sabato 30 aprile 2016

 MODA & MODI

Ottavio e Rosita Missoni, un mondo colorato in mostra a Londra


Il mondo colorato di Ottavio Missoni avvolge Londra. Dal 6 maggio al 4 settembre 2016, al Fashion and Textile Museum della capitale britannica, sarà riallestita la mostra “Missoni, l’arte, il colore”, che è stata aperta da aprile a novembre 2015 al Museo Ma*Ga di Gallarate, richiamando quarantamila visitatori. È stato il primo, grande omaggio a Tai (morto il 9 maggio 2013) e alla sua avventura creativa, quello che a Trieste non ha trovato spazi, risorse e neanche l’idea.

Ottavio e Rosita Missoni fotografati nel 1984 da Giuseppe Pino
Curata da Luciano Caramel, Emma Zanella, direttrice del Ma*Ga, e da Luca Missoni, figlio di Ottavio e Rosita e direttore dell’archivio della maison di moda fondata dai genitori, la mostra londinese propone 50 abiti, 45 opere pittoriche dalle collezioni del museo e della famiglia, dieci arazzi di Tai, alcuni suoi dipinti e una sezione documentale su opere ed esposizioni che hanno per tema Missoni. «La mostra è un po’ “asciugata” rispetto a quella di Gallarate, perchè gli spazi sono più piccoli - spiega Emma Zanella - ma il percorso è rispettato in tutte le sezioni. I responsabili del museo l’avevano visitata al Ma*Ga e ne erano rimasti entusiasti. Sono tornati, ci hanno chiesto di riprogettarla e poi ci hanno 
inviati».



L'installazione di 150 abiti Missoni nella mostra al MA*GA di Gallerate

Apre la videoinstallazione di Ali Kazma “Casa di moda”, quindi si passa a “Radici”, in cui sono esposte opere, dagli anni ’20 ai ’50, di Sonia Delaunay, Gino Severini, Giuseppe Capogrossi, Tancredi, Angelo Bozzola, Giacomo Balla, Emilio Vedova a delineare i riferimenti e le fonti di ispirazione dei Missoni. Ecco poi “Moda e arazzi” e ancora i “Dialoghi” tra l’intensa attività creativa di Ottavio e Rosita e la cultura visiva italiana tra gli anni ’60 e ’80: Gottardo Ortelli, Claudio Verna, Irma Blank, Alberto Biasi, Luigi Veronesi, Edoardo Landi, Enrico Prampolini, Gianni Monnet, Emilio Vedova, Bruno Munari, Atanasio Soldati e il concittadino triestino Gillo Dorfles.

L’omaggio ai Missoni  si inserisce in una stagione di valorizzazione della cultura italiana a Londra, con “Botticelli reimagined” al Victoria & Albert Museum, il mistero del Giorgione alla Royal Academy, il Leonardo ingegnere celebrato allo Science Museum (fino a settembre) e, fino al 14 agosto, “Sicily: Culture and Conquest” al British Museum. A corredo dell’allestimento al Fashion and Textile Museum saranno promossi dal Ma*Ga incontri su moda e arte, in collaborazione all’Istituto italiano di cultura a Londra.
È la stessa curatrice Emma Zanella ad anticiparci un percorso ideale nelle sale.

Quando si accostano arte e moda c’è sempre qualcuno che storce il naso. Lei che cosa ne pensa? «Abbiamo discusso molto della questione all’interno del comitato scientifico e alla fine siamo convinti di aver imboccato una strada che definirei “felice”. Arte e moda non sono una l’ancella dell’altra, ma c’è un confronto libero tra la ricerca formale dei Missoni e gli artisti storici che hanno creato l’alfabeto visivo da cui sono partiti, o di cui erano amici o con cui collaboravano. La mostra è un affondo sulla creatività Missoni, sull’uso che fanno del segno, del colore, della forma, affiancato a opere storiche o a loro contemporanee che utilizzano, con esiti estetici autonomi e differenti, i loro mezzi espressivi. Si tratta di dialoghi tra due modi differenti di fare ricerca, ma che si relazionano strettamente. Questo vale in particolare per uno stilista come Ottavio Missoni perchè il suo lavoro è fortemente centrato sul segno, sul colore e sulla materia, dunque sui fondamenti dell’arte astratta. Nella sua produzione pittorica e negli arazzi, poi, la connessione con il mondo dell’arte è ancora più evidente.



Due arazzi firmati da Ottavio Missoni nel 1984
I riscontri? «Da parte di pubblico e critica sono stati positivi in entrambi gli ambienti, quello dell’arte e quello della moda, perchè non ci sono state forzature, le analogie sono uscite naturalmente, come un’eco, dalla produzione di Missoni, costituita da una vera e propria ricerca linguistica e formale».
Una mostra del 2004 mise a confronto “Tai” e Tiziano. Un eccesso? «Secondo me più che Tiziano è appropriato far riferimento a un certo tonalismo veneto, ai colori stemperati, alle sfumature che amplificano la gamma cromatica. Infatti, tra le cento opere che avevamo esposto un anno fa al Ma*Ga di Gallarate ce n’erano alcune, come quelle di Dorazio e Tancredi, in cui prevale la ricerca segnica e ritmica, altre in cui prevale la ricerca cromatica, la “texture”, la variazione dei toni».


Enrico Prampolini, "Composizione", 1952


Quello del Ma*Ga è stato il primo omaggio postumo a Missoni. Che cosa vi ha guidato nella scelta del taglio da dare alla mostra?
«Siamo partiti lavorando con la famiglia, con l’archivio, con Luca Missoni. In occasione di Expo 2015 avevamo pensato di mettere in relazione il nostro museo con la maison, che nascono entrambi a Gallarate nei primi anni ’50. Non volevamo fare un’antologica nè un’esposizione sulla storia della famiglia, o sui rapporti per esempio con il mondo teatrale, tutti filoni già esplorati. Il punto di partenza è stato Ottavio Missoni artista, pittore e creatore di arazzi come opere uniche, che già negli anni ’70 esponeva in importanti gallerie d’arte a Venezia e Milano. Così ci siamo concentrati sulla potenza del suo lavoro e sulla ricerca di entrambi i Missoni, Ottavio e Rosita, che hanno creato uno stile inconfondibile, disegnando un percorso omogeneo e ben cadenzato, guidato dal continuo confronto con l’arte e da affondi solo sulla maison. La scelta degli artisti è stata valutata con la famiglia in un dialogo continuo. Sono quelli che i Missoni amano, che hanno amato, Depero, Balla, Sonia Delaunay, per cui Rosita ha una passione particolare. La mostra apre con “Casa di moda”, un’opera video di Ali Kazma, che nel 2009 ha avuto accesso all’azienda e ha creato un’opera per la Biennale. L’arte è entrata nel mondo produttivo Missoni, dagli operai alla sfilata finale, per rileggerlo in modo autonomo. Un rapporto rispettoso tra due mondi indipendenti ma che si guardano in maniera profonda».



"Ballerina" di Gino Severini, 1957

 

 
Sonia Delaunay, "Untitled", 1936. L'artista è molto amata da Rosita Missoni


Voi curatori citate futuristi, astrattisti... Ottavio definiva i suoi disegni,“pupoli”, in triestino. Non sono riferimenti inconsci? «Sono sia amori istintivi che conoscenze. È stato Ottavio a introdurre Rosita nel mondo dell’arte. Ma noi non vogliamo parlare di debiti, piuttosto di un universo entrato nel suo bagaglio espressivo e visivo, nelle esperienze che si portava dietro. Nella sezione della mostra che si intitola “Dialoghi”, per esempio, è rappresentato il rapporto diretto tra Missoni e Tancredi negli anni ’70. 

Ottavio Missoni, 1971


Che cosa intende quando parla di “metodo” di Missoni? «Direi piuttosto “linguaggio” Missoni, di Ottavio e Rosita, che si sono sempre compensati nel lavoro creativo, oltre che amati nella vita. In Ottavio l’aspetto creativo, precede la moda in senso stretto: schizzi, disegni, prove di colore, cartelle cromatiche. Il loro linguaggio è il segno, la forma, il colore e aggiungerei la morbidezza, perchè operano sulla maglia. Un lavoro molto simile a quello dell’artista, che ha degli strumenti e li piega al suo linguaggio. Nella mostra a Gallarate c’era un’installazione di cento abiti, dagli anni ’50 al 2014, a rappresentare l’universo creativo e linguistico Missoni. Negli anni si vedono le trasformazioni, ma il codice rimane».

Secondo lei qual è l’aspetto più innovativo? «Il lavoro sulla materia. I Missoni creano una maglia che ha un’identità precisa, sia per la scelta di colori e tonalità sia per la morbidezza e la flessibilità. E poi ho imparato un aspetto fondamentale del loro metodo: i Missoni prima creano la materia e da quella arrivano all’abito finale».

Com’è stato collaborare a una mostra con una casa di moda? «Fondamentale è stato il ruolo di Luca Missoni, che da anni lavora con i suoi collaboratori per ordinare e dare una struttura all’archivio. Hanno fotografato, inventariato, catalogato tutto, migliaia di abiti, schizzi, arazzi. Un lavoro preparatorio di tutta la storia della maison, le radici di un museo d’impresa. Lavorare con lui, e naturalmente con Rosita e Angela, è stata un’esperienza molto intensa e riuscita, si è creata una forte comunione di idee e di intenti».
La mostra girerà ancora? «Stiamo lavorando per portarla nel 2017 in Cina e Australia... sarebbe davvero un grande successo».
twitter@boria_a

leggi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2005/11/lintervista-ottavio-missoni-per-i-miei.html

mercoledì 27 aprile 2016

 MODA & MODI

Un abito di spille di sicurezza da Atelier Home Gallery a Trieste



Bastano i due abiti della collezione “Oblitus” della serba Dajana Vasić a giustificare una puntata all’Atelier Home Gallery (in via della Geppa 2 a Trieste, www.atelierhomegallery.org/), dove Matilde Tiriticco, che cura gli eventi dello spazio espositivo insieme al compagno Alessandro Viola, fa da padrona di casa attraverso le stanze. E non è solo un modo di dire: in questa singolare galleria, al terzo piano di Palazzo Panfili, i quadri e gli oggetti sono sistemati come in una casa, tra piante, libri, computer, tavoli e poltrone, in modo da superare la timidezza, a volte la diffidenza, dei visitatori verso le gallerie d’arte più ufficiali e ingessate, e accoglierli in modo caloroso e informale. Fino a sabato 30 aprile 2016 (giovedì, venerdì e sabato dalle 18 alle 20 o su appuntamento chiamando il n.348-9278461) l’Atelier Home Gallery propone “Dizajn”, uno showcase, un assaggio diciamo, di sei giovani designer serbi, tra i 24 e i 28 anni, che hanno già sfilato alle Fashion Week di Belgrado e della Serbia, accanto a una mostra di undici pittori serbi, proposti in collaborazione con la locale Confindustria.


Dajana Vasic e l'abito-cotta di spille di sicurezza (foto Jovana Mladenovic)

 
Gala Borović e la sua collezione "1986" (foto Milica Drinic)


 
La pelliccia aricoperta di uno strato di nylon di Kony Miami (Marija Janosevic) e l'abito di Maradu (Marija Dujovic)


Dajana Vasić, dunque. La cui collezione, già presentata in sei collettive internazionali, rilegge la sontuosità attraverso materiali poveri e comuni, la preziosità del guardaroba aristocratico che rimane nel finto scintillare di elementi di ordinaria sartoria. Da questa idea escono un top che riproduce la maglia metallica delle cotte sopra una garza elastica. Ma è un inganno: non c’è niente di ferrigno, la maglia è realizzata con trentamila spille da balia, montate fitte fitte ma incredibilmente flessibili e accarezzanti sulle forme del corpo. L’altro outfit è un abito da sera, il cui reggiseno, con la stessa tecnica, dà l’impressione di un decoro di paillettes.


Dajana Vasić (foto Jovana Mladenovic)

 

Con Maradu (Marija Dujovic, che ha studiato allo Iuav di Venezia) il salto è all’indietro, negli anni ’60. La sua mini-collezione si intitola “Don’t grow, it’s a trap”, non crescere è una trappola, fatta di microabiti con il collo “claudine”, tondo e da collegiale, o con piccoli fiocchi sulla schiena, da vestiti più lunghi glitterati e confetto, sempre con qualche vezzosità vintage, da una gonna rosa di finta pelliccia e da una mini in ecopelle, tutto in una palette pastello.
Una sfida ai giovani più spiritosi e trasgressivi, dentro cui batte un cuore alla “Miami Vice” è la proposta pop di Kony Miami (Marija Janosevic). Lei la definisce, “sassy”, strafottente, e crea una serie di bermuda, top e giacche maschili, su stoffe bianche dipinte a mano e con tagli a vivo, ispirati alla cultura pop. Nei disegni mescola dettagli dell’arte italiana, scarpe Nike e Lamborghini Diablo. Chi ha coraggio, o fa il performer alla Lady Gaga (o all’autoctona triestina Jotassassina...), può scegliere una pelliccetta color geranio ricoperta di una guaina di nylon, ma c’è anche un utile (e portabile) impermeabile color fumo in pvc.


 
, Gala Borović e uno dei suoi new age travellers della collezione "1986" (foto Milica Drinic)


Infine
Gala Borović con i suoi “new age travellers” che si ispirano allo stile post-punk dei ribelli al governo Thatcher, trasferitisi da Londra alla campagna inglese. Pezzi da sovrapporre, soprabiti, giacche, pantaloni e shorts, su cui la stilista inserisce “medaglioni” con volti stampati su un tessuto di cotone e successivamente ricamati con paillettes e perle, ispirati ai volti malinconici e ambigui di questi “anarchici rurali”, ritratti dal fotografo inglese Iain Mc Kell.


Accessori e body-pieces della scenografa Sonja Iglic (foto Alek Zivkovic)


In mostra anche la collezione di gioielli della scenografa Sonja Iglic, in pelle e ottone: occhiali, anelli, bracciali, body-pieces con strutture a ciglia che richiamano la pianta carnivora Dionea, sintesi della natura predatoria dell’uomo. In arrivo, dopo una tappa a Milano, gli anelli-scultura di Studio Manufactura di Nenad Stojaković.
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martedì 26 aprile 2016

 LA MOSTRA

A Lubiana utopie a basso costo nel Museo Metelkova



Il Museo Metelkova a Lubiana (+MSUM, all photos courtesy Dejan Habicht)




Utopie a basso costo. È la mostra al Museo d’arte contemporanea Metelkova a Lubiana (+MSUM www.mg-lj.si/), che, dal 27 aprile all’11 settembre 2016, presenta opere in gran parte provenienti dalla collezione internazionale d’arte dell’Est Europa “Arteast 2000+” della Moderna galerija della capitale slovena. Ottanta opere, divise in venti ambienti, ciascuno caratterizzato da un colore diverso, per capovolgere il concetto modernista del museo come “white cube”, cubo bianco, contenitore non comunicante, e valorizzare l’idea della trasparenza e dell’interconnessione degli spazi. E, idealmente, quello delle culture e del loro dialogo, un tema di stringente attualità, anche nell’arte. L’allestimento s’intitola “Low-Budget Utopias” ed è l’ottavo in cui il Museo Metelkova sviluppa l’idea di una collezione (e dello stesso spazio che la ospita) come strumento per veicolare messaggi, in questo caso per analizzare come l’idea dell’utopia sia trattata dai creativi in contesti meno agiati, come quelli ex socialisti, e come ne siano condizionati. Tra i nomi ospiti, il rumeno Ion Grigorescu, la serba Marina Abramović a Abramovic, il russo Vadim Fishkin, gli sloveni Irwin, Laibach, il collettivo OHO, Jasmina Cibic, Tadej Pogacar, Marjetica Potrc, la coppia ucraina Ilya & Emilia Kabakov, il croato David Maljkovic, l’albanese Adrian Paci, il serbo Mladen Stilinovic.


Yellow di Nedko Solakov nella mostra Low-Budget Utopias


 

 
"Globe Heaters & The World of Maps According to Buckminter Fuller", 2010, di Sašo Sedlacek



 
"Masks on view" di Saša Marković Mikrob




Ieri, alla presentazione, sono intervenute le curatrici della mostra, Zdenka Badovinac, direttrice della Moderna Galerija, e Bojana Piškur. Entrambe hanno sottolineato come “Low-Budget Utopias”, sia una “rilettura” della collezione permanente, realizzata attraverso opere, anche di anni diversi, che esprimono il tema scelto. Il museo, sostengono le curatrici, prendendo a prestito il termine coniato da Michel Foucault, è un’«eterotopia», un luogo aperto su altri, la cui funzione è farli comunicare tra loro. «Ma, mentre altre istituzioni “eterotopiche” come prigioni, ospedali psichiatrici, caserme, si distinguono e si isolano dalla realtà esterna con specifiche regole di comportamento, il museo ha la capacità di entrare nel mondo circostante e, insieme ad altri soggetti, di proporre dei cambiamenti».

 
Arian Pregl (ph. Dejan Habicht)


Ecco dunque il senso della mostra, che prende le mosse dalla peculiare natura delle utopie nell’arte dell’est Europa. In particolare, la collezione “Arteast 2000+”, sottolinea una sua particolarità e cioè il fatto che quest’arte si relazione con espressioni contemporanee di altre culture piuttosto che arroccarsi nella difesa delle tradizioni locali. «Un punto, questo - specificano Badovinac e Piškur - che ha bisogno di essere messo più che mai in luce, nel momento in cui certi paesi ex socialisti si stanno circondando di filo spinato per proteggere il cristianesimo e le loro culture specifiche. In un momento in cui l’utopia di un mondo di differenze armoniose sta crollando davanti ai nostri occhi, dobbiamo pensare alla diversità come a un qualcosa di non implacabile».
Low-Budget Utopias” si interroga quindi su quale modello di museo sia migliore per le ristrettezze in cui devono lavorare artisti e istituzioni nel mondo post-socialista. La risposta? Un “museo sostenibile”, che si differenzia dai ricchi musei dell’Europa occidentale, accumulatori seriali di oggetti da tutto il mondo, e che può sopravvivere solo sviluppando costantemente la sua conoscenza e intrecciando la sua esperienza con quella di altri paesi del mondo che vivono sfide simili.
Tra le opere in mostra, il video e l’ambientazione della provocatoria performance di Marina Abramović del 1974, “Rhytm 0”, con cui sperimentava la relazione tra pubblico e artista, i limiti fisici e mentali del corpo e le possibilità della mente: su un tavolo erano collocati 72 oggetti, incluso un fucile caricato con un singolo colpo, che il pubblico poteva utilizzare per accarezzarla o farle del male. Nel corso delle sei ore in cui sedeva immobile, Marina sente su di sè il progressivo crescere dell’aggressività, ma quando si alza per andare incontro agli spettatori, tutti scappano evitando il confronto diretto.
Sašo Sedlacek, invece, con il suo globo, esprime la paura per il surriscaldamento del pianeta e la perdita dell’equilibrio naturale. In particolare riprende l’idea dell’architetto e filosofo americano Fuller, secondo cui tutte le mappe in uso sono inique, in quanto concentrano le distorsioni dei territori nei paesi meno ricchi. Vinko Tušek, pioniere degli “ambienti” concettuali nell’arte slovena, scomparso nel 2011, è presente con un’opera che è stata riassemblata da Marko Jenko, curatore della Moderna Galerija: un invito a entrare nell’oggetto d’arte o, al contrario, a guardarlo da lontano. Infine, il video di Adrian Paci che trascina il visitatore dentro le migrazioni albanesi in Italia negli anni Novanta.

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lunedì 25 aprile 2016

MODA & MODI

Conchiglie che raccontano storie, da portare al dito



 


 Trasformare conchiglie in gioielli unici, senza sottrarle al mare. Antonello Malfa lo fa da molti anni e i suoi anelli sono stupende creature della natura, che dell'ambiente da cui provengono conservano sfumature, imperfezioni, asprezze e fragilità, piegate dall'arte del designer fino a farne oggetti d'arte, uno diverso dall'altro, pezzi unici, irripetibili. Nel 2001 la sua prima linea “Atlantide”, nata dalla magia di un caso: durante una passeggiata, una conchiglia trovata sulla spiaggia scivola naturalmente al dito della fidanzata, come un anello già modellato e addolcito dall'erosione dell'acqua. Ecco l'idea. Cercare conchiglie, arricchirle con inserti di pietre preziose e semipreziose, trovare l'equilibrio tra i colori e le forme impressi dalla natura e l'intervento dell'artigiano. Atlantide, l'isola dalle immense ricchezze citata per la prima volta da Platone nel dialogo Timeo e Crizia, diventa così una collezione di anelli, orecchini, bracciali, ciascuno con un nome diverso, come diversa è ogni volta la mano degli elementi esterni e quella dell'artista, monili che ispirano mondi lontani e fantastici.





Le geometrie della natura sono il punto di partenza, conchiglie e ricci di mare, in cui vengono incastonati perle e coralli, ametiste, turchesi, frammenti di madreperla, granati e ambra, acquemarine, rubini grezzi e rose del deserto, intrecciati a rame e ottone.

Antonello Malfa


Quindici anni dopo, nel 2016, “Atlantide” rinasce, mantenendo fede all'ispirazione originaria. La nuova linea di gioielli di Antonello Malfa sarà presentata a Trieste venerdì 6 maggio, alle 18, in quel piccolo scrigno di accessori d'autore che è "Giada" di Silvia Vatta, in via Roma 16 (www.giadatrieste.com info@giadatrieste.com)



"Giada" di Silvia Vatta in via Roma a Trieste

Ho comprato un anello di Malfa molti anni fa, non sapendo niente del suo autore, colpita dall'imponente eppure aerea incastellatura di forme, come una spuma d'onda rosata, che culmina in un cuore di corallo. Racchiude tutte le sfumature della sabbia, che cambiano girandolo intorno al dito, ruvido al tatto ma dolce da infilare, perché la tecnica del designer ne ha smussato, e anche irrobustito l'anima, con una tecnica particolare. Cattura sempre lo sguardo, e non solo per la dimensione: racconta una storia, è autentico, non seriale.

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venerdì 22 aprile 2016

IL FESTIVAL

Link a Trieste, Giovanni Floris primo testimonial del "buon giornalismo"


Link nel nome di JM Lopez, il fotografo spagnolo premiato l’anno scorso a Trieste e rapito due giorni dopo in Siria dall’Isis, la cui sorte è ancora un mistero. Un applauso accoglie l’annuncio di Giovanni Marzini, dal palco del grande tendone di piazza della Borsa, che fino a lunedì 25 aprile ospiterà i dibattiti e i confronti del “Premio Luchetta incontra”. Una dedica e subito dopo un ricordo, quello di Fabio Amodeo, il collega triestino scomparso nei giorni scorsi. Un professionista - ancora le parole di Marzini - «che ha insegnato il mestiere a tutti noi».


Il pubblico nella tensostruttura di Link (f. Francesco Bruni per Il Piccolo)

 Si è aperto così, questo pomeriggio, in un contenitore affollatissimo e, per la prima volta, anche animato da una giovane “redazione” di studenti del liceo Petrarca, il primo dei quattro giorni dell’anteprima del Premio Luchetta (www.premioluchetta.it), la cui serata finale è già in scaletta per il 30 giugno. Un mini-festival di “buon giornalismo”, all’insegna dell’intelligenza, della serietà, della modestia, le qualità che Daniela Luchetta, anche lei sul palco per fare gli onori di casa, ha sottolineato nel marito Marco e nei colleghi che hanno perso la vita sul campo e ai quali oggi sono intitolati sia il Premio, sia la Fondazione per le piccole vittime di tutte le guerre. Due iniziative, secondo Beppe Giulietti, presidente della Fnsi, che rendono «fortunata» Trieste, per aver saputo fare della memoria non un monumento fine a se stesso, ma un riconoscimento ai colleghi il cui lavoro illumina i luoghi bui, le periferie del mondo, e un’occasione viva di incontro e di aiuto ai bambini travolti dai conflitti.

Giovanni Floris a Trieste per Link (foto Francesco Bruni per Il Piccolo)

Spazio, allora, al primo interprete del giornalismo virtuoso, Giovanni Floris, e al suo ultimo libro “La prima regola degli Shardana”, che l’ex conduttore di Ballarò, oggi al timone “DiMartedì” su La 7, ha raccontato con grande verve, incalzato dallo stesso Giulietti e da Andrea Filippi, direttore de “La Nuova Sardegna”. Presto detta la storia, con qualche spunto autobiografico nella figura del giornalista famoso e celebrato, ma stanco di ripetitività e rinunce: tre amici, al giro di boa della mezza età, si riconciliano con la vita cercando di rimettere in piedi una squadra di calcio, affidandosi al primo comandamento del fiero popolo sardo degli Shardana, ovvero “non pisciare controvento”. In sostanza “fare squadra”, non lasciare che l’individualismo seppellisca il collettivo, segreto che Floris rivendica alla base del successo dei suoi talk show, tutti partiti in salita e poi esplosi nell’audience. «Perchè - ha detto, fornendo la sua ricetta - noi mettiamo in crisi le sicurezze di chi viene ospite. Giornalismo è fare domande».


 
Floris racconta "La prima regola degli Shardana" (foto Francesco Bruni per Il Piccolo)


Divertente il racconto del Floris papà di calciatori in erba, coinvolto suo malgrado nel temuto “torneo dei padri”, cui accetta di partecipare dopo molti rovelli («sono sovrappeso, se mi fotografano sarò perseguitato tutta la vita...»). Una volta sceso in campo, però, l’amara sorpresa. Nessuno degli altri genitori ha la più pallida idea di chi sia nè lo ha mai visto in tivù (di qui un’altra “para” da vip ignorato...) e quando, causa un infortunio, il mister si decide finalmente a utilizzarlo, lo apostrofa con un sonoro «Giuseppe, va in campo!». E Giuseppe, il carneade Floris, resterà anche nei cori che lo accompagnano fuori dal campo, dopo il clamoroso goal della vittoria segnato al prezzo di un colpo della strega.
Morale? Perdendo un po’ di egocentrismo, vince la squadra. «Il tempo in cui si vive è quello migliore - ha detto il conduttore rispondendo a una sollecitazione di Filippi - ma non accetto il completo dissolvimento di quello che non è legato alla singola persona».
Dopo un brillante excursus che tocca le elezioni romane, il duello Totti-Spalletti e un aneddoto su Franco Selvaggi, campione del mondo nell’82 senza aver mai giocato e nemmeno essere sceso in panchina (con Renzi, l’unico personaggio che nel libro è citato per intero), Floris si congeda con un tweet, social che detesta, come gli hanno chiesto di fare gli studenti: «La chiave del riscatto? Seguite la prima regola degli Shardana».


Pino Roveredo durante il dibattito a Link (foto F. Bruni per Il Piccolo)


 

Lo scrittore tedesco, triestino d'adozione, Veit Heinichen

All’anchorwoman Daniela Ferletta, il compito di introdurre il secondo “salotto”, ospiti gli scrittori Veit Heinichen e Pino Roveredo che, stimolati dal giornalista Pietro Spirito, si sono confrontati sul tema della Trieste di frontiera: per il primo la città prototipo di quelle europee, con mescolanze e devianze, in cui si muove il commissario Proteo Laurenti, protagonista dei suoi noir; per il secondo la città degli «ultimi e dei penultimi», quella vista «di schiena», che ha imparato a descrivere - ha detto - «con la pazienza e l’attenzione degli occhi», grazie ai genitori sordomuti e alla sua prima lingua, quella dei segni. Roveredo ha un libro fresco, “Mastica e sputa”, Heinichen ne ha uno appena consegnato all’editore, “La giornalaia”, su cui - nonostante gli sforzi di Spirito - non fa anticipazioni, se non un vago accenno al tema della «manipolazione delle notizie». Lancia invece un’idea: un festival a Trieste di letteratura internazionale, un evento «che rispecchi la specificità della città». «Perchè Trieste - ha concluso - è sempre protagonista nelle lingue degli altri».
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mercoledì 20 aprile 2016

 IL LIBRO

Le antenate delle escort, portavano le mutande e mostravano i piedi


"Con Stile" (Garzanti) di Alessandro Marzo Magno

Boxer di sinistra e mutande di destra? Periodicamente questa disputa ideologica sull’intimo maschile compare nelle riviste di moda, attizzando il dibattito, di solito nei già roventi mesi estivi, sulle preferenze in fatto di biancheria di politici e personaggi pubblici. Ma il binomio tra lingerie e schieramenti non è un’invenzione dei giorni nostri. Nell’Ottocento la disputa si giocava sulle mutande femminili, a fronti capovolti. I progressisti le apprezzavano e i conservatori le respingevano. I precursori del socialismo, come il conte Henri de Saint-Simon, le consideravano un aiuto all’emancipazione femminile, mentre le suore orsoline vietavano alle ragazze di inserirle nei corredi da portare in collegio, giudicandole peccaminose.

Pochi altri capi hanno suscitato lungo i secoli così viscerali condanne o entusiasmi, rifiuti o adesioni. Nel medioevo non le portava nessuno, nè uomini nè donne, con conseguenze rischiose per promiscuità e igiene. Non solo. L’assenza di biancheria intima costrinse nel Cinquecento a commutare in altre forme di estremo supplizio la condanna a morte per impiccagione comminata alle donne, per evitare che i passanti sbirciassero sotto le gonne dei cadaveri appesi, oppure a infilare le malcapitate in pantaloni o in sottane cucite sul fondo prima di farle penzolare. Vale lo stesso per gli uomini, cui il cappio al collo produce conseguenze ancora più fastidiose, almeno da morti, come eiaculazione o erezione prolungata, tant’è che i criminali non venivano mai impiccati con i genitali nudi. Lo testimonia un particolare dell’affresco “San Giorgio e la principessa”, nella chiesa di Sant’Anastasia a Verona, dove i due uomini appesi alla forca sono provvisti dal Pisanello di adeguate mutande.


Lo scrittore e giornalista Alessandro Marzo Magno

Delle oscillazioni di storia, politica e costume in fatto di lingerie dà conto Alessandro Marzo Magno, scrittore e giornalista, in uno dei capitoli più gustosi del suo nuovo “Con stile” (Garzanti, pagg. 195, euro 18,00), una sorta di ricognizione tra gli abiti, gli accessori e le pratiche estetiche che hanno interessato nei secoli le diverse parti del corpo, dalla testa ai piedi.

Il libro verrà presentato dall’autore giovedì 21 aprile 2016, proprio nel giorno dell’uscita, alle 18 alla libreria Lovat di viale XX Settembre a Trieste e, il 29 aprile, alla profumeria Belle et Beau di via XXX ottobre 6/b a Trieste.

Arrivando dalle parti del bacino, non si poteva che registrare le vicissitudini delle mutande, adottate nel Cinquecento dalle signore di alto lignaggio per evitare gli inconvenienti delle cadute di cavallo, ma poi abbandonate. Piacevano di più alle signore francesi. Maria Stuarda, cresciuta alla corte parigina al tempo di Caterina de’ Medici, pose la testa sul ceppo indossandone un paio di fustagno bianco, alla moda d’oltralpe.

Le cortigiane, al contrario, ne andavano pazze, come attestano gli inventari compilati alla loro morte, dove le “braghesse”, così le chiamavano a Venezia e Ferrara, erano tessute con fili d’oro e d’argento, o di colori accesi come quelle “di raso paonazzo ricamado d’oro” che furono catalogate tra i beni di Paulina Povesin Vignon (1606), escort di classe.
Per quanto lunghe e orlate di merletti, secondo il figurino pubblicato nel Journal de Mode nel 1807, le mutande non convincevano le signore, che le ritenevano capo per ballerine e prostitute, mentre nella pudibonda Inghilterra vittoriana venivano addirittura definite “le innominabili”.


Sarà l’Ottocento, con le crinoline di ferro che allargano e sollevano le gonne ad ogni passo, scoprendo le gambe fino al ginocchio, a sdoganare i mutandoni anche nei collegi come “custodi di virtù”. Dalla fine del secolo in poi nessuna signora ne può più fare a meno e i modelli sono sempre più raffinati e preziosi. «Mi piacerebbe - scrive da Trieste James Joyce alla moglie Nora - che portassi mutande con vari strati di pizzi sovrapposti che risalgono dalle ginocchia in su per le cosce, e con nastri grandi rossi: non le mutande da collegiale con un bordo sottile di tristi merletti, aderenti alle gambe e così fini che la carne traspare, ma mutande da donna (o se preferisci la parola) da signora, con un fondo largo e abbondante, e le gambe ampie, tutte pizzi e nastri e merletti, e cariche di profumo».

Se le mutande femminili vivono alterne fortune, i peli superflui, dall’età romana a oggi, sono una costante da eliminare. Addirittura il trattato di cosmesi “L’armonia delle donne” di Trotula de Ruggiero, colta nobildonna salernitana vissuta nell’XI secolo, si apre con preparazioni depilatorie, a testimonianza dell’attenzione data al problema. Che, peraltro, veniva affrontato in maniera piuttosto radicale, con una pomata a base di calce viva, corredata, in caso di uso azzardato, da un apposito unguento antiustioni. Delle pratiche depilatorie esiste un curioso e poco conosciuto bassorilievo del XII secolo, conservato, in posizione defilata, al Museo Sforzesco di Milano, raffigurante una donna che con una mano si tiene sollevata la gonna e con l’altra si taglia i peli pubici utilizzando una grossa forbice.


Il bassorilievo si trovava murato nell’arco della Porta Tosa, uno dei dieci varchi nelle mura milanesi, e proprio dalla raffigurazione della ragazza (tosa, in dialetto) intenta a depilarsi, avrebbe tratto il suo nome. Una leggenda vuole che si tratti della moglie di Barbarossa e che il suo fosse un gesto di scherno rivolto ai milanesi, sconfitti dal marito nel 1162. Un’altra storia, di segno opposto, racconta che una popolana, radendosi il pube, abbia distratto i soldati dell’imperatore e favorito una sortita contro di lui. Tutto suggestivo ma falso, perchè, se la depilazione è pratica antica, delle origini del bassorilievo non si sa nulla.



Ciopine veneziane, antenate dei plateau






Gli "Armadillo" di Alexander McQueen, pericolosi come i calcagnetti
Dai cappelli ai tacchi, passando per petto, tronco, braccia, bacino e gambe, intrecciando storia e aneddoti, luoghi e personaggi Marzo Magno ci guida in un viaggio leggero ma accurato su come l’Italia ha vestito e svestito il mondo, ma anche sulle origini delle trasformazioni e decorazioni del corpo. Sulla tintura dei capelli, per esempio, ci vengono in soccorso sia la solita Trotula, con un lavaggio a base di mallo e corteccia di noce, allume e polvere di ghiande di quercia, sia, cinque secoli dopo, l’udinese Eustachio Celebrino che, nel 1526, pubblica “Venusta”, considerato il primo trattato di cosmetica a stampa di epoca moderna, in cui descrive una “acqua de bionda per capelli perfettissima” e molti altri rimedi - che ci dimostrano come la ricerca della bellezza segua sempre gli stessi percorsi - per eliminare le rughe, sbiancare i denti, togliere le macchie del viso e lenire le ustioni solari, nonchè una ricetta “ad restringendum vulva” dedicata alle cortigiane che avevano bisogno di tonificare la parte del corpo che dava loro da vivere.

In fatto di mastoplastica, poi, la chirurgia moderna ha certo perso in poesia rispetto ai seni artificiali in pelle di camoscio, raso imbottito e caucciù in vetrina all’Esposizione universale di Anversa del 1885, dove venne presentato l’antesignano delle protesi, il “Mammif”, una coppia di mammelle posticce adattabili al corsetto e gonfiabili a volontà.

Per le scarpe funziona all’opposto rispetto alle mutande: le donne caste coprono il piede, le prostitute lo scoprono, perchè mostrare le estremità è simbolo di libertà sessuale. Quanto ai plateau dell’epoca, i "calcagnetti" (che arrivano a 60 e 50 centimetri, come gli esemplari custoditi al museo Correr di Venezia e al museo Bardini a Firenze , probabilmente mai utilizzati), non servono a camminare nell’acqua alta, ma a ostentare ricchezza (pensate alla stoffa aggiuntiva per far toccare terra ai vestiti), privilegio (non si poteva certo far nulla a quell’altezza) e la disponibilità di servitori, indispensabili per appoggiarsi sulle loro spalle ed evitare di franare a terra. Per la monaca benedettina scrittrice Arcangela Tarabotti, vissuta a Venezia nella prima metà del secolo XVII, l’altezza delle calzature simboleggia la superiorità spirituale femminile. Agli uomini, però, interessa piuttosto l’utilizzo dei calcagnetti come strumento di controllo sulle femmine di casa, tant’è che quando la moda comincia a declinare, un anziano senatore veneziano, nel 1655, chiede di far alzare per legge la misura delle “zeppe”, in modo che mogli e figlie non potessero circolare liberamente. «Tutte le feste - si rammaricava - avebbero voluto per sè, trascurata la casa, et il mal governo avrebbe posto in scompiglio la famiglia».
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