si citino spesso Charles Manson e la strage compiuta da quattro componenti della sua “family” nella villa di Cielo Drive a Los Angeles, in cui, con altre quattro persone, fu ammazzata Sharon Tate, la moglie di Polanski incinta di otto mesi. Cline si è rifatta a questo sconvolgente fatto di cronaca, ha ambientato il suo romanzo nello stesso anno, il 1969, e il guru della comune al centro della storia, Russell, è un musicista fallito in cerca di vendetta, proprio come Manson.

Peccato comunque, nonostante la stessa giovane autrice abbia dichiarato la fonte dell’ispirazione. Perchè le immagini violente di quel crimine che, a distanza di anni, ancora abbiamo sotto gli occhi, riproposte periodicamente da giornali e tivù, si sovrappongono al crudele nitore, all’originalità della scrittura e, in qualche modo, intralciano col fastidio della cronaca nota, vista e stravista, la potenza e insieme la desolazione del racconto.


Che non è quello di una mattanza, compiuta sotto l’effetto di droga, da individui soggiogati e amorali. E nemmeno quella di un santone che irretisce ragazze sbandate e le obbliga a soddisfare le sue voglie, a mantenerlo, a uccidere per lui. Ma è la storia della “banalità del male”, filtrata attraverso gli occhi di una ragazzina sola che, nel giro di qualche mese, in un’estate torrida nella contea di Sonoma, in California, tra la fine di un ciclo scolastico e l’inizio di un altro, è attraversata da un orrore che le rimarrà appiccicato addosso per sempre, da un crimine non compiuto ma mai espiato. «Mia madre sarebbe stata via tutto il giorno, l’alcol mi aiutava a stenografare la mia solitudine. Era strano che ci volesse così poco per provare sensazioni diverse, che ci fosse un metodo sicuro per ammorbidire la massa incrostata della mia tristezza».





È la stessa protagonista, Evie Boyd, ormai una donna di mezza età, a ricostruire quell’estate adolescenziale sull’orlo del baratro, quell’ubriacatura incosciente di trasgressione, in lunghi flashback dove ai ricordi si mescola una sensazione che ancora le affiora dentro a distanza di tanti anni, il senso di aver toccato il limite oscuro tra indifferenza e malvagità ed esserne rimasta sedotta. «L’odio che vibrava sotto la superficie della mia faccia da bambina, penso che Suzanne l’avesse riconosciuto. Certo che la mia mano aspettava il peso di un coltello. La particolare cedevolezza di un corpo umano. C’era così tanta roba da distruggere».


Evie ha quindici anni all’epoca dei fatti e una famiglia spezzata: il padre se n’è andato con la giovane segretaria e la madre, prosciugandosi con stretching, tisane e cucina macrobiotica, cerca affannosamente un altro uomo. Vivono insieme, divise e accomunate dalla stessa disperata fame d’amore. È allora che "le ragazze" entrano nella vita di quest'adolescente in cerca di appigli, di qualcuno che la “guardi”. E finalmente la veda.


Donna, Helen, Roos e le altre hanno capelli lunghi e aggrovigliati, frugano nei cassonetti e rubano per mangiare, ma quando passano tra la gente sembrano "squali che tagliano l'acqua". Soprattutto Suzanne, bizzarra e selvatica, “una provocazione smaccata e pungente che equivaleva quasi alla bellezza”. Evie ne rimane affascinata e si trasferisce nella comune dove tutte vivono insieme al capo carismatico, Russell, artista senza talento, che le tiene agganciate a sè tra droga e materassi condivisi, bambini che non sono di nessuno perché appartengono a tutti, squallore e sporcizia, spostandosi su uno scuolabus dipinto di nero nell’appiccicosa estate californiana, in attesa di quel disco che non inciderà mai. Suzanne, col suo oscuro carisma, domina questa anomala trama di relazioni al femminile - amicizia, preferenze, sesso - ed Evie se ne sente violentemente attratta, compete per la sua attenzione, per la prima volta esplora un desiderio e un ordine di valori che non è quello del (e per) il maschio.


L'estate finirà come la cronaca, in un macello di innocenti che la giovane protagonista, poi cresciuta in un'adulta inaridita e amara, porterà su di sè come una cicatrice, come il marchio del trapasso ad un'altra età in cui continua a sentirsi estranea. «Suzanne mi impedì di fare quello che forse sarei stata capace di fare. E così mi restituì al mondo come avatar della ragazza che lei non sarebbe stata... Era un dono. Cosa ci ho fatto? La mia vita non ha preso la forma che un tempo mi ero immaginata».


A volte qualcuno chiede a Evie di ricordare l’estate della casa fatiscente, dei bimbi scottati dal sole. A volte è un odore, il sapore della soia o il fumo sui capelli ad aprirle una crepa nel petto. A Evie è toccata la storia smorta del testimone impotente, in fuga senza aver commesso un crimine, «un po’ con la speranza e un po’ con il terrore che nessuno mi venisse più a cercare». È questa la condanna più dura: sapere che il bisogno di “essere guardati”, di riempire il buco nel cuore, non si esaurisce mai. Che per farlo si può diventare cattivi. E che la vita è un continuo arretrare dal ciglio del burrone.

@boria_a

mercoledì 5 ottobre 2016

 MODA & MODI


Le vele (e il vento) della Barcolana imprigionati in un anello



 
L'anello "Bora" di Valeria Rossini per Bardot




 
"Barcolana" con il gioco delle vele

 

Si chiama “Barcolana” ed è un anello geometrico con due punte che richiamano il gioco delle vele. Questo modello fa parte di una piccola collezione firmata dalla giovane designer veronese Valeria Rossini, una “limited edition” studiata per la regata e in vendita solo a Trieste. Gli anelli saranno presentati sabato 8 settembre 2016, alle 19, da Bardot in via Madonna del Mare 6 a Trieste (www.bardottrieste.blogspot.com), alla presenza della designer e con una vetrina firmata dalla scenografa triestina Belinda De Vito.




Valeria Rossini, una laurea al Politecnico di Milano in design della moda, una specializzazione in design del gioiello, si divide tra l’ideazione di accessori e la sua professione di gemmologa, sperando di far diventare la passione “creativa” un’occupazione a tempo pieno. La prima collezione di anelli dedicata a una città ha avuto naturalmente come tema la “sua” Verona: Ponte Pietra, Piazza Bra, il balcone di Giulietta e Romeo, le Arche scaligere, il duomo e le Torricelle sono stati tradotti in anelli dalle forme tonde o appuntite, molto minimal, ma con una personalità precisa.


Innanzitutto per il materiale scelto, l’ottone, che consente di produrre a prezzi accessibili a tutti. E poi per la tecnica, senza stampi: nessuna serialità, non c’è oggetto uguale a un altro. Ogni pezzo viene realizzato a “cera persa”, con la confezione del calco all’interno di cilindri di gesso, dove, una volta sciolta la cera, si cola il metallo. Alla fine il gesso si spacca col martello per estrarne l’accessorio, che sarà sempre esclusivo, per proporzioni e impercettibili difetti. «Mi piace l’idea di lavorare su pezzi unici. E chi ha detto che l’esclusività deve essere per forza legata alla preziosità dei materiali?» dice Valeria Rossini.



La collezione triestina, oltre a “Barcolana”, propone altri cinque modelli: “Bora”, che si infila su due dita («ho giocato con l’effetto del vento, che sembra appiattire tutto», spiega la designer), “Molo Audace”, allungato su tutta la mano, il rettangolo stilizzato di “Piazza Unità”, un incastro di triangoli per il “Tempio Mariano” e due cerchi l’uno nell’altro a evocare la “Rosa dei venti”.



"Molo Audace" (il mio preferito)


Ogni anello - in tutto ce ne saranno trentasei - sarà numerato e certificato dalla designer, con una breve spiegazione del modello. La collezione si chiama “VR per Bardot”, perchè l’idea dell’edizione speciale per la regata è nata dall’incontro di Valeria con Isabella Bullo, triestina di origini veronesi, sempre a caccia di giovani promesse dell’accessorio.



 «E pensare che non avevo mai visitato Trieste», racconta Valeria. «Mi ci sono fermata quest’estate, al ritorno da una vacanza, e l’ispirazione è stata immediata. Con la collezione su Verona, la prima che ho venduto fuori dallo studio in cui lavoro come gemmologa, ho avuto grandi soddisfazioni. Speriamo che anche Barcolana e bora siano un mix di successo».
@boria_a