giovedì 7 aprile 2016

 IL LIBRO

Widad Tamimi, quelle Rose del vento che uniscono Trieste e la Palestina





La scrittrice italo-palestinese Widad Tamimi


È l’11 febbraio 1981 quando due uomini si incontrano per la prima volta in ospedale, a Milano, davanti alla culla di una neonata, figlia del primo, Khader Tamimi, palestinese, e nipote del secondo, Carlo Weiss, ebreo. Due uomini divisi da tutto, religione, provenienza, ricchezza, amicizie, professione, ma uniti da un destino comune, l’esilio. E in quel momento, davanti al vetro della nursery, anche dall’amore sconfinato per la creatura appena arrivata, alla quale viene dato il nome di Widad, lo stesso della nonna paterna, che in arabo antico significa amore.
Oggi quella bambina è una giovane donna, scrittrice, e come atto d’amore verso papà Khader e nonno Carlo, figure centrali nella sua vita, ha deciso di raccontare le loro storie e quelle delle loro famiglie. Ha attraversato le generazioni e i dolori del secolo breve, ha raccolto testimonianze, ripercorso fughe, trasferimenti, ritorni e alla fine ha messo insieme tutti i tasselli con infinita pazienza e tenacia. Perchè le vite dei suoi due uomini si sono rincorse, nel ciclico ripetersi della storia dei profughi: quando l’ebreo Carlo, costretto a fuggire all’estero dalle leggi razziali, nel 1947 ritorna nell’amatissima Italia a bordo del “Vulcania” e mette fine al suo esilio americano, Khader, ancora nella pancia della mamma, è costretto a lasciare Bayt Jibrin, un paese vicino a Gerusalemme, e a trovare rifugio a Hebron, dove vedrà la luce, perchè la sua terra è diventata di altri, gli ebrei. Un uomo ritorna a casa, l’altro l’abbandona, due generazioni diverse si incrociano in un destino comune. 

Ottocaro Weiss negli anni della Prima guerra mondiale (foto courtesy di Widad Tamimi)

"Le rose del vento" di Widad Tamimi (Mondadori)




Ma lo sradicamento non muore con chi lo ha vissuto, s’insinua nella vita di chi viene dopo, figli, nipoti, bisnipoti, lascia dentro di loro il senso di un filo strappato, di un dolore lontano, di un senso di appartenenza da ricomporre. Finchè qualcuno, com’è accaduto a Widad, cerca di riallacciare il filo e di lenire il dolore, restituendo a tutti, a entrambe le famiglie, Weiss e Tamimi, i volti, le parole, soprattutto i sogni dei suoi componenti.
È nato da questi sentimenti “Le rose del vento” (Mondadori, pagg. 271, euro 18,50), secondo libro della scrittrice italo-palestinese, che oggi vive a Lubiana con il marito sloveno e i due figlioletti. Un emozionante affresco, con al centro una città, Trieste, e alcuni dei suoi grandi protagonisti, Ettore Schmitz, Edoardo Weiss, Laura Weiss, che, in linea materna, appartengono tutti alla famiglia di Widad, del nonno Carlo, del bisnonno Ottocaro, del trisnonno Ignazio, le cui radici raggiungono la Boemia.


È con lui che prende avvio la saga triestina dei Weiss. Ignazio, nato nel 1859 a Krp, un piccolo paese vicino a Praga, arriva ventenne a Trieste, accolto a braccia aperte dalla comunità israelitica. Sette anni dopo, sposato con Fortuna Jacchia, è diventato un giovane manager intraprendente e dirige una delle più importanti case di commercio d’olio della città. Ignazio non ha paura di viaggiare nel Sud investato dai briganti per procurarsi il prodotto da vendere al Nord e importa macchinari moderni dalla Germania, che sbarca a Monfalcone, dove è stata costruita una nuova ferrovia: lo stabilimento locale, superata la crisi del 1929, conta oltre quattrocento dipendenti e assorbe l’oleificio Ligure-Pugliese di Bari. Attorno a Ignazio cresce una famiglia facoltosa, ben radicata a Trieste.


Uno dei suoi figli, Ottocaro, diventa alto dirigente delle Assicurazioni Generali. Quando il fascismo epura dall’insegnamento il fratello Ernesto per “inaffidabilità”, anche lui trova spazio nello stabilimento dell’olio e vi sperimenta sul campo le idee socialiste, mentre un terzo Weiss, Edoardo, psicanalista (lo definiranno “ebreo sessuomane” negli anni del regime...), trova riparo a Roma con la moglie croata.
L’11 marzo 1923, nella sinagoga di Trieste, Ottocaro sposa Ortensia Schmitz, figlia dei viennesi Ottavio e Fritzi, e nipote di Ettore Schmitz, che diventerà noto al mondo come Italo Svevo. Nella villa di via Romagna, i figli della coppia, Piero e Carlo, ricevono un’educazione raffinata, aperta alla musica e alle lingue straniere (anche papà Ottocaro aveva studiato l’inglese con un insegnante di prestigio, un certo James Joyce...), allo sport e alla vita all’aria aperta, e cementata dal dialetto triestino, la lingua degli affetti, che Carlo porterà sempre nel cuore.


Piero Weiss con la governante, Miss Margaret, nella villa di Trieste





Carlo Weiss nel mare di Trieste

Durante le peregrinazioni e gli strappi, e anche quando, tornato dall’America, diventerà dirigente di Mediobanca a Milano, il suo sguardo rimarrà rivolto al mare della sua Trieste, dove oggi riposa nel cimitero anglicano, accanto alla moglie americana Ginny e alla figlia Claudia, mamma di Widad, entrambe morte giovani. Ginny non fu accolta nel camposanto ebraico, perchè di altra fede: e per Carlo fu un cruccio insuperabile. 
Il fascismo spazza via tutto in casa Weiss. La famiglia lascia col cuore gonfio Trieste e fa tappa a Losanna e a Londra, prima di partire, nel 1940, per gli Stati Uniti. Lungo la traversata, la chiave della villa di via Romagna, costruita al fianco di quella del direttore delle Generali, Angelo Ara, e i cui mobili trovano riparo dagli amici armatori Cosulich, viene gettata nell’oceano. La villa è occupata prima dai fascisti, poi dai nazisti, dai titini e infine dagli 
inglesi.


Piero Weiss con la governante inglese Miss Margaret
 

Edoardo Weiss, fratello di Ottocaro



A Hebron, in una casa a un’unica stanza, quattro pareti di mattoni sotto un tetto di lamiera, che divide con mamma e fratelli, Khader sogna in grande: vuole diventare medico per curare i bambini della Palestina. Lavora fin da quando aveva cinque anni, vendendo caffè ai passanti e poi, più grandicello, friggendo falafel in un negozio, ma rifiuta di essere assegnato alla scuola dei profughi. Sotto quei vestiti miseri, quei pezzetti di lana con tanti buchi intorno che gli procura l’Unrwa, l’agenzia dell’Onu per i rifugiati palestinesi, batte un cuore orgoglioso e indipendente, che gli permetterà di guardare oltre la miseria, e realizzare il sogno di venire in Italia per studiare medicina.
Nel 1967, dopo la crisi di Suez, aveva lasciato Hebron per Amman, profugo una seconda volta. Nella tasca di sua madre, Um Fadhel, c’era la chiave arrugginita di quelle quattro mura col tetto di lamiera: non l’aveva mai usata, ma andandosene, quella volta, aveva girato forte. Molti anni più tardi, al mare, al dottor Khader, pediatra, rubarono il portafoglio con carte di credito e banconote. Si disperò tanto: tra quelle carte c’era l’unica foto che conservava di Hebron, dove non tornò mai più.



Hebron

Il resto è la storia di Widad e di sua mamma Claudia che, giovanissima, uscita dal liceo “Parini” degli anni della contestazione, s’innamora del giovane medico, attivista per i diritti della Palestina, e gli dà due figlie. Lei muore a quarant’anni, ormai da tempo lontana dalla famiglia e consumata dalla depressione. Widad la rivede nella cella frigorifera dell’ospedale, ma l’urgenza di capire arriva anni dopo. «Diventai - dice - il forziere di scrigni delicati, tra i ricordi e i dolori, le gioie e i rancori, le nostalgie e le paure delle mie famiglie».



Khader Tamimi a Hebron nel 1966

Le rose del vento” è dedicato a suo padre e a suo nonno, ai bambini che sono stati. Carlo sul treno che lo strappa dal mare, deluso dall’Italia in cui aveva creduto, Khader che urla nella polvere del deserto. La nostalgia si radica nella pelle e scava, la rabbia libera i ricordi dal peso del rimpianto. Due esili differenti. Che ora si compongono in una storia corale.
twitter@boria_a

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