martedì 12 aprile 2016

 L'INTERVISTA

Paolo Graziosi a Trieste: "Koltès profetico su immigrazione e scontro di civiltà"



Paolo Graziosi si prepara con una seduta mattutina di ginnastica per il debutto di “Quai Ouest”, il testo del francese Bernard-Marie Koltès in scena dal 13 al 17 aprile 2016 al Teatro Sloveno di Trieste (www.teaterssg.com) con la regia di Paolo Magelli, spettacolo della stagione del Teatro Rossetti “dislocato” in via Petronio in virtù della collaborazione tra i due Stabili.
La produzione è del toscano Teatro Mestastasio di Prato.


Paolo Graziosi e Valentina Banci in "Quai Ouest" (foto Luca Manfrini)

«Recitiamo nel fango, dobbiamo essere un po’ equilibristi, e io ho anche una certa età. Quando abbiamo debuttato al Festival di Spoleto, nel 2014, dopo tre settimane sono stato costretto a fare fisioterapia», confessa Graziosi. In scena è Koch, borghese che ha perso fede e denaro, e cerca la morte nei pressi di un hangar, dove la luce del giorno stana un’umanità di stranieri emarginati, una fauna impegnata nella dura lotta per la sopravvivenza, senza scrupoli nè remore.

In questo scenario di solitudini e sopraffazioni, di traffici e violenze, Koltès ambienta i temi che gli sono cari: l’arroganza del ricco Occidente, la fame disperata degli ultimi, lo scontro tra due mondi. Con decenni di anticipo, il drammaturgo francese, scomparso prematuramente nell’89, prefigura la cronaca tragica di questi giorni.
Ne parliamo con Paolo Graziosi.

 
Un momento di "Quai Ouest" produzione del Teatro Metastaso di Prato per la regia di Paolo Magelli


“Approdo di ponente”, un titolo inquietante di questi tempi... «L’idea venne a Koltès durante un periodo che trascorse in America. Quest’approdo è un luogo concreto, esiste realmente e si trova a New York. Uno spazio abbandonato, un ricettacolo di tutte le malefatte del mondo attuale. In questo senso è una metafora del nostro tempo».

Chi è il suo personaggio? «Un uomo borghese che faceva parte di una società finanziaria andata incontro a un tracollo. Lui ne viene incolpato, è alla deriva, cerca un luogo dove chiudere la sua vita, dove suicidarsi. Ma non ci riesce. Solo alla fine pietosamente chiede al Negro, un personaggio misterioso, che non parla mai, di porre fine ai suoi giorni. Così il Negro diventa una sorta di giustiziere del mondo occidentale, della cultura esistente, grazie all’incitamento degli altri personaggi che invece parlano e agiscono. Improvvisamente in scena appare un kalashnikov, che viene descritto nei minimi dettagli e affidato all’africano. Come in una tragedia shakespeariana, dove tutti muoiono, sarà demandata a lui la parte finale della piéce».


Francesco Cortopassi e Mauro Malinverno (f. Luca Manfrini)

Koltès aveva visto avanti sui tempi? «Se pensiamo che il testo è stato scritto alla fine degli anni ’70, c’è qualcosa di davvero profetico. Quarant’anni fa l’autore aveva intuito che la mescolanza di culture, tradizioni, migrazioni, sarebbe stata una miscela esplosiva, al punto da scatenare il terrorismo. È questo il senso del kalashnikov, uno strumento di morte che non a caso compare al centro della scena. Parigi ne sa qualcosa».

Ginnastica a parte, che problemi le ha dato Koch? «Dal punto di vista fisico è una bella sfida, ma a suo modo è anche divertente da interpretare e da vedere. È viziato, infantile, sperduto, probabilmente anche lui è una metafora del modo in cui si sentono ora gli occidentali. La famiglia di sudamericani che vive all’approdo e che sguazza nel fango gli chiede: “Ma perchè hai pensato di venire a suicidarti proprio qui?” E lui risponde: “cercavo un posto che mi somigliasse”».



Il teatro di Koltès è attuale ma non molto frequentato dalle compagnie... «Koltès è morto giovane, a quarant’anni. Purtroppo dopo la grande esplosione tra gli anni ’70 e i ’90, soprattutto in Francia ma anche in Italia, è stato dimenticato. Ricordo di aver visto a Parigi, alla fine degli anni ’90, “La solitudine nei campi di cotone”, forse il suo testo più importante, fatto da Patrice Chéreau, con cui Koltès visse una storia artistica e amorosa molto importante. Una messinscena stupenda, con Chéreau regista e attore, nella parte del pusher».

Perchè allora è stato messo da parte? «La rimozione è dovuta al mercato teatrale. È impegnativo nei contenuti, sia dal punto di vista tecnico che interpretativo. Oggi si cerca un teatro di evasione, più “accarezzante” per lo spettatore. I testi di Koltès non vanno a favore del pubblico, che si deve impegnare, politicamente, filosoficamente, a seguirlo. È più rappresentato all’estero che in Italia».



Paolo Graziosi e Valentina Banci (f. Manfrini)

Nella balieau non c’è solo un problema di integrazione... «Ci sono tutte le difficoltà esistenziali del mondo di oggi. Qui gli immigrati sono sfruttatori, rapinatori, sopravvivono cercando di succhiare quel po’ di ricchezza che è rimasta in giro, diventano outsider. Koltès affronta tanti temi, ma lo fa anche in modo divertente. La drammaturgia è da commedia non da tragedia. Il regista Magelli ne ricava un melodramma, con le meravigliose musiche di Annecchino, che ricordano la musica sacra, come se ci fosse pietà su questo mondo sofferente, alla deriva, arrivato all’ultimo stadio della civiltà e della civilizzazione, al capolinea di quello che l’Europa e il mondo occidentale erano e sono. Per fortuna, naturalmente, la profezia non si è del tutto avverata. Il testo è davvero godibile: intanto non è lungo, il che è un pregio, e ha un suo lato comico».

Koltès profeta come Pasolini? «Pasolini lo ha certamente presente, ma è più letterario. Koltès nasce attore, regista, è un uomo da tavole di palcoscenico e la sua drammaturgia è costruita sugli attori. Per esempio: il personaggio di Cecile è stato scritto per la grande attrice Maria Casarès. Pasolini critica il teatro del suo tempo in Italia e si tiene lontano dalla drammaturgia vera e propria. Scrive testi molto colti, ma quando lo fa non sta pensando agli attori. Koltès invece crea personaggi in carne e ossa. Una volta che li hai scoperti e penetrati danno una grande soddisfazione, sono misteriosi ma anche intriganti per un attore».


E il fango in scena? «Rappresenta la deriva estrema. Dà l’idea dello sporco, della macerazione, dell’immondizia. Della precarietà come metafora della vita».
twitter@boria_a

Nessun commento:

Posta un commento