martedì 31 dicembre 2019

MODA & MODI

Per una notte liberiamo la material girl 




A conclusione dell’anno della paillette, quale migliore occasione per brillare un’ultima volta? Stasera è il momento giusto, forse l’unico, per cedere alla tentazione della squama d’oro o d’argento, per abbandonarsi allo sbrilluccichio che ha percorso tutto il 2019, sul filo della nostalgia degli anni Ottanta. Alla vigilia di un altro giro di boa del nuovo Millennio, in mezzo a tempi globalmente inquieti e pensosi, ci siamo rifugiati nel decennio più gridato, smaltato, gonfiato, infarcito di roushes e di balze, tappezzato da pelle e animalier, con spalle combat pronte a tutte le sfide, fuseaux da pantera e stiletto come spiedi per infilzare il mondo. La questione ambientale era allora una preoccupazione di là da venire, e su ogni capo o accessorio si accendeva un fuoco glitter, riscaldasse o no il pianeta. 

L’anno che salutiamo ha molto citato gli spensierati Eighties, inchiodando la moda al bello delle sue contraddizioni. Mentre nei telegiornali rimbalza la severa ragazzina che rampogna i grandi della terra, in ogni vetrina c’è un reperto a ricordarci il tempo in cui tutto sembrava fluo e non per gli acidi inquinanti dell’industria della moda: un guanto, un berretto, una borsa percorsi da una scia di piccoli dischi luminosi, e poi miniabiti, pantaloni, top e camicie, perfetti per cambiarci la pelle in quella di rettilesse urbane.


Paillettes effetto placebo? Chissà. Anche Madonna, di recente, è diventata una Madame X qualsiasi e, azzoppata, ha fermato l’omonimo tour. Infiliamoci allora nelle nostre squame colorate, senza esagerare. Anche se servono piuttosto a consolare che a colpire e affondare. Prima di Greta, dentro di noi c’era una material girl, che amava e consumava tutto quello che era fast, cibo, amori, vestiti.


Per stanotte soltanto, grazie a un pugno di stelle da metterci addosso, la liberiamo, la facciamo tornare a splendere.

@boria_a

sabato 21 dicembre 2019

IL LIBRO

Abir Mukherjee: Successione di sangue in India tra diamanti e concubine



Il primogenito del maharaja del minuscolo e ricchissimo regno di Sambalpore, il principe ereditario Adhir, viene ucciso a colpi di pistola da quello che ha tutta l’aria di essere un fanatico religioso. Si apre con un altro cadavere scomodo e un assassino troppo scontato per essere plausibile, il secondo giallo storico di Abir Mukherjee, “Un male necessario”, la cui uscita in Italia, ancora una volta per i tipi di Sem, segue di un anno quella del thriller d’esordio, il pluripremiato “L’uomo di Calcutta”.




In campo ritorna la singolare coppia di investigatori che ha catturato lettori in tutto il mondo: il tormentato capitano Wyndham, ufficiale di Scotland Yard e veterano della Grande Guerra, che in India fugge i fantasmi del passato tra bottiglie di whisky e fumerie d’oppio, e il colto sergente indiano Banarjee (detto Surrender-not, non arrenderti, per facilitare la pronuncia ai non nativi), proveniente da una famiglia di bramini e laureato in Inghilterra, con la pelle scura e i modi di un gentiluomo british. Due personaggi in cui l’autore, attento ai chiaroscuri, sintetizza e dosa le contraddizioni del British Ray: la superiorità morale di cui i dominatori si credono custodi, sgretolata dalle debolezze e dalle seduzioni della vita coloniale e l’espressione di una nascente classe indiana moderna e istruita, i cui sogni di libertà si infrangono nella frustrante subordinazione ai reggitori stranieri.

Siamo a Calcutta, in un torrido giorno di giugno del 1920. Il paese è percorso da fremiti indipendentisti e venti principi indiani sono stati convocati dal governo britannico alla Government House per sondare l’assenso alla costituzione di una Camera, sull’esempio di quella dei Lord, che acquieti le tensioni. È in questa occasione che Adhir, compagno di studi di Surrender-not nelle università inglesi, uomo talmente ricco da incastonare i diamanti nella barba non avendo più spazio su volto e dita, viene assassinato in strada, mentre a bordo della Rolls-Royce sta tornando in albergo per mostrare al vecchio amico alcuni messaggi di morte che ha trovato nelle sue stanze al palazzo reale. Si apre una successione complessa al maharaja di Sambalpore, anziano e malato. Tolto di mezzo Adhir, in prima linea c’è ora il fratello Punit, un dongiovanni vanesio, e dopo di lui il piccolo Alok, figlio della terza moglie legittima, la maharani Devika.


Lasciata alle spalle la magmatica Calcutta, Wyndham e Surrender-not viaggiano sul treno di stato, insieme alla salma del principe, fino al ricchissimo regno di Sambalpore, perso nelle terre selvagge dell’Orissa, dove prima l’oppio, poi le miniere di diamanti assicurano ai reali una vita faraonica. Nei giardini curati come quelli di Versailles, al centro dei quali si erge il Palazzo del sole, imbustate nelle uniformi le governanti inglesi portano a spasso i più piccoli tra i duecentocinquantasei figli che il maharaja ha avuto da 126 concubine, mentre nelle cucine spadellano chef francesi e la caccia si fa su Rolls mimetiche guidate da autisti italiani. Le pietre preziose assicurano ricchezze enormi e alimentano gli appetiti di entrambi, indiani e inglesi, in una rete di commistioni tra apparati e di interessi macchiata di sangue.


Ma lo spostamento dell’azione da Calcutta non è solo geografico. E l’omicidio per avidità è una soluzione troppo facile per Mukherjee, che ha abituato il lettore, nella cornice di un sorvegliato impianto storico, a realtà cangianti, in cui bene e male si mescolano. Nel gotico regno fuori dal tempo, sono le donne, custodi di culture e tradizioni, a ordire occulte strategie. Le concubine che tramano nello zenana, garantendosi la complicità dei sorveglianti eunuchi, o l’intoccabile prima moglie, colpita dalla maledizione della sterilità, che muove i fili di marito e figliastri e manipola gli stranieri per controllare la successione, quindi il potere. Ai funerali di Adhir spicca nel sari bianco l’inglese Pemberley, la straniera che l’illuminato erede al trono voleva portare a palazzo come seconda moglie, rompendo tradizioni millenarie e sfidando la devozione del popolo, mentre Annie, la misto sangue anglo-indiana che Wyndham ama, flirta col vacuo principe Punit, attaccato ai privilegi della sua casta.


Nella ricerca della verità il capitano si trova a fare i conti prima di tutto con i suoi pregiudizi. La contaminazione che mina all’interno il gioiello dell’impero britannico è ormai un male necessario al cambiamento. 

@boria_a

lunedì 16 dicembre 2019

MODA & MODI

La borsa invisibile che ci rende invisibili 



La microbag di Jacquemus


La borsa? Non rappresenta più il nostro universo compatto e definito, l’estensione quotidiana in cui trasportare ovunque l’indispensabile superfluo, l’áncora, il kit salvavita, il complemento funzionale per eccellenza che tanto rivela di noi e del nostro mondo. Quest’anno rimpicciolisce fino a scomparire o raddoppia.
 La micro bag si perde nel palmo di una mano. Lanciata da un brand come invito alla sua sfilata, niente più che un innocuo gadget per le ospiti dell’evento, si è trasformata in oggetto inutile ma  distintivo dell'appartenenza a un gruppo di poche elette: al collo, a tracolla, concupita grazie ai plotoni di like sulle pagine Instagram delle “influenzatrici”, la borsa-collana o bandoliera non è in grado di contenere alcunché se non un messaggio: posso farne a meno (dalla borsa vera, ovviamente).

Quella doppia, o sdoppiata, è composta da due contenitori sovrapposti, di solito forniti dai brand in deliziosi pendant, in cui ognuno compensa le carenze dell’altro. Se cambiare borsa stressa, qui siamo davanti al bivio estetico: come dividerci, come ripartire ciò di cui abbiamo bisogno in ogni momento della giornata? Perché nella cartella piatta, per evitare protuberanze fastidiose, possono entrare un tablet o uno smartphone, nel bauletto che la complementa come un borsellino esterno, c’è posto solo per la carta di credito, le chiavi, al più un rossetto. Ci basta?


L’investimento, in entrambe le opzioni, non è  da poco.

La borsa che si fa in due, se griffata, tocca alcune migliaia di euro, la microbag divide equamente la spesa per misura: cento euro per ciascun centimetro, qualche spicciolo nelle repliche low cost.

Ma la Mary Poppins che è in ognuno di noi si ribella. Per quanto 2.0 e moderata frequentatrice dei social, anche la tata più famosa del mondo si irriterebbe nel vedere smantellata o ridotta a un atollo la sua isola, la sua riserva inesauribile di creatività e libertà.


La borsa ci identifica, siamo noi, un portaditale con un marchio è solo chi imitiamo. È invisibile, appunto, e ci rende così.
@boria_a

giovedì 5 dicembre 2019

MODA & MODI

Le ragazze del Bauhaus si riprendono la scena a Trieste




Le ragazze del Bauhaus si riprendono la scena. Pioniere del design nella scuola di Weimar, dove entrarono in massa contro ogni previsione, di loro si sono perse le tracce, penalizzate dalla distruzione degli archivi del laboratorio, dai cambi anagrafici legati a matrimoni o divorzi, ma anche cancellate dai compagni ingombranti (chi ricorda Ise Gropius se non come moglie del fondatore Walter? O Lilly Reich, interior e forniture designer, che ebbe un ruolo centrale nei progetti attribuiti in esclusiva al partner Ludwig Mies van der Rohe...?). A parte la rivoluzionaria creatrice di arazzi Anni Albers, Alma Buscher, Marguerite Friedlaender, Gertrud Arndt, Benita Otte, Lilly Reich o Ivana Tomljenović, fotografa e grafica croata, sono solo nomi.

Per celebrare i cent’anni del Bauhaus e l’apporto di creatività, rigore, innovazione delle sue artigiane, artiste, architette, è nato a Trieste il progetto “Le ragazze vogliono imparare”, che vede per la prima volta collaborare Ines Paola Fontana e Roberta Debernardi di Studiocinque e altro, e lo spazio design di accessori e gioielli Giada di Silvia Vatta. Sono dodici le collane, pezzi unici, che Fontana ha ideato per altrettante ragazze del Bauhaus e che saranno esposte, dal 6 dicembre 2019 in via Roma 16 a Trieste, accanto alle foto dei progetti delle creative cui sono ispirate e a font tratti dai titoli di giornali dell’epoca, in un allestimento ideato da Debernardi.





Per Ise Gropius, editor e progettista, che il marito definiva Mrs. Bauhaus, è nata una collana costituita da un tubolare d’acciaio dove si muovono perle in vetro, in un gioco cinetico che sintetizza rigore ma non povertà di idee. Alma Buscher, che inventò un giocattolo tuttora in produzione, ha ispirato una collana di perle di legno nei colori primari del Bauhaus, rosso, blu e giallo, mentre i motivi della ceramista Friedlaender sono ripresi con perle bianche di pasta di vetro e inserti dorati.




I mosaici tessili di Gertrud Arndt ritornano nelle righe create attraverso un gioco di paillettes di più colori, il lavoro di Anni Albers nella collana “taglia-e-cuci”, costituita da quadrati di stoffa uniti da un unico filo. Marianne Brandt fu una delle poche donne a entrare in quel santuario maschile che era l’officina dei metalli del Bauhaus, dove ideò alcuni dei suoi pezzi più iconici, ancora in produzione e oggi esposti al MoMa di New York. Per lei, la collana esprime forza e leggerezza, alternando dischi di metallo e pezzi d’ebano.

martedì 3 dicembre 2019

MODA & MODI

L'Africa decò nella capsule di Silvia Rossi





Silvia Rossi (www.silviarossigioielli.com) si fa desiderare ma quando presenta una nuova collezione di accessori sembra che non sia mai uscita dal suo microscopico laboratorio sotto San Giusto a Trieste e che i pezzi siano la naturale prosecuzione, la messa a fuoco di un particolare di tutto il percorso precedente. Per questo - racconta la designer triestina - anche nell’ultima capsule ha sintetizzato suggestioni che da sempre le sono congeniali, ha ripreso forme, colori, ispirazioni che negli anni hanno alimentato il suo lavoro e le ha declinate in modo diverso. Il moodboard, i riferimenti visivi, rimangono immutati, le geometrie pulite, gli elementi tribali, la cultura ornamentale di altri paesi, ma ogni volta più depurati, più puliti, per arrivare a uno stile essenziale, che sia subito riconoscibile come suo.

Africa ’20s, così si intitola la piccola e compiuta collezione uscita in questi giorni, è un altro capitolo di una ricerca costante. Sei spille e trentaquattro orecchini, tutti pezzi unici, legati dal filo conduttore della geometria e della leggerezza. I materiali sono l’ottone, il legno e il plexiglass, quest’ultimo la sua cifra distintiva, che lucida, taglia, assembla fino a togliergli qualsiasi consistenza, a renderlo piumato e aereo come vetro soffiato. Sono bijoux leggerissimi da indossare, ma con una forte matericità, soprattutto le spille, tonde o asimmetriche, che giocano su incastri di linee curve e colori base: nero, bianco, rosso denso, un rosa antico incorniciato dal calore del legno.





L’Africa, le sue tinte e i suoi monili, uno dei filoni in cui Silvia Rossi si riconosce, si intrecciano ai motivi dell’arte decò, creando oggetti senza nessuna enfasi etnica. In ogni orecchino, a lobo o pendente, il plexiglass dorato è un punto luce, nelle spille, grandi e importanti, è il rosa pastoso il colore che cattura l’occhio, rompendo la palette a scacchiera. Ciascun oggetto distilla idee, geografie epoche precise, eppure riesce a essere senza tempo, slegato dalle mode.


La collezione di Silvia Rossi è in mostra nella gioielleria Crevatin di piazza Cavana a Trieste.

@boria_a

lunedì 2 dicembre 2019

LA MOSTRA

Dress code: righe, quadri fiori
per il Museo della Moda di Gorizia





Le marsine settecentesche nel nuovo allestimento del Museo della Moda di Gorizia (foto Gianluca Baronchelli)


Righe, quadri, fiori. C’è un dress code suggerito agli ospiti per la riapertura del Museo della Moda e delle Arti applicate di Gorizia, che il 3 dicembre 2019 festeggia vent’anni con un riallestimento della collezione e una mostra temporanea. Un gioiello che custodisce novemila pezzi, tra abiti, accessori e monili dell’area mitteleuropea, abbracciando Gorizia, Trieste, Vienna per spingersi fino a Praga, rappresentata da una serie di corsetti a suo tempo acquistati in un negozio triestino e facenti parte della collezione Verchi, cuore dell’intero patrimonio.

Quello di Gorizia è uno dei pochi musei della moda in Italia, accanto al veneziano palazzo Mocenigo, dedicato al ’700, e alla Galleria del Costume di Palazzo Pitti a Firenze. Non a caso a festeggiare l’anniversario, oggi ci sarà una nutrita rappresentanza della famiglia Missoni, mentre lo stilista artista Roberto Capucci arriverà nei prossimi giorni: a entrambi, Capucci e il caleidoscopico Ottavio, il Museo di Gorizia ha dedicato, nel 2004 e nel 2006, due grandi mostre firmate da Raffaella Sgubin.


Sarà lei, che nel luglio 2000, a pochi mesi dall’apertura del Museo, avvenuta il 3 dicembre 1999, ne divenne responsabile, per ricoprire la carica fino a oggi in qualità di direttrice del Servizio Ricerca, Musei e Archivi Storici dell’Erpac, a fare gli onori di casa a Borgo Castello. «L’ho visto nascere e oggi lo riapro» dice con orgoglio, ricordando come, vent’anni fa, l’allora direttrice dei Musei goriziani, Maria Masau Dan, poi assessore alla cultura della Provincia, abbracciò con entusiasmo l’idea di creare un Museo della moda. Nacque in pochissimo tempo, con vecchi allestimenti disponibili e intorno a un nucleo già presente, una raccolta di oltre settecento campioncini della produzione della seta a Gorizia e nel circondario, donati al museo agli inizi del Novecento dalla famiglia di Lodovico Seculin, commerciante di mercerie. Oltre allo splendido torcitoio circolare da seta del XVIII secolo, acquisito nel 1913, il più antico pervenuto: veniva azionato da una persona che, al suo interno, camminava all’indietro, appoggiata a un sedile verticale, mentre con le mani libere eseguiva un secondo lavoro, magari quello del sarto.





«È stata Maria Masau Dan - racconta Sgubin - a gettare le basi del Museo, con tre acquisti strategici compiuti negli anni Ottanta. Nell’85 i gioielli della chiesa di Sant’Ignazio, circa duecento pezzi tra spille, orecchini, bracciali donati dai fedeli come ex voto. Poi, nell’87, tre abiti straordinari comprati da un privato goriziano: due femminili e una marsina di fine ’700. Infine, nel ’92, il colpo da maestro: l’acquisto della prima tranche della collezione Verchi. Masau Dan, con intelligenza e sensibilità, ne intuì il potenziale. Si tratta di migliaia di capi, tra abiti e accessori, dal ’700 alla prima guerra mondiale. Questo - prosegue Sgubin - è stato il punto di non ritorno per la costruzione delle collezioni dei Musei goriziani. Da allora il tessile è diventato centrale». Nel ’93 una mostra, intitolata “Il filo lucente”, raccontava duecento anni di produzione della seta e del mercato della moda a Gorizia, dal 1725 al 1915. Le premesse per la nascita del Museo c’erano tutte.








Righe, quadri, fiori. Il riallestimento delle collezioni segue lo stesso filo conduttore. La sezione tessile, con i campioni di tessuto e i macchinari, dove un’installazione multimediale consente al visitatore di cimentarsi nel design, poi la parte centrale, con gli abiti a tessuti rigati e quadrettati, dal ’700 agli inizi del ’900, incorniciati da un’altra installazione multimediale basata su figurini, che conduce il pubblico in un viaggio nella storia del costume, di ieri e di oggi. Perchè la moda non inventa nulla. Prova ne sia una delle superbe scarpine che vedremo enfatizzate dal video, con calzetto incorporato e bottoncini laterali, che fa parte di una recente acquisizione: un raccolta di dieci paia di calzature dell’800, di pelle e seta, viola mammola, blu cobalto e verde smeraldo, uscite miracolosamente, e in perfetto stato, dalla soffitta di un’abitazione della periferia triestina.




L’ultima parte del percorso espositivo permanente, curata da Thessy Schoenholzer Nichols, si intitola “Nel regno di Flora”. Lungo il filo conduttore dei fiori spicca una vetrina con un altro acquisto recente, una serie di marsine del ’700, il cui lato B, presenta sulle code spettacolari ricami floreali, perchè l’uscita di scena dei gentiluomini doveva essere altrettanto emozionante che l’entrata. In questa sezione il pubblico potrà ammirare anche due abiti della designer Maria Monaci Gallenga (1880-1944), busti, gilet, ombrellini, un abito da sposa e un’installazione streetwear dove, su una base di sanpietrini identici a quelli della strada davanti al museo, spicca una serie di vestiti floreali dagli anni ’50 agli ’80.



Nella mostra temporanea, una tavola del tempo racconta al pubblico le acquisizioni, le esposizioni, gli snodi della vita del museo. Accanto, una testimonianza delle mostre recenti, quella dedicata a Roberto Capucci, con lo spettacolare abito-scultura “Oceano” creato per l’Expo di Lisbona del ’98 (un’onda di quasi cento metri di taffetà e organza, ventisette sfumature di colore, dal bianco al blu, cinque mesi di lavoro di cinque sarte), e il “Bocciolo di rosa”, affiancato alla foto di Massimo Gardone, protagonisti dell’allestimento “L’atelier dei fiori”; poi tre pezzi del ’71, esposti in “Caleidoscopio Missoni””, infine due costumi dai film “Morte a Venezia” di Visconti e “L’età dell’innocenza” di Scorsese, per ricordare l’omaggio alla sartoria Tirelli e alle sue creazioni da Oscar.



Intanto, il Museo della moda cresce. Con scarpe e marsine, tra le acquisizioni recenti tre abiti dell’atelier delle sorelle Callot provenienti da Parigi, una fibbia preziosa del pittore secessionista Josef Maria Auchentaller, vestiti e una veste da camera maschile in broccato della famiglia Stonborough (Margaret era sorella del filosofo Wittgenstein), il completamento della collezione Verchi, in parte donata.


Nel palazzo di Borgo Castello a Gorizia è custodita e ben rappresentata la storia della moda dal ’700 al 1940. «Non passa giorno che non riceva una lettera che mi propone un nuovo pezzo» dice Raffaella Sgubin. La lunga storia intessuta di fiori, quadri e righe continua. 

@boria_a

sabato 30 novembre 2019

IL LIBRO


La misura del tempo dell'avvocato Guerrieri





 La misura del tempo è una donna che ritorna dal passato, la copia opaca, irriconoscibile, della ragazza, della passione che era stata. Una “cliente nuova”, informa l’assistente di studio, e solo un cognome: Delle Foglie. Eccola Lorenza, capelli corti, i segni del tempo marchiati sul viso, prosciugata, l’odore stantio di troppe sigarette appiccicato addosso. Davanti all’avvocato Guido Guerrieri si materializza una storia durata pochi mesi, «in un’epoca lontana nel tempo e lontanissima nella memoria».

È lì, davanti a lui, ventisette anni dopo la sua sparizione, con un problema: suo figlio Iacopo, balordo fin dai tempi del liceo, dopo un apprendistato di furti, droga, pestaggi, una rapina patteggiata, è finito in carcere per l’omicidio di un uomo da cui si riforniva di droga. L’avvocato che l’ha difeso, già malato all’epoca del dibattimento, in aula era stato fiacco, inconsistente, nonostante la reputazione e la parcella pesanti. Risultato? Una condanna in primo grado a ventiquattro anni. Ora si avvicina il processo di appello, il vecchio legale nel frattempo è morto e il suo studio chiede altri anticipi. «Non sapevo cosa fare e non sapevo dove andare. Così ho pensato a te», dice Lorenza senza giri di parole. Guido fa un rapido calcolo: non è suo quel figlio sbandato. E subito dopo pensa che lei l’ha scelto solo perchè è sola, senza soldi e non sa più dove sbattere la testa.


Gianrico Carofiglio


Sarà pure disincantato e amaro l’avvocato Guido Guerrieri, ormai oltre la soglia dei cinquanta e spesso suonato dalla vita come il suo Mr Sacco, ma resta il personaggio più amato di Gianrico Carofiglio. Questo sesto capitolo, “La misura del tempo”, il secondo per Einaudi dopo “La regola dell’equilibrio” (2016), da settimane contende alla star Elena Ferrante il primo posto nelle classifiche dei libri più venduti. Guido l’accetterà la difesa di Iacopo, anche se il ragazzo a pelle non gli piace e gli indizi contro di lui sembrano così gravi, precisi e concordanti da non ammettere alternative. Iacopo è il colpevole perfetto: ha polvere da sparo sul giubbotto, ha telefonato alla vittima poche ore prima della sua morte, è stato visto nei pressi del luogo dell’omicidio. Sua madre, poi, gli ha fornito un alibi sgretolato in aula per una vecchia accusa di resistenza a pubblico ufficiale e favoreggiamento, che torna a galla dal passato oscuro di Lorenza, di cui Guido non sa niente.


Ma non esiste “una sola risposta di fronte ai dilemmi umani”, come lui stesso dice ai giovani magistrati in tirocinio a cui fa lezione. E a volte si può ribaltare un caso sulla carta chiuso, cambiare il corso degli eventi, riparare un torto, anche se è solo “un risultato preterintenzionale delle nostre azioni”.


Quel passato dal volto di donna che irrompe di nuovo nella sua vita, con un carico pesante di delusione e fallimenti, è l’occasione di riaprire una porta, professionale e personale. Di trovare uno stimolo in un lavoro che stagna nella ripetitività e nel poco entusiasmo, e di lasciar fluire i ricordi, riconciliandosi con quel momento confuso della sua giovinezza, con quella donna elusiva, con cui aveva immaginato di passare tutta la vita, sparita senza un perchè. Di vederla per quello che era e che è, senza condannare nè soffrire: “Proiettavi su di lei i tuoi desideri, le tue aspirazioni e i tuoi bisogni. In un certo senso te l’eri inventata, l’avevi creata, ti eri raccontato una bugia complessa, articolata e difficile, molto difficile da svelare”.


Le indagini, la ricerca di nuovi indizi, la sfida processuale per salvare Iacopo dal carcere, insinuando il dubbio nella giuria, si intrecciano al confronto tra passato e presente. Non è un déjà vu patetico, nè una nostalgia dolciastra per un tempo lontano e irrecuperabile. Guido guarda con affettuoso distacco quella “faglia”, quel cataclisma della coscienza in cui si era infilato ragazzo per uscirne uomo. Perchè non è il tempo a cambiarci, ma l’incontro con le persone: lui era cambiato dopo Lorenza, Lorenza era rimasta la stessa, inespugnabile all’altro.


Alla fine non importa l’esito del processo, ma la strada per arrivarci. Come diceva a Guido il nonno professore di filosofia: mettere dei punti interrogativi alle affermazioni che diamo per scontate. Accettare il rischio di cambiare, in un tempo mai lineare, pieno di inciampi. “Mi abbracciò forte e sentii il suo odore, e il suo corpo magro stretto al mio. Risposi all’abbraccio pensando che non avevamo mai avuto un contatto così intimo, tanti anni prima”. Così si può guardare indietro, in aula come nella vita, con il beneficio (e la maturità) del dubbio.

@boria_a

giovedì 21 novembre 2019

IL LIBRO

Lyduska, la contessa dei due mondi, Gorizia e il Kenya 


Lyduska nella villa dello zio Pula a Rosà (foto da "Lyduska" di Anna Cecchini, Mgs Press)
 


Una vita lunghissima trascorsa tra due mondi, la natia Gorizia e il paradiso del Kenya, terra d’elezione. Una donna affascinante, combattiva, trasgressiva, che per amore romperà le convenzioni sociali, scegliendo l’avventura, la libertà, la felicità. Amicizie importanti, come quella con Sarah Churchill, che l’aiuterà, facendo intercedere il padre, a mantenere in Italia la villa di Salcano, sulle sponde dell’Isonzo, minacciata dalle decisioni sulla linea di confine dopo la seconda guerra mondiale. O forse fu decisivo l’intervento di Dwight Einsehower, comandante supremo delle forze americane e futuro presidente, che pare sia stato suo ospite proprio in quella dimora, all’epoca di una sua breve puntata a Gorizia per ispezionare la “linea Morgan”?

Chissà chi deviò un confine diritto e un pezzo di storia, se sir Winston o “Ike”. Certo è che la storia della contessa Lydia Gaetana Maria Giovanna Hornik De Nordis, nata a Salcano nel 1921 e morta a Nairobi nel 2006, sembra materia da film. Un’esistenza che ci restituisce oggi la biografia “Lyduska”, come fu sempre e solo chiamata, firmata da Anna Cecchini per Mgs Press (euro 15).


Stesso nome della nonna Lidia Lenassi, di famiglia di imprenditori della tessitura di origine comasca approdati a Gorizia, andata sposa tredicenne al notaio Antonio de Nordis, e stesso nome della mamma, Lydia Emma, che sposò per amore e contro il volere della famiglia, l’ufficiale dell’esercito imperiale Ferdinando Hornik, nato in Boemia, Lyduska cresce in una famiglia con rigide abitudini aristocratiche, che nulla possono sulla sua natura volitiva, irruente, testarda. Vestita dalla madre come una principessa, viziata dalla nonna che riversa su di lei tutto l’affetto trattenuto in un matrimonio precocissimo e senza amore, Lyduska impara dal padre a cavalcare prima di camminare e a quattro anni cade rovinosamente col triciclo dallo scalone della villa, procurandosi la frattura di una gamba, i cui postumi la tormenteranno per sempre. Il padre scompare presto dalla sua esistenza, Lyduska non lo menziona mai.


Lyduska a Gorizia


È invece lo zio Pula l’uomo che influisce decisamente sulla sua crescita. Paolo Dolfin Boldù, nobile veneziano di famiglia dogale, colto e ricchissimo, una volta rimasto vedovo di Dolores Branca (famiglia del Fernet) con il figlioletto Francesco, sposa la zia di Lyduska, Norina, a sua volta vedova del conte Balbi Valier e mamma di Balbino. Si dicono sì a Venezia il 5 novembre 1928 in una cerimonia discreta e intraprendono subito una vita di viaggi straordinari, sulla scia della passione venatoria e della sterminata curiosità di Pula. L’Indocina, il Giappone, le Hawaii, gli Stati Uniti, il Kenya che è colonia britannica.

Lyduska ha tredici anni quando nel 1934 si imbarca per la prima volta verso Mombasa a bordo del piroscafo “Crispi”, in compagnia di entrambi gli zii. Sarà l’inizio di un amore senza fine, la scelta di una seconda casa. Il viaggio verso la tenuta di Slains, nella cosiddetta Happy Valley, paradiso terrestre sull’altopiano di Wanjohi, a 2400 metri, dove facoltosi europei hanno acquistato tenute e costruito cottage lussuosissimi, conducendo una vita edonistica e libera lontana da occhi indiscreti, diventa per Lyduska una sorta di iniziazione. La natura lussureggiante, gli animali, le cascate e i laghi, i paesaggi sconfinati, le entrano nel cuore. A Slains, tenuta acquisita dagli zii dalla famiglia di lady Idina Sackville, la ragazzina cavalca, esplora la natura, impara un po’ di swahili.


Lyduska con l'amica Sarah Churchill


Gorizia e il Kenya. Tutta la vita della contessa sarà un partire e tornare in questi luoghi dell’anima. Solo negli anni terribili della seconda guerra mondiale i suoi viaggi in Africa si interrompono, ma è probabile che Lyduska riesca nell’impresa diplomatica di mantenere in Italia l’antica proprietà dei de Nordis in via dello Scoglio proprio grazie a una conoscenza fatta nella Happy Valley, quella con la terzogenita di Churchill, Sarah, attrice.




Nel 1942 muore suo padre Ferdinando, nel ’47 l’amatissimo zio Pula, nel ’49 la madre Lydia. Gorizia è tagliata in due. Rimasta sola, Lyduska va a cercare un amico d’infanzia, Nanni, il figlio dell’autista di zio Pula nella sfarzosa villa di Rosà, vicino a Bassano, a cui è legatissima fin da bambina. È più giovane di lei di quattro anni, non appartiene alla sua classe sociale, ma con Nanni, senza alcun vincolo matrimoniale, la giovane donna vive in Kenya anni felici e tumultuosi, tormentati solo dai tanti aborti e dalla vana ricerca della maternità. Nanni si inserisce subito nell’ambiente, cavalca, ha l’eleganza di un lord. Insieme frequentano l’ambiente dei ricchi europei e si occupano, con alterne fortune, di far sopravvivere la loro fattoria, difendendola dagli attacchi dei Mau Mau, il braccio armato del movimento indipendentista e anticoloniale. Si sposeranno solo nell’aprile 1963, pochi mesi prima della proclamazione dell’indipendenza del Kenya.



Lyduska con il marito Nanni


Mentre Gorizia, dopo la guerra, stenta a trovare una sua identità e a far ripartire l’economia, molti lutti segnano l’esistenza di Lyduska, sempre più eccentrica e amareggiata. Il marito Nanni muore tragicamente in un incidente vicino a Latisana e lei stessa viene gravemente ferita, nel corpo e nell’anima. Trentasei anni trascorrono da quel giorno, a Nairobi assistita dal fidato domestico Nyongo, che la segue nelle rimpatriate, a Gorizia dal custode Romano Facca.


Fino alla fine continuerà a ricevere gli amici aristocratici, a cenare con argenti e porcellane, a circondarsi di animali, a cavalcare nonostante i dolori alla gamba, a dividersi tra Gorizia e Nairobi, dove muore, il 5 agosto 2006, per i postumi di un ennesimo incidente automobilistico. Le sue ceneri verranno riportate a Gorizia e riposano nel cimitero di Montesanto, accanto a quelle del nonno che non ha mai conosciuto, Antonio de Nordis. La sua tomba guarda il mare, alle spalle le Alpi. Per sempre affacciata su due mondi, lei stessa straordinaria sintesi di mondi che non esistono più.
@boria_a

lunedì 4 novembre 2019

MODA & MODI

La concorrenza dell'influencer che non esiste


Lil Miquela


 Lil Miquela, spruzzata di lentiggini e labbra carnose, una diciannovenne americana tuttasalute con frangia e piccoli chignon laterali, che posta i suoi look e condivide nobili cause, come quella per i diritti degli afroamericani: su Instagram ha un milione e settecentomila follower e vanta importanti collaborazioni con i brand della moda.

Aprite la sua pagina e fissatela a lungo negli occhi. C’è qualcosa che disturba, forse le sue pose così plastiche, forse quegli occhi sgranati dov’è impossibile andare a fondo, forse la mancanza assoluta di empatia quando si fotografa accanto ad altri esseri umani, che tocca e abbraccia, ma da cui sembra sideralmente distante. Cosa c’è che non va? Niente. Lil Miquela non esiste, se non in Rete, è un avatar generato dal computer.

Aprite un’altra pagina Instagram. Ecco Shudu, 191mila follower, nera statuaria che si dichiara la prima supermodel digitale del mondo, immortalata sui red carpet, anche lei testimonial di marchi del lusso. Per niente umanizzata ma ancora più popolare è la parigina Noonoouri, un fumetto mignon il cui passaporto Instagram è tutto un manifesto: attivista, vegana, contraria alle pellicce. Ha 331 mila follower, non ancora una minaccia, ma alla sfilata di Dior siede accanto a Maria Grazia Chiuri e promuove la moda dalla Cina all’Arabia Saudita.



Shudu


Influencer in carne e ossa, tremate. Avanza una piccola e agguerritissima pattuglia di concorrenti partorite da algoritmi, con l’identica propensione a condividere tutto di sè coi follower, ma con minori pretese economiche, nessun capriccio e garanzia totale di controllo per il brand che le recluta.

Indossano, dicono, incarnano esattamente quello che il committente vuole, senza l’io debordante delle ferragni che alla fine rischia di oscurare il prodotto o veicolare un messaggio non consono al contratto.


Noonoouri


Il fenomeno per ora è limitato, ma i marchi ci hanno già messo gli occhi sopra. Sono un veicolo pubblicitario potenzialmente dirompente per le generazioni post-Millennial, abituate a sovrapporre reale e virtuale e a passare dall'una all'altra dimensione senza turbamenti. Da una parte le celebrities che si “avatarizzano” a colpi di filtri fotografici e bisturi, col risultato di essere tutte uguali, dall’altra gli avatar che si “umanizzano” ricevendo dai loro creatori qualche difettuccio per sembrare più autentici. Nella galleria orizzontale di Instagram non c'è differenza.


Il confine tra influencer veri e prodotti informatici è sempre più liquido. Una caratteristica in comune? Non hanno anima. Profondità, appunto.
@boria_a

venerdì 1 novembre 2019

IL LIBRO

Fuani Marino: Un sacco cade dal quarto piano
ero io, ma non sono morta 





Come può una giovane mamma spiegare alla figlia bambina che ha tentato di ammazzarsi, quando lei era appena nata? Che da mesi valutava le altezze da cui buttarsi, in cerca di un punto la cui distanza dal suolo le assicurasse la morte? Che non aveva paura, lassù, seduta su quella terrazza, perchè nulla avrebbe potuto essere più brutto di quanto aveva già passato e il volo era solo un mezzo per raggiungere l’obiettivo: la fine. La sua fine.

Fuani Marino ha scelto la sincerità. Il racconto scomodo, doloroso, urticante della malattia mentale e dei pregiudizi che ancora la circondano, la paura dello stigma che, in un malinteso amore e desiderio di protezione, ha spinto la sua stessa famiglia a negarle quello che veramente desiderava: essere ricoverata. Liberarsi dalla pressione, dalle aspettative degli altri, dallo smarrimento, da quel buco nero che scava l’anima e succhia le energie, ritrovare i puntelli dopo lo sconquasso della maternità, per poter ritornare là fuori, in equilibrio, a camminare.


Questo racconto senza sconti e senza pietismi, lucido, secco, perfino ironico, è diventato un libro, tra biografia e memoir, “Svegliami a mezzanotte” (Einaudi, pagg. 149, euro 17). Per Greta, che aveva quattro mesi quel giorno d’estate, al ritorno dalla spiaggia: “Ti diranno - le scrive nella lettera finale - che tua madre è pazza, un’egoista, tu stessa avrai una moltitudine di cose di cui accusarmi, e a ragione. Ma ecco quello che non dovrai mai pensare; che io non ti abbia amata, o di avere una qualche responsabilità, o ancora che possa capitarti qualcosa di simile. Perchè ogni persona ha la sua storia».



Fuani Marino nella foto di Danilo Donzelli


Una laurea in psicologia, collaboratrice delle pagine culturali del Corriere del Mezzogiorno, Fuani, napoletana, ha un segno del destino scritto nel nome, l’unione di quello dei genitori, Furio e Anita, stranezza che la condanna, fin da piccola, a continue spiegazioni e al senso della diversità. Alla confusione dell’adolescenza, segue lo spaesamento, l’infelicità degli anni universitari a Roma. Poi il master e il matrimonio con Riccardo, forse la ricerca di un rifugio, che la introduce in una famiglia facoltosa, ma dal rigido galateo, per cui non è la nuora sognata. La responsabilità di una casa enorme, contratti da precaria in redazione, con interminabili e ripetitivi turni di desk, una stanchezza insostenibile, il sonno che si spezza e le ondate d’ansia che paralizzano e bloccano il respiro. «Più mi rendevo conto che mi stava accadendo qualcosa, che non ero completamente padrona delle mie reazioni, e più cresceva il panico».


Arrivano gli psicofarmaci, l’incontro col primo di tanti psichiatri, la difficoltà dell’ultimo periodo della gravidanza, il parto precoce, le piccole cure della bimba che si trasformano in sfibranti prove di resistenza, la depressione. E la diagnosi: disturbo bipolare. Medici e familiari temporeggiano sull’ospedale per non consegnarla all’etichetta di malata di mente. «Cosa che io ero già, anche senza ricovero, e stava per costarmi la vita».


Il 26 luglio 2012, a Pescara, la signora Nuccia del secondo piano vede precipitare al suolo un sacco nero. “E poi sono caduta, ma non sono morta”, scrive Fuani Marino in una pagina bianca del libro. C’è stato un “prima” e da lì comincia il “dopo” di quello che i familiari chiamano pudicamente “l’incidente”. Mesi tra la vita e la morte, gli interventi, la gabbia dei ferri, un braccio leso, una mano, la sinistra - e Fuani è mancina - che non sarà più la stessa, come la sua grafia. “Lei è una ferita vivente” le dice un neurochirurgo. 


E con il corpo, c’è da ricostruire una normalità, che passa attraverso il riconoscimento della malattia, con le sue fasi di iperattività e i periodi di depressione, l’aggressività e gli orari sballati (“l’ora che preferisco è la mezzanotte”) i giorni cortissimi e quelli in cui «il letto mi risucchia, come sabbie mobili», il rapporto con la bambina, l’accettazione che non ci sarà più un lavoro, un altro figlio. La terribile fatica di “ridefinire” se stessa: «Il mio lutto ero io».


In questo faccia a faccia, onesto fino a essere disturbante, Fuani Marino coinvolge romanzi, saggi, film, scrittori, che l’hanno affiancata nel tentativo di far luce sul disagio mentale e sui pregiudizi che ancora, a quarant’anni dalla morte di Basaglia, lo circondano. Sulla solitudine del suicida, sull’impronunciabilità del suo gesto. Consapevole che, se non rivive più di notte quell’infinita caduta, la lotta per convivere con se stessa non finirà mai.

@boria_a

giovedì 24 ottobre 2019

L'INTERVISTA

Umberto Castiello: "Le piante? Sono
tutt'altro che vegetali"


 


Non sono assetate di sangue umano come “Audrey II”, il vegeegetale mostruoso del musical “La piccola bottega degli orrori”, ma possono farsi la guerra o interagire pacificamente tra di loro. Sentono, annusano, vedono, possiedono gusto e tatto. E sono capaci di ricordare. Insomma, le piante sono tutt’altro che “vegetali”, come a volte ci capita di dire spregiativamente degli umani. Non hanno un sistema nervoso centrale, come gli animali, eppure ricevono stimoli dall’ambiente, li elaborano e mettono a punto strategie. E allora, dov’è il loro cervello?

Umberto Castiello, ordinario di Psicobiologia e Psicologia fisiologica all’Università di Padova ci introduce alla vita segreta dell’universo green. Nel suo saggio “La mente delle piante” (Il Mulino, pagg. 183, euro 14) scopriamo un mondo complesso e affascinante, con virtù e difetti non troppo diversi da quelli degli umani.



Umberto Castiello, ordinario di Psicobiologia e Psicologia fisiologica




Professore, diciamo spesso che parlare alle piante fa bene. Ha un’evidenza scientifica? «Vi sono alcune evidenze molto preliminari e non del tutto attendibili che parlare alle piante aiuta la loro crescita. Si dice inoltre che la voce femminile sia più efficace di quella maschile, ma sono effetti che richiedono di essere verificati con esperimenti rigorosi».


Pare che le mucche siano più produttive se ascoltano certi tipi di musica. Succede qualcosa di simile alle piante? «Sentiamo spesso parlare di piante che fioriscono e crescono più rigogliose in stanze dove risuona la musica classica piuttosto che in stanze dove risuona l’hard rock. Anzi le piante esposte al rock pare subiscano un arresto nella crescita. La scienza, però, ha dimostrato che i suoni della musica non sono molto rilevanti per una pianta. Ne esistono però altri che potrebbero essere vantaggiosi. Vari studi descrivono trattamenti che utilizzano le onde sonore per stimolare la capacità della pianta di assorbire fertilizzanti ed erbicidi, diminuendo significativamente la quantità di prodotto necessaria per ottenere l’effetto desiderato, con un impatto positivo anche sull’inquinamento ambientale».


Lei parla dei cinque sensi delle piante. Partiamo con vista e olfatto... «Le piante monitorano continuamente il loro ambiente  visibile. È stata anche avanzata l’ipotesi che posseggano una forma di visione resa possibile da cellule localizzate nell’epidermide delle foglie, chiamate ocelli. Al contrario di quello visivo, assai ampio, l’input olfattivo è limitato, ma anche altamente sensibile. Le piante emettono odori che attirano gli animali e gli esseri umani, ma percepiscono anche i loro stessi odori e quelli delle piante vicine. Annusando sanno quando il loro frutto è maturo, quando la loro vicina è danneggiata oppure attaccata da un insetto». 




Audrey II, il vegetale assetato di sangue della Piccola bottega degli orrori


Gusto e udito?
«Le piante carnivore hanno preferenze verso gli insetti che cacciano: ragni, afidi e farfalle con maggiori quantità zuccherine nel corpo. E se la preda è poco “gustosa” la rilasciano. Le piante sono anche equipaggiate per percepire il suono, anche se tale capacità non è confinata a un unico organo, l’orecchio, ma avverrebbe attraverso cellule che fungono da “micro orecchie”, sopra e sottoterra».


Difficile pensare al tatto vegetale...
«Al contrario. Le piante sono esposte a molteplici sollecitazioni tattili prodotte sia da eventi atmosferici che dall’interazione con elementi del regno animale, come per esempio gli insetti. Per questo motivo nel corso della loro evoluzione hanno investito molto nella percezione e interpretazione di stimoli tattili. La loro capacità di discriminazione tattile sarebbe talmente sviluppata da poter riconoscere se uno stimolo meccanico, quale il tocco di un insetto ad esempio, ha un effetto positivo o negativo sulla loro esistenza». 


Che cosa ricordano le piante? «Nessuna pianta selvatica potrebbe sopravvivere senza il ricordo delle esperienze passate che, integrate con le condizioni attuali, permettono di effettuare previsioni circa le condizioni future. Sono diverse le piante che quando attaccate dagli erbivori, memori degli attacchi precedenti, mettono in atto una risposta difensiva che si traduce nella biosintesi e accumulo nelle foglie di molecole quali gli alcaloidi e il tannino, che sono tossiche per i predatori e rendono le foglie meno appetibili».


Le piante comunicano tra loro? «In questo campo si sono registrate scoperte sorprendenti, che hanno rivoluzionato la comprensione del mondo vegetale. Gli scienziati sono giunti alla conclusione che gli alberi si avvertono l’un l’altro circa l’imminente attacco di insetti divoratori di foglie. Per comunicare le piante utilizzano migliaia di molecole chimiche volatili, una forma di linguaggio estremamente sofisticato, dove una singola “parola” può avere significati diversi a seconda di chi la ascolta. Un dato interessante è che questa forma di comunicazione chimica sembra essere più efficace tra piante geneticamente simili. Tuttavia, in certi casi anche piante di specie diversa possono intercettare i messaggi: ad esempio, gli avvertimenti spediti dalla salvia possono innescare meccanismi di difesa sia nelle piante di pomodoro che di tabacco».


Com’è che si fanno la guerra le piante?
«Vi sono molteplici forme di comportamento competitivo. Ma è quando si parla dell’”allelopatia” che il gioco si fa duro. L’allelopatia si riferisce alla capacità di un organismo di produrre sostanze in grado di limitare o favorire lo sviluppo di altri organismi. Il noce cresce solitamente in singoli esemplari isolati, proprio perché le sue radici producono sostanze che inibiscono la germinazione di semi della medesima specie nel terreno limitrofo. La sostanza chimica responsabile per la sua allelopatia è lo juglone. Gli effetti di questa sostanza sulle altre piante sono generalmente tossici e causano l’inibizione della crescita, impediscono la fotosintesi e la respirazione così come l’assorbimento dell’acqua. Vari ortaggi, quali il pomodoro, la patata, il pisello, il cetriolo e il fagiolo, così come specie ornamentali quali il rododendro e l’azalea sono particolarmente sensibili all’influenza dannosa dello juglone. Quindi è meglio fare l’orto lontano da un noce».


Con gli umani c’è qualche forma di comunicazione? «Gli appassionati di botanica e di giardinaggio sostengono spesso di parlare alle loro piante per farle prosperare, ma di questo non c’è evidenza scientifica rigorosa. Tuttavia sarebbe importante trovare una stele di Rosetta della comunicazione vegetale. Prima di tutto per comprendere se un trasferimento di informazioni così spazialmente diffuso, lentissimo e impreciso dal punto di vista organico permetta di comprendere meglio l’evoluzione dei mezzi di comunicazione tra organismi viventi. Poi ci aiuterebbe a capire come le piante reagiscono ai cambiamenti climatici. Il rischio è che quelli attuali possano deteriorare questo mezzo di comunicazione e così destabilizzare l’intero ecosistema. Alcuni segnali potrebbero essere amplificati mentre altri smorzati o addirittura resi impercepibili. In assenza di questa comunicazione le piante potrebbero non essere in grado di rilevare e inviare segnali di allarme e quindi diventare più vulnerabili agli squilibri dell’ecosistema».

lunedì 21 ottobre 2019

MODA & MODI

Brown is the new?



Riccardo Falcinelli nel suo bestseller “Colorama” (Einaudi) sostiene che si tratta di una tinta che non catturiamo con la retina, ma che percepiamo col cervello. Il marrone, insomma, più che arrivare dritto al cuore, e scaldarlo, agirebbe sulla nostra razionalità. Un colore da scegliere perchè neutro, pratico, accostabile, discreto, mai sopra le righe, un buon investimento in un guardaroba che vogliamo sempre più duraturo e libero dai trend. Non importa se non ci entusiasma come un arancione, se non è un manifesto d’intenti come il nero, se non possiede la sciccheria del blu e non ha mai calcato un red carpet.



Total brown di Max Mara: ma il segreto è la sfumatura




Avete memoria di una diva in odor di Oscar che si presenti davanti ai fotografi in marrone? Non suscita mai quella passione istantanea che ci trascina dentro un negozio senza un secondo pensiero, ma ci fa riflettere sui pro e contro di un acquisto. Un calcolo più che una gratificazione. Eppure, le vetrine di questo autunno ancora così indeciso, straripano di marrone, in tinta unita o negli stampati. La palette va da un estremo all’altro: dal mou al cioccolato, dalle nuance più chiare, che sconfinano nel cammello, al testa di moro. Non è mai total brown, ma un gioco di sfumature: a differenza del blu, che in tonalità simili si ribella all’accostamento, marroni diversi coesistono, anzi, si ammorbidiscono a vicenda e rendono l’insieme piacevole.

Brown is the new black? Tutt’altro: è un colore ostico, ingannevole. Va dosato con attenzione, a differenza del nero che, anche in quantità massicce, trova sempre la scusa del minimalismo intellettuale. Il marrone può esaltare e può sbattere una carnagione. Può scomparire nel beige di un impermeabile o farsi notare su un trench di pelle o di camoscio. Buca con l’arancione e il giallo, abbinato al nero si fa più salottiero e serale. Nessuno dice che gli piace, non è mai una prima scelta cromatica.


Piuttosto un passepartout, che ci sfida a valorizzarlo. Nel vuoto di idee nuove e portabili, ci consoliamo improvvisando col colore.

sabato 12 ottobre 2019

IL LIBRO


 Peter Cunningham: "Le conseguenze del cuore" un triangolo che fa scandalo







Un triangolo amoroso nella rurale, bigotta, chiusa Irlanda di inizio Novecento. Una storia pubblica e spudorata, che attraversa un secolo, una guerra, lo sbarco in Normandia, senza che nulla, nè morti, disastri finanziari, separazioni, malelingue, ricatti, nemmeno l’odio del proprio stesso sangue possa intaccarla.
Passione e perversione, passione e azzardo. Lei, Rosa Bensey, è figlia di un allibratore, lattea e magnifica fin da adolescente. Loro, che la ameranno senza mai odiarsi, sono Jack Santry, biondo e altissimo rampollo di una famiglia di militari, tutti eroismo e grandi bevute, e Chud Conduit, la voce narrante, moro e mediterraneo, nelle cui vene scorre il sangue di un marinaio napoletano, rimasto sulla terraferma solo il tempo di concepirlo in un ardente matrimonio di pochi giorni.


Questa storia lunghissima, sessant’anni di sentimenti e “regole profanate”, di sesso avido, poi delicato e cauto nella terza età, si svolge tutta a Monument, città immaginaria dietro cui si nasconde Waterford, il porto del sud est dell’Irlanda dove è nato il pluripremiato scrittore Peter Cunningham. Il suo romanzo “Le conseguenze del cuore”, uscito nel 1999 e uno dei quattro ambientati a Monument, è il primo tradotto in Italia (Sem, pagg. 425, euro 20), presentato in anteprima a Pordenonelegge dove l’autore ha fatto tappa per accompagnarlo.



Peter Cunningham


Il triangolo è il cuore della vicenda, ma altrettanto lo sono il gioco, il rischio, la posta. La nonna di Chud, Mabel, se la gioca tutta abbandonando il conte di cui è l’amante per il medico della città, al quale darà quattordici figli, per poi diventare una ricca e rispettata imprenditrice (“prostituta furiosa”, per il generale Santry, padre di Jack). Hilda, la sua secondogenita, nata sorda, infrange il muro della disabilità e va incontro al mondo sconosciuto dell’esotico marinaio italiano, con cui, senza parole, esplorerà tutta la grammatica della passione in un’unica settimana, generando Chud.


Annabelle, l’ultima discendente dei Santry, sfida il padre Kevin, l’uomo più ricco e potente di Monument, per rompere le convenzioni e invitare al suo matrimonio i nonni Rosa e Jack e il loro amico più caro, Chud, legittimando davanti alla comunità il rapporto scandaloso, che nemmeno la vecchiaia e gli acciacchi appannano (le pagine sul loro erotismo di anziani sono tra le più raffinate del romanzo).

La posta. Jack e Chud si giocano in guerra il matrimonio con Rosa, ma il loro legame si cementa molto prima, negli anni dell’adolescenza e delle nuotate insieme nel lago, quando nasce il loro codice, il “Delaware”, a intendere il posto, l’appuntamento, un’intesa impenetrabile agli altri (“nel bene e nel male, avrebbe continuato a modellare le nostre vite, a qualunque rischio, a qualunque prezzo”).
È lì che due occhi estranei, quelli del circense Bruno Belli, si appoggiano una volta di troppo sulle forme dorate della ragazza, stesa sull’asciugamano tra i suoi due accompagnatori, e poco dopo qualcuno glieli chiude per sempre. Quella morte oscura impone la prima separazione del terzetto: Jack in Inghilterra, Chud, accusato dell’omicidio ed evitato il carcere grazie all’influenza di nonna Mabel, in un collegio di preti, Rosa dalle suore.


Al termine della guerra, Jack sposa Rosa e Chud, ritornato a Monument dopo una lunga convalescenza, ne diventa l’amante, sotto gli occhi del marito e colto in flagrante dal piccolo Kevin, il figlio della coppia, che da quel momento proverà nei suoi confronti un odio inestinguibile.
Ma il gioco a tre e l’equilibrio resistono finchè Rosa e i suoi due uomini sono tutti insieme e il loro sentimento si alimenta nelle convenzioni che infrangono. Appena l’uno si allontana da Monument, il legame che unisce gli altri due si intiepidisce, avvizzisce. Insieme, invece, le loro “reazioni chimiche” sono “specchio l’una dell’altra”, cementando un rapporto dove la tiepidezza e l’impenetrabilità di Jack si compensa nella voracità di Chud, e Rosa, moglie insoddisfatta, sogna di tornare a essere tre, di avere l’uno e l’altro, come nel “Delaware” da ragazzi, finchè la fantasia delle sue notti non diventa realtà.


Al sole, fino alla fine dei loro giorni. Fino a quando, ancora insieme, i due uomini seguono la bara di lei. «Credo che siamo stati viziati», dice Chud. Resterà solo lui a conservare in otto raccoglitori e due metri di scaffali quello che è stato, semplicemente, “il racconto di un grande amore”.

lunedì 7 ottobre 2019

MODA & MODI

Denari ben spesi 



I collant coprenti di Armani 2019


La rivincita delle signore cento denari. L’unità di misura delle gambe schermate, protette, avvolte in una calza impenetrabile, al freddo e agli sguardi. Chi le ha sempre amate, per comodità e confortevolezza, quest’inverno sale in passerella. E dall’alto guarda le fanatiche del nude look, indietreggiare zampettando su gambe violacee e pelle di gallina, in nome di un assurdo diktat dello chic: mai le calze, bisogna soffrire dalla caviglia all’inguine, soprattutto con gli abiti da sera e i tacchi.

I vituperati collant sono tornati e mettono in riga anche le autoreggenti, ammennicolo per eccellenza dell’eros cinematografico, perché mai ci immagineremmo una Loren o una Kim Basinger risolvere tutto in un’unica mossa, senza il rito del duplice sfilare e scoprire. Quest’anno la calza intera è protagonista, all’insegna della praticità e della libertà di movimento, senza rinunciare alla personalità. Nerissime, quasi pantacollant, o nei colori più accesi, verde, giallo, zucca, turchese, animalier, a rombi, stampate, pied de poule.


Non vanno scelte a caso, da complemento diventano completamento dell’abito, appendice su cui l’occhio non corre in fretta per passare oltre. Per chi non rinuncia al velato e alle trasparenze, ci sono collant di pizzo, ricamati, glitterati e anche i loghi delle griffe si stendono sulle gambe come un territorio nuovo da segnare.

Effetto dell’onda #metoo, che rivaluta accessori dove l’accento è sullo stare bene con se stesse piuttosto che sul sedurre l’occhio dell’altro (come i body nella lingerie). Sensibilità green, che punta a durata, resistenza, meno sprechi? Senza scomodare troppi simbolismi, i collant sono semplicemente una scelta di buon senso. Tanti denari, ma ben spesi. —

martedì 24 settembre 2019

MODA & MODI

September (green) Issue




FridayForFuture a Torino



Settembre, il più crudele dei mesi. Sfilano le nuove collezioni alle settimane della moda di Parigi, Londra, Milano mentre i giovani di tutto il mondo scendono in piazza per la salvezza del pianeta. Le vetrine invernali sono lì, sfavillanti e seduttive, a risarcirci psicologicamente del magone del “back to school”. Ma oggi possiamo dirci fashionisti se non siamo anche sostenibili?

I dati martellano: in Gran Bretagna almeno 11mila capi, messi una volta sola, finiscono nella spazzatura ogni settimana. Il fascino perverso dell’una volta e via, dell’abituccio avvistato per strada e arraffato, come un partner occasionale, costa carissimo in termini d’inquinamento. La risposta inglese dell’associazione Oxam funziona come la disintossicazione dal sesso: astinenza. Trenta giorni, tutto il lussurioso settembre, senza comprare nemmeno un capo nuovo o spendendo, se proprio non se ne può fare a meno, solo in negozi di seconda mano.

Addio “September Issue”, quando Anna Wintour svelava i segreti dell’edizione patinata di Vogue d’autunno, con il compendio di tutto il sognabile dei mesi a venire. L’unica “issue” oggi è quella ecologica; il carpet è red di vergogna per l’agonia dell’ambiente. Il 28 settembre Parigi risponde col Circolar Fashion Summit, che invita tutti a condividere o donare l’usato con l’app Lablaco, per mettere in circolo 100mila capi in un anno, risparmiando 2mila tonnellate di Co2 e 3 milioni di litri d’acqua. Ogni capo devoluto alla causa verrà aggiunto a un contatore collettivo globale e il fashionista virtuoso riceverà uno sconto pari al calcolo personale delle emissioni nocive sventate, con cui comprarsi subito vestiti rigorosamente “eco”.

Drastica rinuncia o terapia scalare? Per gli shop-aholic settembre è ormai questione di rehab. 
@boria_a

sabato 21 settembre 2019

 IL LIBRO

Saskia Vogel debutta con "Consenso"
"Il sesso estremo per curare
le ferite del cuore"


Saskia Vogel






La perdita di un genitore e il ritorno alla vita, il superamento del dolore attraverso l’ascolto del proprio corpo e il riconoscimento dei suoi desideri. La comunità BDSM, tra dominatrici e sottomessi, dove la protagonista trova uno spazio di rispetto, accudimento e sollievo, al di là di ogni pregiudizio.

Saskia Vogel, traduttrice americana, debutta alla scrittura con “Consenso”, edito in italiano dalla pordenonese Safarà. La sua protagonista è Echo, giovane attrice dalla carriera già arenata, che assiste alla morte del padre tra le onde al largo della costa di Los Angeles. Incapace di ricevere sostegno nella madre, instabile e fredda, Echo incontra Orly, una dominatrice, e insieme a lei intraprende un percorso di guarigione che passa anche attraverso il sadomasochismo. Niente sfumature di grigio, nessuna morbosità, solo un incontro di anime e di corpi che liberamente stabiliscono i termini del loro rapporto.



"Sono una pornografa dalla più tenera età. Fin dall’infanzia, ho visto il sesso pervadere il mondo”. Perchè ha scelto questa citazione di Camille Paglia? «L’ho trovata in uno dei suoi saggi e mi ha suggerito un’atmosfera e una prospettiva che ho voluto attraversassero tutto il romanzo. Paglia racconta di come, da bambina, vedeva l’energia carnale della natura in ogni cosa, ma la chiesa, i suoi genitori e la società insistevano che non era lì. Anche Echo vede quest’energia carnale, ma la società cui appartiene ne è disturbata. In un certo senso, il mio libro racconta di come Echo si riconnetta a quella che Paglia chiama la “visione pagana”».


Il romanzo è ambientato in una Los Angeles molto diversa da quella di plastica cui siamo abituati... «Quando ho letto per la prima volta “Questo libro ti salverà la vita” di A. M. Homes, da persona nata a Los Angeles mi sono sentita a casa nella sua particolare descrizione della città, così vera dal punto di vista della gente che in quella metropoli vive la vita di tutti i giorni. Volevo descrivere una Los Angeles che conosco, che poi è la Los Angeles che non vedo spesso rappresentata: il modo in cui ci si rapporta alla città spazialmente, le immense distanze, ma anche le comunità private. E siccome Echo è un’attrice, anche la strana relazione che puoi avere tra l’«idea» di Hollywood e il “posto” Hollywood».


Chi è Echo? «Echo è un’attrice, fallita dal punto di vista professionale. Il ruolo che interpreta meglio è quello di “donna”, ma in contrasto con l’idea che della donna hanno gli uomini nel suo ambiente. Questo è il ruolo che sa come giocare e, pensando a quanto è emerso col #metoo, Echo conosce le implicite dinamiche del potere, la particolare economia del sesso e del corpo e la natura commerciale delle relazioni. Quando entra nel mondo di Orly, si trova in una situazione simile eppure diversa. Anche qui ci sono fantasie e archetipi, ma i confini e la contrattazione sono chiari e tutte le parti in gioco partecipano nello stabilire le regole e le dinamiche del potere. Il copione è simile ma capovolto e in esso ciascuno ha un ruolo».


Echo vede morire suo padre. In fondo questa è la storia della “riparazione” di un dolore... «Ero interessata a esplorare il BDSM, e l’erotismo, come una pratica curativa, guardando al sesso come a un atto meditativo, uno spazio di esplorazione che va al di là di quello che succede nella camera da letto e nel resto delle nostre vite. Spesso il sesso è tenuto in una scatola, separato da altri aspetti dell’esistenza. Al contrario, io volevo un approccio olistico, guardando a come il sesso e l’erotismo influiscano su altre parti della nostra vita e viceversa. Quello di Echo è un viaggio attraverso il potere curativo dell’erotismo e l’erotismo è un modo di riconnettersi a se stessi».






Il corpo del padre morto non si trova, Echo lavora col corpo sia come cameriera che come attrice. La scoperta del piacere avviene attraverso il dolore fisico. Perchè il corpo è così centrale nel suo romanzo? «Il corpo influisce su come ciascuno interagisce col mondo e su come il mondo lo accetta. In un certo senso tutte le storie riguardano il corpo. Corpi più o meno privilegiati Corpi che sono in grado di attraversare il mondo senza commenti, corpi che non ci riescono. Corpi che sono considerati decenti o indecenti. Il corpo è centrale nella nostra esperienza individuale del mondo».



Ha conosciuto da vicino il mondo BDSM? Ne è attratta? «I primi club che conobbi quando ero una teenager avevano un elemento fetish. All’inizio, mi attrassero la musica e l’estetica dark. Mi sono fatta degli amici nella comunità ed è stata la prima volta che mi sono resa conto dell’esistenza di relazioni non eteronormate che funzionavano bene, gente che sceglieva i confini e i limiti dei suoi rapporti. Era una comunità rispettosa e accudente. Intorno ai vent’anni pensavo che avrei scritto un libro di non-fiction sulle storie legate a questi diversi modi di amare, ma poi ho abbandonato il progetto. Ma certe storie non hanno mai abbandonato me. Interviste, esperienze e idee si sono fuse e sono diventate fiction e mi hanno lasciato Echo, Orly e Piggy, il suo sottomesso».



Non c’è niente di pruriginoso nel suo libro, piuttosto il soddisfacimento di un bisogno d’amore...«Il libro riguarda soprattutto il dialogo che siamo o non siamo capaci di instaurare con noi stessi sul piacere e sull’oggetto dei nostri desideri. Ci sono molti modi in cui questo dialogo con noi stessi si può spezzare. Specialmente nel regno dell’erotismo, lottiamo per esprimere i nostri bisogni, lottiamo per esprimere cosa ci aspettiamo dai nostri partner e cosa abbiamo bisogno gli uni dagli altri. Quel dialogo comincia dal comprendere il nostro essere erotico».


Non ha paura che, in televisione, la sua storia diventi un prodotto solo commerciale, enfatizzando solo l’aspetto sessuale? «La produzione sembra aver capito a fondo la storia e ho fiducia in loro. Come traduttrice mi interessa vedere come trasportano il materiale sullo schermo. Non si parla mai di come gli scrittori si mantengano. Vendere i diritti è stato molto importante e se la serie vedrà la luce io potrò almeno per un po’ di mesi concentrarmi esclusivamente sul mio prossimo progetto. Sarebbe un regalo incredibile lavorare a un nuovo libro senza preoccupazioni economiche». 


L'inglese Permission, autorizzazione, è tradotto in italiano come Consenso, che non sono esattamente termini sovrapponibili. Perchè? La traduzione è un delicato lavoro di trasposizione non solo da una lingua, ma da un sistema culturale a un altro; alla luce di questo, spesso i traduttori sono chiamati a interpretare il testo, perchè una traduzione troppo letterale perderebbe di forza e significato nella propria lingua. Tradurre "Permesso" avrebbe comportato questo: utilizziamo questa espressione in molti altri contesti del tutto slegati dallo spirito dell'opera, dove invece questo concetto risuona potente; il termine consenso in italiano è invece inequivocabile, forte e immediatamente contestualizzato. Ed esiste anche un'altra, fondamentale ragione: non ci può essere alcun permesso, senza consenso, essendo l'uno il presupposto dell'altro. 
@boria_a

domenica 8 settembre 2019

MODA & MODI

Signore in bluette 



Teresa Bellanova



Devin DeVasquez e Ron Moss (LaPresse)


Due blu elettrici hanno solcato due diverse passerelle appena qualche giorno fa. Il primo, sul neoministro Teresa Bellanova, ex bracciante agricola e sindacalista di lungo corso, ha portato una sferzata di colore e di energia nella compìta foto di famiglia di ogni nuovo governo, in discontinuità anche cromatica rispetto al Conte Uno, dove tutte le elette si sono rifugiate nel rassicurante nero-bianco-blu scuro di circostanza. Il secondo bluette è quello indossato sul red carpet di Venezia 76, da un’altra veterana, l’ex modella e playmate di Playboy Devin DeVasquez, moglie di Ron Moss, il celebre Ridge di Beautiful, che ha sfilato al braccio del marito pittato.

Diversissimi i modelli, come le occasioni: il ministro Bellanova ha giurato in chiffon con maniche trasparenti di organza e volant applicati, sotto il ginocchio, con collo rotondo bordato di perline argentate e borsetta mignon in tinta, Devin ha scelto un’ampia tunica mospalla con pannello, lunga fino ai piedi, senza alcuna applicazione. 


Sessantun anni Teresa, cinquantacinque Devin, entrambe non silfidi (la coniglietta anche per prevedibili “addizioni” professionali) hanno riportato sotto i riflettori un colore ostico, difficile da abbinare, trasformandolo in un punto di forza per chi ha un fisico importante, senza limiti di età. In rete, il destino dei blu ha seguito strade opposte: gli odiatori si sono scatenati contro il ministro, per aver infranto un color code che vorrebbe le corpulente obbligate allo “snellente” e castigante nero, mentre hanno semplicemente ignorato la maestosa Devin a favore dell’immarcescibile Ridge, segnalato tra i bellissimi del festival.

Chi ricorderemo? #l’orgoglio bluette, contro i ministri #totalblack e i compagni #evergreen. —