martedì 18 settembre 2012

MODA & MODI

Pancia scoperta nel tailleur del potere

Che cosa mai si poteva inventare per scardinare il "power dress", l'abito del potere femminile? Per mettere mano al tailleur, simbolo intramontabile dell'uniforme da ufficio, dell'autorevolezza e dell'efficienza, territorio interdetto alla fantasia, agli sghiribizzi dei creativi? Marc Jacobs, sulla passerella newyorkese di qualche giorno fa, dov'è sfilata la collezione per la prossima primavera, ha preso in mano le forbici e ce l'ha dimostrato: zac!, via un pezzo di gonna e imprevedibilmente la vita scende, lasciando esposte, in tutta la loro puntuta evidenza, le ossa dei fianchi. La silhouette si allunga un po' alla Olivia di Braccio di ferro, come davanti agli specchi "simpatici" dei parchi divertimento, dov'è difficile capire dov'è finito il proprio ombelico.
L'effetto sorpresa è assicurato. Immaginate di sfilarvi lo spolverino - perché se ditailleur parliamo, siamo nell'aria fresca e umidiccia di marzo o aprile - e accomodarvi al vostro tavolo con una generosa porzione di ventre in bella vista, quella regione a rischio, oggetto di bombardamenti specifici nelle palestre, che si vorrebbe tesa, levigata, uniforme, priva di crateri e avvallamenti.
«Per la prima volta da Marc Jacobs uno stilista ha premuto sul pulsante del sesso in modo convincente», ha sentenziato l'autorevole Cathy Horyn del New York Times, evidentemente convinta che far ammirare le pelvi da sotto peraltro deliziosi completini color caffelatte o bianchi e blu, sia il modo migliore per dare uno scossone al più convenzionale dei capi, sempre bistrattato (pensiamo a quelli di Melanie Griffith in "Una donna in carriera") come involucro dell'arrivismo al femminile.
Per indossarlo, però, questo nuovo tailleur "perverso", è impossibile permettersi anche un solo filo di rilassatezza, non con i sottoposti, ma coi propri addominali. Si richiede la "V line", quelle due rette perfette, quel compasso rovesciato dall'ombelico al pube che sono prerogativa naturale di bellissime come Gisele Bündchen e Cameron Diaz, e che oggi fanno tendenza nelle palestre. E anche il lato B, vuole la sua parte, non tanto con natiche rotonde, quanto con una zona lombare tonica e pronta a respingere pugnalate alle spalle, non dei colleghi ma degli spifferi.
Sotto, dunque, con palle, tappeti, spalliere, in ogni minuto libero della giornata. L'ha detto lo stesso Jacobs, sintetizzando il suo show: molto brutale, molto diretto, niente romanticismo o emozioni, solo potere, forza e semplicità. Bontà sua, le spalle imbottite ce le ha risparmiate.
twitter@boria_a
Uno dei tailleur di Marc Jacobs per la primavera-estate 2013

lunedì 10 settembre 2012

IL LIBRO

E il Vate, precoce stilista, ordina a Lalla: "Devi vestirti sempre di nero"


 Giselda Zucconi, diciassettenne, nel 1881

Disinibite, raffinate, inguantate in calze di seta finissima e con la collana ombelicale, eteree apparizioni in una nuvola di Chanel n.5. Le sue "belle di notte", le ospiti del Vittoriale, Gabriele d'Annunzio le voleva così, nella divisa d'ordinanza del piacere. Non si limitava a guardarle e a goderne, come più modesti epigoni dei giorni nostri, permettendo che venissero ammesse nelle sue stanze in straccetti qualsiasi, purchè sbarluccicanti. Per loro, il Vate diventava stilista, griffando con "Gabriel Nuntius Vestiarius fecit" audaci e modernissime "vesti magiche", abiti da sera e deshabillés, trasparenti, percorse da rushes e fili metallici, nere o nei colori pastello.


Sulle donne, e come gli piacevano abbigliate, d'Annunzio aveva le idee chiare fin da giovanissimo. Una fantasia ancora lontana dalle future iperboli, ma già sicura nella grammatica dei colori e nello stile. Lo sperimentò, per prima, la fidanzatina del Vate adolescente, Lalla, al secolo Giselda Zucconi, "strana bimba dagli occhioni erranti come il mare". Sarebbe diventata la nonna del vecchio leone della Lista per Trieste Gianfranco Gambassini, che la ricorda, insieme alla sua precoce e impegnativa love story, in "D'Annunzio avrebbe potuto essere mio nonno" (Archeografo triestino, 1998).
Lalla, ispiratrice del "Canto Novo", è la grande passione del poeta diciottenne. Il padre di lei, Tito, insegnante al liceo Cicognini di Prato, invita a casa il suo allievo più brillante. È il 15 aprile 1881: una passeggiata pomeridiana lungo il Mugnone fa da cornice al colpo di fulmine.


Pelle di crema, capelli folti, diciassettenne già profondamente "dannunziana". «Mia bella bambina pallida e sofferente» le scrive Gabriele in una delle quattrocento lettere che i due ragazzi si scambiano, fino al 31 gennaio 1882, quando il carteggio si chiude e lui sarà risucchiato da braccia ben più esperte. Lalla gli piace evanescente, ma sull'abbigliamento non ammette colpi di testa e di colore: deve portare il nero. E in un'altra lettera le suggerisce, con tono imperioso: «Tu vuoi sapere come m'è parso il ritratto... Mi sarebbe piaciuto che tu non ti fossi messo quel ricciolo bianco intorno al collo. Io, vedrai, quando sarai mia, ti farà ammattire; penso già come dovrai andar vestita, ti piaccia o non ti piaccia. Detesto, detesto, detesto, il chiaro in una donna, e in una donna poi come te. Se tu sapessi com'è divino il tuo pallore su'l fondo cupo! Vedrai insomma: ti farò io il figurino, un figurino co' fiocchi, e ti garantisco che dopo un mese molte signore ti imiteranno».


Lalla cede, davanti a quel giovanottino, all'epoca neanche tanto curato - quando peregrinava per le redazioni indossava sempre una giacchetta scura, a volte senza nemmeno la cravatta, ricorda il giornalista Edoardo Scarfoglio - ma con un modello femminile ben disegnato in testa. Pochi giorni dopo sarà lui stesso a intervenire nel guardaroba dell'amata e la ringrazierà, in una lettera del 23 maggio, "per il pensiero gentile che hai avuto nel dirmi che scelga io la stoffa del tuo vestito". Un mese più tardi le scrive ancora, facendole notare gli svarioni cromatici delle altre, annotati durante una passeggiata a Prato, che le fanno assomigliare a uccelli mimetici: «Le donne pratesi nel loro vestire preferiscono generalmente le tinte gialle cromes e le verdi sgargianti. Sono antipaticissime. Figurati una Signora coperta di giallo e di verde come un rigogolo! Oibò!!!«


Del Vate arbiter elegantiarum, cronista mondano e couturier racconta Paola Sorge nella monografia "Gabriele d'Annunzio padre dello stile italiano" (Silvana Editoriale, pagg. 117, euro 22,00), primo volumetto di una serie dedicata al poeta e al Vittoriale, che raccoglie gli atti del convegno svoltosi l'8 luglio 2011 in occasione della mostra, con lo stesso titolo, allestita all'Aurum di Pescara. 



Gabriele d'Annunzio sulla copertina del primo volume de "L'Officina del Vittoriale"
 

Quarant'anni dopo le prime missive, una lettera all'amante Ines Pradella, modella del pittore Cadorin, scritta nel febbraio 1930, sembra il "remake" di quelle indirizzate a Lalla, e ci restituisce la stessa indomita volontà di plagiare esteticamente le sue favorite: «Ti prego di mettere il vestito grigio e non quello dell'altra sera che è orribile e che non voglio più vedere. Non comprare vestiti: ti darò io quelli che ti si addicono, quelli che mettono in rilievo la tua bella persona».

E sui regali d'Annunzio non lesina (e spesso non paga, "ardens avaritia"). Vestiti, pellicce, i gioielli di Buccellati (che ribattezza "Mastro Paragon Coppella"), scialli, calze, borse e le scarpe pregiatissime di Adolfo Quinté di Milano, cui affida i "piedini meritevoli di essere ben calzati" di Ester Pizzutti, una delle belle provincialotte che voleva trasformare in donne sofisticate.


In quegli stessi anni, Biki - al secolo Elvira Leonardi Bouyeure - inizia la sua carriera di stilista con una ditta di biancheria intima di lusso, in via del Senato 8 a Milano, una vera novità per l'Italia. Il Vate - che lei ha conosciuto da bambina nella villa di Viareggio del nonno, Giacomo Puccini - la chiama "domina", signora, ma anche "dominatrice" dei gusti delle signore, e le chiede elaborate camicie da notte nei colori delle pietre dure che provvede a inviarle. Grazie al poeta, o meglio, al brillante giornalista mondano che esalta le toilette femminili, all'uomo di mondo conteso dai salotti, Biki entra nel mondo dell'alta moda e veste aristocratiche come Edda Ciano e le dive dell'epoca Alida Valli, Isa Miranda e Doris Durante.


Ma lui non si limita a descrivere ed esaltare. Disegna i modelli, modifica, dipinge "con mano volante" la seta per gli abiti, che poi ordina alla maison Paul Andrée Léonard, fornitrice di stoffe francesi in tutta Italia, indicando maniacalmente le tonalità che desidera, oggi diremmo le "sfumature". In mostra a Pescara erano esposti nove modelli di alta sartoria confezionati per Luisa Baccara, di cui uno estivo nei colori fiumani rosso e azzurro e a "disegni fiammeggianti", gli stessi utilizzati per i "quadrati magici", foulard con impressi i suoi motti di guerra.


Siamo nel 1930 e il Vittoriale è un autentico laboratorio "di sarte e modiste". Molti anche gli atelier di prestigio che riforniscono la villa, Maria Testa di Milano, sua sorella Emilia, Marta Palmer, di cui d'Annunzio è affezionato cliente fin dal 1919 e a cui si devono preziose e costose "mise" dai nomi evocativi: Cleopatra, Mio Capriccio, Orient Express, Villa Fiorita. Non altrettanto affezionato, il poeta, nel pagamento dei conti, almeno fino al 1925, quando una lettera dell'avvocato della Palmer gli intima di saldare subito 42.505,60 lire. Un mantello verde ricamato con collo di pelliccia costava 2.600 lire. È il "mantello d'autunno" che d'Annunzio manda alla Baccara nel 1924, mentre la pianista soggiorna all'hotel Cristallo di Cortina. I debiti possono aspettare, piuttosto è urgente soccorrere il gusto dell'amante: «Venturi scrisse ad Aélis di averti veduta in piazza e d'averti trovata "non elegante". Ti mando altre 5000 lire per provvedere all'eleganza».
twitter@boria_a

 Luisa Baccara nel giardino del Vittoriale

martedì 4 settembre 2012

MODA & MODI


Il rosso di Ann è anti-Michelle

Ha scelto il rosso Ann Romney per la convention repubblicana di Tampa, la sua prima grande apparizione mediatica al fianco del marito, sfidante di Obama per la Casa Bianca. Rosso pompiere, rosso sfrontato, rosso asseverativo. C'è da sostenere la fiducia che i maschi conservatori ripongono nel suo Mitt, ma soprattutto c'è da scaldare l'ancora poco tonico elettorato femminile, che giocherà un ruolo forte nel rush finale. Forte come quell'abito di taffetà di seta, cintura in vita e scollo a V, con cui sottolinea, evidenzia, assevera appunto, il suo messaggio: sono sua moglie da quaranta e passa anni, abbiamo cinque figli maschi tutti qui in prima fila con le loro belle mogli, sto combattendo due malattie tremende, mortali. In una parola: non sono una multimiliardaria annoiata che aspira a un fotoshooting nella stanza ovale, ma una moglie e mamma con gli stessi vostri problemi (sottaciuto: e molte più possibilità di risolverli) e porterò a Washington la solidità, unità e positività da cui è cementata la mia vita personale.

Tutto? Macchè. Quell'abito rosso vuol dire molto di più. È un Oscar della Renta, stilista abituato a frequentare da tempo i guardaroba delle first lady americane, amato da Laura Bush, Nancy Reagan e da Hillary Clinton, che lo scelse anche per il matrimonio della figlia Chelsea. Michelle, invece, non lo ha mai indossato, con suo grande scorno, bypassandolo per il figlio Moses. Fu Oscar de la Renta a criticarla pesantemente, salvo poi correggere ed edulcorare, quando gli preferì la zampata del drago, il rosso (e nero) di Alexander McQueen per la cena di Stato con il presidente cinese Hu Jintao. Oscar, piccato, sentenziò che sarebbe stato compito della first lady promuovere nello sterminato paese dei nuovi ricchi, gli stilisti americani. E non si risparmiò, nemmeno quando Michelle entrò in cardigan dalla regina Elisabetta: inappropriato.


Ora, sul palcoscenico della Florida, è il momento della riscossa. Seppure non entusiasmante, quel vestito della precollezione autunno-inverno - che, secondo stime comparate, oscilla tra i 2,5 e i 5 mila euro - è l'affermazione di un'identità e di una differenza. Anche Michelle fece una scelta cromatica dirompente, il viola di Maria Pinto, il giorno in cui il marito accettò l'investitura dei democratici. Ann rilancia: a entrambe piacciono i colori accesi, ma li riempiamo di contenuti diversi. I blogger si scatenano: i Romney mettono il sovrappiù della loro fortuna nei paradisi fiscali caraibici, Oscar de la Renta viene da Santo Domingo. Sono coerenti, tutto offshore.


twitter@boria _a
Ann Romney nel suo Oscar de la Renta rosso fuoco

IL LIBRO

Widad Tamimi e il caffè delle donne


Widad Tamimi
Al rito del caffè è legato un giorno importante nella vita della piccola Qamar: imparare a prepararlo con l'ibriq, il pentolino dal becco lungo dove viene fatto bollire e schiumare, profumandolo col cardamomo, significa diventare donna, abbandonare l'adolescenza ed essere ammessa nel consesso femminile di nonna, zie, cugine, vicine di casa, dove tra confidenze e iniziazioni, ogni giorno, a una prescelta, viene letto il futuro nei fondi che si depositano nella tazzina. È l'estate dei suoi quattordici anni, in Giordania, in casa della famiglia del padre, l'ultima che Qamar ricorderà con la spensieratezza dell'infanzia e la prima da giovane donna innamorata, quando scoprirà con tormento quanto diverse siano le culture di cui è figlia. Per riconciliarle, la protagonista compie un lungo viaggio di ritorno, al termine del quale anche il futuro letto nella tazzina, da cui è fuggita molti anni prima, trova una sua composizione.

 Esce "Il caffè delle donne" (Mondadori, pagg. 300, euro 17,50), il libro di esordio di Widad Tamimi, scrittrice trentaduenne figlia di un profugo palestinese e di un'ebrea di origini triestine, la cui famiglia scappò a New York durante la seconda guerra mondiale.Widad e Qamar sono la stessa persona? O quanto dell'una c'è nell'altra?
«Non c'è personaggio di un libro che non sia in parte specchio del proprio autore, credo. Widad è in ognuno dei personaggi, ma poi forse in nessuno, perché a un certo punto bisogna lasciarli andare, far sì che camminino da soli. Forse potrebbe essere appropriato dire che l'autore è genitore, più che sosia dei propri personaggi. D'altra parte tutti si chiedono cosa sia vero e cosa no nella scrittura di chi ci narra una storia. Addirittura mio padre mi ha chiamata al telefono per chiedermi tutto allarmato se abbia veramente rubato la macchina di mio cugino a dodici anni. Ho riso, e gli ho risposto che non lo saprà mai».

Lei si è mai fatta leggere il futuro nei fondi della tazzina del caffè? «Naturalmente! Sono una curiosa nata».

E si è spaventata come la protagonista del libro? «No, spaventata no, ma sono sempre stata molto scettica. Poi ho capito: non si tratta di stregoneria o lettura del futuro con la sfera magica. La lettura è soprattutto un dialogo, uno scambio e una condivisione, tra donne più giovani e donne più anziane, con più esperienza, più sagge. E quando ho finalmente messo a fuoco la natura di questo rito, ho capito quanto mi manchi questo aspetto della vita nella società in cui sono cresciuta. Quando mai ci sediamo con le nostre zie, cugine e nonne a chiacchierare della vita, dei dispiaceri, dei sogni, delle aspettative e delle delusioni?».

Nel suo libro, il rito del caffè scandisce la vita delle donne: l'ingresso nell'età adulta, la preparazione al matrimonio, la condivisione dei segreti. Lei l'ha vissuto e lo vive ancora così? «I caffè scandiscono la giornata di molti di noi. A me piace sedermi, avere una tazza di caffè gigante, riposare i pensieri o lasciarli andare. In questo senso il caffè segna dei passaggi, perché non c'è giorno in cui non ce ne sia uno, di passaggio».

Il caffè regala anche l'unica vera scena d'amore, quella in cui Qamar lo prepara col cugino Yusef. I due sono all'aria aperta, ma è tutto molto intimo e segreto... «Nonostante le proibizioni culturali, non c'è parte di mondo in cui due giovani innamorati non riescano a rubare l'intimità per incontrarsi, e sognare. E quando l'amore è così difficile da raggiungere, quando ogni attimo insieme alla persona amata è così difficile da conquistare, diventa persino più emozionante, più intenso». 

Anche lei, come la protagonista, racchiude in sè diverse culture e identità: la palestinese, l'ebrea, l'italiana, la slovena per matrimonio...Come le ha composte? «Per la verità faccio fatica a scomporle. Non so cosa ci sia di italiano, cosa di arabo e cosa di ebreo in me. So per certo che c'è posto per tutte queste identità, e molte altre, in ognuno di noi. Così come c'è posto in ognuno di noi per amare all'infinto. È più facile e bello vivere con tante identità, che coltivarne e coccolarne una sola. Ora che abito in Slovenia e che ascolto le prime parole dei miei figli in una lingua che capisco poco, mi si riempie il cuore di gioia, perché sento che la tradizione continua, le identità si moltiplicano e ai miei bambini sto offrendo un mondo ancora più ampio del mio». 

E c'è mai un momento in cui una di queste identità si impone, magari conflittualmente, sulle altre?«In famiglia hanno sempre detto che ho la testa dura. Da bambina mio padre diceva che è tipica hebbronese, mio nonno che è ebrea. A mio figlio, che ha ereditato la determinazione che ora mi si ritorce contro in ogni capriccio ostinato con cui mi sfida, diranno che ha la testa di un vero sloveno. Insomma, chi sa dirlo quale si impone?».

A un certo punto del libro, quando l'adulta Qamar presenta il marito Giacomo alla nonna, l'anziana gli offre il caffè nel bicchiere e loro due ricordano il "capo in B" bevuto a Trieste...
«Mio nonno materno è nato in una benestante famiglia ebrea triestina, nipote, fra l'altro, di Italo Svevo. Purtroppo, però, nel 1938 la famiglia fu costretta a lasciare l'Italia a causa delle leggi razziali e nel 1940 si stabilì negli Stati Uniti. Mio nonno era legatissimo alla sua città natale e io oggi sono felice di essermici avvicinata. Il nonno amava raccontare barzellette in triestino ed era divertente sentirlo prununciare "coccola", in quel modo tipico...».

Lei lo dice nella postfazione: il libro è nato da un dolore privato, da una perdita. In quel momento, andare alla ricerca delle sue origini è stata una consolazione?«Inizialmente ho pensato che la scrittura mi avrebbe aiutata a rielaborare una vicenda personale, poi ho scoperto che mi portava più lontano, che mi offriva molto di più. Forse per Qamar la ricerca delle origini era importante, ma Widad le origini non le ha mai del tutto cercate. Le lascio vivere, coesistere. La vera emozione è stato lasciar fluire i ricordi dell'infanzia, gli odori, i colori, e accorgermi di come sia possibile non crescere mai, non invecchiare, perché ci sono sensazioni che rimangono appiccicate per sempre, e per sempre suscitano emozioni enormi, fortissime. Certo, il Medio Oriente mi manca in questo periodo, ma la scrittura mi ha permesso di viverlo, sentirlo più vicino».

Multiculturale è una parola di cui spesso si abusa. Che cosa significa? «Essere liberi, soprattutto. Significa accogliere, invece che temere. Significa essere curiosi. Significa essere più ricchi».

C'è un'altra storia che sta maturando? «Eccome, è da tanto tempo che penso a un altro progetto. Ed è proprio da Trieste che comincerà la prossima storia. La mia è una famiglia di esuli: sia da parte materna che da parte paterna ha vissuto la difficile esperienza dell'esilio e, nonostante si tratti di momenti storici e luoghi completamente diversi, queste esperienze si intrecciano profondamente. Vorrei raccontare di questo: della sofferenza di un bambino che è costretto a lasciare i luoghi della sua infanzia, a scappare, sognando la terra natale senza capire perchè abbia dovuto abbandonarla. Mio nonno ha conservato nel cuore il sogno di Trieste per tutta la vita ed è lì che ha chiesto di riposare, perchè non c'è luogo al mondo che abbia amato di più…».
twitter@boria_a