lunedì 16 maggio 2022

MODA & MODI

Martha Stewart e i nipotini della Gen Z

la generazione senza età

 


 

 

L’ottantenne Martha Stewart, che ha guadagnato una fortuna nella televisione americana come maestra di lifestyle domestico e di bon ton, si rivolge alla Generazione Z, demograficamente la fascia che va dai 9 ai 24 anni. Qualche consiglio da vivace vegliarda per stare al mondo con eleganza? Tutt’altro. Martha è appena diventata testimonial per una griffe cosmetica di lusso e su TikTok ha il compito di convincere i suoi nipoti e bisnipoti di quanto sia importante comprare una crema che scolpisce il viso a più di mille dollari. Benvenuti con Martha nella “generazione senza età” titola il New York Times. Lei, che dimostra trent’anni di meno, con ha un viso luminoso e senza una ruga, è l’ambasciatrice perfetta della “positivity” degli anni che passano e mostra ai ragazzini, sul loro social preferito, come la vecchiaia non sia affatto da temere, anzi possa essere una stagione liscia, candida, perfino eccitante.

Alla Generazione Z, nata e cresciuta nell’era delle videochiamate e delle videoconferenze, di zoom e teams, la prima che comunica con la faccia costantemente esposta, il messaggio è inequivocabile: nella società digital non è accettabile diventare vecchi, non a caso ai giovani parla una vecchia che vuol sembrare giovane. Il che è esattamente lo stesso: il decadimento non è esteticamente ammesso. Se usi i prodotti giusti non dovrai fare i conti con ragnatele, macchie, smottamenti.


La testimonial agée è da tempo una moda. Iris Apfel, con la sua potente faccia rugosa, è stata il volto dei cosmetici Mac e oggi, alla vigilia dei cent’anni, lancia la sua linea beauty. Benedetta Barzini, il viso da divinità Maya profondamente solcato, a ottant’anni continua a posare per servizi fotografici, mentre Jacky O’Shaughnessy, ai sessanta passati, ha promosso l’intimo di American Apparel nella sua fragilissima pelle trasparente. Una scrittrice raffinata come Joan Didion è stata il volto di Céline, in occhiali neri sulla guancia cadente. Per tutte loro l’accento era sull’energia, sulla vitalità, sull’indipendenza anche nella stagione avanzata della vita, soprattutto dai bisturi. Il messaggio pubblicitario - perchè sempre di pubblicità si tratta - era diretto a donne negli “anta” con possibilità economiche, per rendere desiderabili i prodotti scelti da fuoriclasse nel loro campo: scrittrici, artiste, modelle. L'ultimissima della serie è l'ex top model Maye Musk, madre di Elon, a 74 anni in costume da bagno sulla sua prima cover, quella di Sport Illustrated Swimsuit, a incarnare l'empowerment femminile coi capelli bianchi e la body positivity insieme a Kim Kardashian, alla cantante Ciara e alla modella e musicista Yumi Nu.


Con Martha Stewart la prospettiva è rovesciata. E i destinatari della pubblicità anche. Bambini o poco più. “Niente coltelli sulla mia faccia», ha detto lei, ammettendo comunque di essere seguita da due dermatologi newyorkesi le cui procedure permettono di raggiungere lo stesso risultato, attraverso serrate routine di laser, filler, ultrasuoni. Lama o crema a tanti zeri, cambia solo il grado di invasività: la vecchiaia va allontanata in tutti i modi, la giovinezza è un imperativo. Ecco il siero che fa sembrare la tua pelle come se fosse passata al Photoshop: il problema non è il siero, che mai farà miracoli, è sembrare photoshoppati, perfetti, eterni.


Ai giovani della Gen Z che ballano davanti allo specchio su TikTok, la loro nonna dice che dovranno rimanere sempre così: tonici, freschi, intatti. Che dovranno spendere soldi, tempo, energie, per condannarsi a un’eterna - questa sì - lotta contro il tempo. Generazione senza età e senza una parte della vita.

domenica 15 maggio 2022

IL PERSONAGGIO

 

Il mito Anita Pittoni

e quel golfino all'uncinetto

sotto casa delle sorelle Wulz 


Anita Pittoni indossa una sua creazione


 Anita Pittoni inventiva creatrice di moda? Creatrice sì, prima di tutto di se stessa. In alcune note autobiografiche, manoscritte e dattiloscritte, l’artigiana artista triestina si raccontava con particolari diversi, costruiva e adattava il suo profilo alle occasioni, agli incontri, agli interlocutori cui erano dirette. Si voleva designer naturale, autodidatta ispirata, mitizzava gli inizi. Del tutto priva di esperienza - diceva di sè - si era messa a lavorare all’uncinetto un golfino, sul gradino davanti alla porta dello studio delle sorelle Wulz, Wanda e Marion, al numero 19 di Corso Vittorio Emanuele III a Trieste, oggi corso Italia. In un altro suo testo, “La boutique de la femme italienne”, scherzava sulla sua griffe, ma con l’orgoglio di appartenere di diritto a una dimensione artistica: “Vostra moglie non vi ama. Donatele un costume Pittoni. Il vostro amante vi dimentica. Donategli una fotografia Wulz”.


Capitava, però, che qualche dettaglio sfuggisse al controllo di Anita, che qualche nota non fosse rivista e allineata. Ecco allora un’altra delle sue autorappresentazioni delineare un percorso diverso, chiarendo ruoli e suddivisione dei compiti nello Studio di arte decorativa che all’inizio teneva nella dimora delle Wulz, prima di trasferirsi in via D’Annunzio 1 (l’odierna via del Teatro) e poi in via Cassa di Risparmio: loro fotografavano capi e accessori, lei li realizzava, ma i disegni e i bozzetti erano firmati dal grafico pubblicitario polesano Marcello Claris. Non modelli di suo pugno, dunque, ma di un artista al quale va certamente attribuito l’album dei gilet ora conservato al Museo Wolfsonian di Genova e ritenuto di Anita.


Fingere abilità, o sottacere collaborazioni, contribuiva a creare il suo personaggio. Le piaceva dare di sè una descrizione “verosimile”, dove coesistono verità, un pizzico di esagerazione e ruoli di pura invenzione. Accade, per esempio, sempre secondo un’altra delle sue autobiografie, quando affermò di essere stata aiuto del regista Anton Giulio Bragaglia per le scene de “Il suggeritore nudo” di Marinetti. Una fantasia: le realizzò in realtà l’artista e designer Bruno Munari.
C’è una biblioteca di moda che racconta molto sulle fonti dell’ispirazione della Pittoni e sulle origini della sua opera tessile. Ma anche sui vezzi, sulle debolezze della donna e della creativa. Un centinaio di pubblicazioni preziose per “contestualizzare” questa singolare ed eclettica figura di “genio della manualità”, per citare la definizione che di lei diede Tullio Kezich, il cui lavoro di designer si nutriva di moltissime letture e sollecitazioni visive, era dunque tutt’altro che spontaneo.

 

Anita Pittoni nel 1933 con una sciarpa di lana lavorata all'uncinetto

 


Sui volumi, di proprietà di vari collezionisti, sta lavorando il libraio Simone Volpato, al quale si devono mostra e catalogo FuturAnita del 2016, dedicati alla vita quotidiana dello Studio di arte decorativa, a clienti, patronesse e testimonial di sangue blu, a committenti e fornitori, alla corrispondenza e ai contatti mantenuti negli anni della moda, dal 1920 in poi, quando non era neanche ventenne. Nel 1949 Anita lascerà la moda per una nuova avventura, l’editoria di pregio. Se ne sono occupati di recente Michela Messina e Sergio Vatta, mentre lo studio di Volpato diventerà un libro, per i tipi dell’editore Ronzani.


Sfogliamo i volumi. Per imparare a riconoscere le tipologie di tessuti e studiare armature di stoffe, Anita legge due manuali editi da Hoepli, di Oscarre Giudici e Pietro Pinchetti, del 1904 e 1910. Ne “L’arte decorativa contemporanea” di Carlo Carrà, del 1923, si sofferma sulla sezione arazzi, pannelli, tappeti, merletti, dove l’autore parla di Fortunato Depero, di Rosa Menni Giolli, maestra delle arti decorative applicate alle stoffe, del designer e architetto Marcello Nizzoli e dell’Associazione del Batik di Trieste fondata dalla pittrice Maria Lupieri. Tra queste pagine è conservato il suo primo monogramma “AP”, sotto forma di ex libris.


Dello stesso anno è un’altra opera consultata da Pittoni, “Le arti a Monza nel MCMXXIII” di Roberto Papini, dove sottolinea i passi dedicati a Depero, alle sete di Guido Ravasi, ai velluti di Lorenzo Rubelli e agli arazzi di Vittorio Zecchin. Nel numero monografico di “Noi. Rivista d’arte futurista”, ancora del ’23, studia i cuscini e i pannelli di Depero e Valente. Nel 1925 visita la Seconda internazionale delle arti decorative a Monza, di cui acquista il catalogo, mentre per approfondire la lavorazione dei cuscini in panno consulta quelli della ditta torinese Lenci degli anni ’26 e ’28. Infine, quando si avvicina al mondo delle navi nel 1932, si fa donare da Ernesto Nathan Rogers il volume di Anselmo Bucci, “Arte decorativa navale”.

 

Un cappello di Anita Pittoni alla Triennale di Milano nel 2016

 


Nella biblioteca Pittoni trovano spazio tutte le novità editoriali dell’epoca in materia di interior design. Negli scaffali anche volumi d’arte e i cataloghi della mostra del Novecento Italiano di Margherita Sarfatti del 1926 e 1929. La “pittrice dell’ago”, come la chiamava Bragaglia, è curiosa e attenta alle uscite. Legge, sfoglia, si imbeve di immagini, colori, grafismi. Assorbe come una spugna.


Se si potesse dunque idealmente allargare la foto in cui Anita Pittoni dice di aver uncinettato il golfino perfetto sotto casa delle amiche Wulz, nell’inquadratura entrerebbero Carrà, Depero, la moda femminile dei futuristi, teorizzata nel manifesto di Volt (il poeta Vincenzo Fani Ciotti), la stessa Sarfatti. Era il mondo dell’arte che le offriva spunti per disegnare il moodboard delle sue collezioni. Anita lo faceva, e spesso lo credeva, tutto ed esclusivamente suo.

martedì 3 maggio 2022

MODA & MODI 

Giacca biker e scarpets, unione senza regole

 

Giacca biker e friulane. Due dei pezzi di tendenza della stagione sembrano inconciliabili. Aggressività e comodità, un capo da motociclista e una ciabattina nata da antiche sapienze artigianali, che ispira più sussurro che rombo. A metterli idealmente d’accordo è Kate Moss, modella icona e volto degli anni Novanta, da sempre fan del giubbotto di pelle. In una galleria fotografica attraverso i decenni, lo ha abbinato a vestitini sottoveste, gonne lunghe, jeans, leggings e t-shirt, trasformandolo in un pezzo per ogni ora e occasione, ammorbidendolo senza snaturare il suo dna selvaggio e libertario.

E le cosiddette friulane che c’entrano? Anche loro piacciono a Kate, paparazzata a Londra nel 2017 con un paio di pantofole rosse a dare un guizzo di colore al suo total black. Per la verità non erano le autentiche friulane - anzi gli scarpets, così come si chiamavano prima che il marketing li vampirizzasse - ma la versione sciccosa comprata in una boutique di Soho e firmata da due sorelle veneziane di sangue blu che insistono sulla improbabile nascita lagunare della ciabatta. La scelta, comunque, era chiara.

 

Kate Moss in friulane (Getty)

 

Giubbotto biker e friulane, da diversi punti di vista ci parlano entrambi di libertà, una parola chiave ai tempi della pandemia e non solo nella moda. Un recupero dal passato che reinterpretiamo alla luce di esigenze cambiate, della voglia di praticità, versatilità, di un vestire ribelle ai codici. Correva l’anno 1953 quando “il selvaggio” Marlon Brando lanciava chiodo, jeans e t-shirt bianca, da allora saliti più volte in passerella insieme. Negli stessi anni James Dean, Steve McQueen, Elvis Presley entrano nell’immaginario comune in giubbotto di pelle. È il 1978 quando Olivia Newton-John in Grease ne fa un capo passepartout dell’abbigliamento femminile, calcando su aggressività e sensualità. E via via, dai Sex Pistols a Blondie fino a Kate Moss, la giacca di pelle zippata appartiene ormai al nostro guardaroba, quest’anno riletta dai designer in molteplici versioni: modelli corti con revers, lunghi stile giacca maschile, con maniche a sbuffo, borchiati, finto stropicciati e consumati.


Le friulane non sono cinematografiche ma vantano un’eredità ultrasecolare. Scarpe nate in Friuli dal riciclo dei tessuti, genderless prima che la parola diventasse di moda, così fluide da essere intercambiabili tra piede destro e sinistro, espressione di un’economia circolare dettata dalla necessità che oggi rivalutiamo per emergenza e sostenibilità. Diventate negli ultimi anni prodotto di massa, uscite dall’industria più che dal duro lavoro di modellare suola e tomaia ad ago (anche se i patiti si arrampicano nei paesi di montagna per assicurarsi i veri pezzi unici), sono diventate di per se stesse un brand riconoscibilissimo, conservando la forma e l’asciuttezza originali.


Punk rock e tradizione, chiodo e scarpets. Entrambi fanno tendenza, ma l’accostamento, a sorpresa, non stride. Sono scarpe e giubbotti che si abbinano a gonne e pantaloni, al corto e al lungo, mattina e sera. Non perdono il loro spirito, nelle situazioni più diverse. Kate Moss insegna.