lunedì 26 marzo 2018

MODA & MODI

Frida vampirizzata dalla passerella 




Che cosa avrebbe detto Frida Kahlo di essere definita la it-girl della moda 2018? Lei, trasgressiva e anticonformista, potentemente unica, vorrebbe essere imitata, interpretata, declinata in tante variazioni di se stessa e del suo stile, serializzata? Sembra un esercizio di ipocrisia la censura di Salma Hayek, che Frida interpretò in un biopic del 2002, contro la Mattel, colpevole di aver “Barbiezzato” la pittrice, commercializzando per la festa della donna una versione ispirata all’artista della sua celebre bambolina dalle misure perfette, dimenticando che Frida, per malattia e incidenti, aveva una protesi e un busto che le compattava il corpo. Ma Barbie, a dispetto di quelle misure da manuale, ha insegnato alle bambine a essere “ribelli” prima che diventasse scontato, e un pizzico dello spirito battagliero di Frida glielo si può anche concedere.

Sulle passerelle, invece, è tutt’altra storia. Un’accozzaglia di colori, un profluvio di volant, cuori e sangallo, le coroncine di fiori diventate catafalchi sopra la testa, spruzzate di ricami e motivi etnici ovunque, un gioco di sovrapposizioni che di Frida Kahlo tradisce lo spirito più autentico: il senso della misura, l’equilibrio cromatico anche dove le tinte sono più gridate. La differenza è abissale tra l’indossare un costume con spirito identitario (per la pittrice quelli matriarcali della zona di Tehuantepec in Messico) e riprodurre un costume, aggiungendovi quel tanto di sbrilluccichio necessario per salire in passerella.


Frida l’icona, al pari di Jackie, Audrey, Marilyn, è tutta nella foto in bianco e nero che Lucienne Bloch le scattò nel 1931 al Barbizon Plaza Hotel a New York: la camicia bianca con lo scollo quadrato e la manica corta a volant, la gonna nera, la collana d'impatto che indoviniamo colorata, i capelli raccolti, spartiti dalla riga. Alle spalle, appeso alla parete, il suo ritratto identico. C’è tutto in quell’immagine: capi e accessori normali, che, insieme, definiscono uno stile autorevole, senza sbavature.


Dalle icone alla strada il passo però è lungo. E bisognerà lavorare di sottrazione sulle proposte che già circolano: gonne a balze, fiorelloni, un certo folk griffato o da fast fashion, entrambi prossimi all’effetto caricatura. In attesa di vedere al V&A di Londra i capi di Frida mai usciti dal Messico nella mostra “Making Her Self Up”, dal 18 giugno. Il guardaroba più intimo, quello che per cinquant’anni è rimasto chiuso a chiave nella sua casa, al sicuro dalle vampirizzazioni della moda.

@boria_a

sabato 17 marzo 2018

IL LIBRO

 L'orario mortale dei treni



 

Quattro minuti. In cui, tra un treno appena partito e uno in arrivo, dal binario tredici della stazione di Tokyo si ha la visuale libera sul binario quindici e si può notare una coppia in procinto di salire su una carrozza. Quattro minuti, una finestra temporale strettissima che incornicia quell’uomo e quella donna in partenza, uno accanto all’altra, mentre si parlano confidenzialmente. Sono forse amanti?, è la supposizione più semplice che fanno le colleghe di lei, Otoki, giovane intrattenitrice di clienti in un locale. Ma quando, pochi giorni dopo, Otoki e il suo accompagnatore, che si scoprirà essere Sayama, funzionario di un ministero al centro di un grande scandalo, verranno trovati morti su un promotorio roccioso della baia di Kashii, stesi vicini nel vento gelido, le guance arrossate da ingestione di cianuro, quei quattro minuti diventeranno importantissimi per la seconda, immediata supposizione: Otoki e Sayama, si sono suicidati insieme. Lui per paura di essere coinvolto nell’inchiesta, lei per amore di lui: corruzione e passione, un caso facile da liquidare.

Ma è davvero così? Perchè al vecchio investigatore
Torigai Jūtarō, qualcosa non torna: se tanto si amavano e sono andati a darsi la morte insieme, perchè lo scontrino del vagone ristorante segna un pasto solo? Otoki non ha preso nemmeno un caffè per stare vicina fino all’ultimo al suo uomo? È scesa prima dal treno?
Parte da qui, dall’intuizione di un segugio prossimo alla pensione e con le scarpe scalcagnate, al quale si affianca il più giovane Mihara Kiichi, un’indagine che trascina il lettore in una ricostruzione appassionante, meticolosa, sul filo dell’ossessione. “Tokyo Express” scritto nel 1958, il libro più celebrato di Matsumoto
Seichō (Adelphi, pagg. 175, euro 17,00), autore di centinaia di romanzi e racconti, ci porta da un capo all’altro del Giappone, in una direzione e poi nel suo inverso, nel tentativo di seguire la coppia nell’ultima settimana di vita.


Matsumoto Seichō


Minuti, orari, coincidenze di mezzi di trasporto. Treni che spaccano il minuto e che permettono di ricostruire movimenti o di confezionarsi alibi, controllori che ricordano visi e fisionomie, collocando una persona in un posto e in un’ora molto prima delle celle telefoniche, titoli di viaggio che s’incastrano permettendo di procedere a ritroso nella storia di quei due cadaveri o che, al contrario, se sballano anche di poco, rimandano alla casella di partenza. Un’inchiesta che è un lento avvilupparsi in un mondo scandito da codici e regole, modellato su perseveranza e precisione, sia nell’architettare il male che nello smontarlo, rimanendone al tempo stesso affascinati e straniti.


C’è quasi da perderci la testa in quegli orari dei treni. Seicho fa del tempo un protagonista incombente su tutta la vicenda e la chiave per districarla. Proprio a partire da quei quattro minuti iniziali tra un convoglio e l’altro, quando è Yasuda Tatsuo, proprietario di un’azienda di macchinari industriali in affari col ministero corrotto, a notare Otoki due binari più in là e a segnalare la presenza della giovane intrattenitrice alle sue colleghe, che quel giorno l’avevano accompagnato in stazione. L’uomo deve prendere il treno diretto a Kamakura, dove risiede la moglie. «Ehi, ma quella non è Otoki?»: l’imprenditore la conosce bene, con lei si accompagna spesso nel locale.


La perfetta gestione del tempo può diventare un diabolico mezzo per uccidere. O scatenare la fantasia di chi ha spazi di mobilità ridotti e nei viaggi degli altri trasferisce i suoi, che mai compirà. Immaginiamo una donna, costretta a letto, che su coincidenze, tabelle, scambi nutre la sua mente, che anima quei numeri piccoli e grigi, trasformandoli in luoghi, popolandoli di gente che sale e scende dai vagoni, di treni obbligati a incrociarsi e di persone che invece si incrociano solo per caso. Il controllo del tempo, proprio e degli altri, è un’arma letale, sia esso un esercizio di logistica o una fantasia.


Quando poi, in queste geometrie rigide, entrano passione e gelosia e i sentimenti perdono il controllo, il deragliamento della mente è totale. Dietro quell’apparente, duplice suicidio c’è un’architettura criminale perfetta, un piano crudele ed elegante che Matsumoto
Seichō, il Simenon giapponese, padroneggia con una maestria che lascia sbalorditi.
@boria_a

martedì 13 marzo 2018

MODA & MODI

Parole e figurini, gioiello da sfogliare






Solo noi e i vermi, riflette Giovanni Comisso, tra tutti gli esseri viventi, siamo stati privati di un abbigliamento stupendo ed eterno, e la moda, «pur nella sua fuggevole bellezza», rappresenta la nostra vendetta. Orio Vergani spezza la rigidità della catalogazione dei vestiti per le stagioni o le ore, e sogna l’abito della “melanconia senza perchè”, della “cara e irragionevole ora felice”, del primo palpito sentimentale, della gelosia e della riappacificazione, abbandonandosi a immaginare quante differenti sfumature avrebbe un tailleur con tutte le oscillazioni dell’animo femminile. Per Montanelli la moda è come la jettatura per Eduardo: “Io non ci credo, ma c’è”.

Sono pillole degli scritti d’autore raccolti in un gioiello artistico-letterario delle edizioni Henry Beyle, “Che cos’è la moda”, un librino rosa, o malva, o rosso, tirato in cinquecento copie (27 euro). Gli otto testi, firmati anche da Irene Brin, Dino Buzzati, Achille Campanile, Camilla Cederna, Indro Montanelli e Salvatore Quasimodo, e l’articolo di Flaiano (pubblicato in Frasario essenziale per passare inosservati in società, Bompiani) facevano parte di una selezione più ampia, di ventiquattro scrittori, che la Galleria Gian Ferrari di Milano e la Laneria Tiziano avevano inserito nel catalogo di un concorso pittorico riservato all’immagine femminile, nel 1951.


Intervallati ai testi ci sono i figurini (non stampati ma applicati a mano sulle pagine, con un lavoro “sartoriale”) tratti dal Journal des Dames et des Modes, edito a Parigi tra il giugno 1912 e l’aprile 1914: stupende silhouette di signore, con una sola intromissione maschile, sono un catalogo in miniatura, tra il poetico e l’ironico, della moda prima della tragedia della guerra: la veste ariosa e plissettata per i giochi all’aperto, l’abito lungo bianco con giacca rossa per il tennis, il tailleur alla Paul Poiret, morbido e scivolato, per le occasioni diurne fuori casa, da abbinare al cappello ornato di piume, i calzari con la lunga fila di bottoni, la veste leggera dal taglio impero per casa, una maliziosa arlecchina, con la gonna che sfiora il ginocchio, le prime caviglie a vista e i primi capelli a virgola sulla guance, ad anticipare il taglio alla garçonne...


E se un acido Ennio Flaiano confessa di sospettare che le donne “ben vestite” non abbiano altro da offrire e che le troppo accessoriate siano le più insicure, un’insolitamente lieve Camilla Cederna scrive che le donne sono giovani finchè, ordinandosi un vestito, pensano a cosa ne dirà l’uomo che le ama, perchè se su un abito
si appuntano come spilli solo avidi occhi femminili, ne risulterà sciupato, immeschinito, e la donna che vi è dentro è vecchia di colpo”.
@boria_a

lunedì 5 marzo 2018

IL LIBRO

I quattro amici di Calligarich
storia di tori e di spettacolo


Tutto nasce dal rapimento di un toro, Short Horn, campione argentino della monta, dall’iperbolico valore di dieci milioni di euro. È il piano folle ideato da quattro amici di un paesino disperso nelle brume del Po, decisi a dare una svolta alla loro vita. Ma sequestrare un toro e tenerlo incastrato tra due letti in una camera d’albergo si rivela operazione più complicata del previsto. Non solo perchè il potente odore e le funzioni fisiologiche, dalle dimensioni e l’irruenza proporzionate alla stazza, rendono impossibile celare l’animale, ma perchè un quinto incomodo pretende di entrare nell’affare. E con una richiesta ben precisa: non una parte del riscatto, ma un thermos di sperma del campione, da convertire subito in denaro senza il rischio di essere pizzicato con l’ostaggio e finire in galera. Accantonata l’idea di spacciare il proprio per il preziosissimo seme di Short Horn, ai sequestratori non resta che una soluzione: scegliere il malcapitato che, munito di guanti di lattice, espleterà la delicata manipolazione.


Gianfranco Calligarich


Comincia con questa impresa esilarante e surreale “Quattro uomini in fuga”, il nuovo libro di Gianfranco Calligarich, scrittore nato ad Asmara da una famiglia di origine triestina, che esce il 7 marzo 2018 con Bompiani (pagg. 300, euro 19,00). È solo la prima di una serie di picaresche avventure che porteranno i quattro protagonisti della storia - Casablanca, Paolo, Sauro ed Elio - dalle deprimenti nebbie padane a Roma, dove finiranno a gestire un teatro molto off sopra una fontana del Seicento, tra attori improbabili e inevitabilmente gay, primedonne anoressiche e miracolosi benefattori, amori, tradimenti e tanti debiti.





A meno di due anni dall’uscita de “La malinconia dei Crusich” (2016), sulle vicende intrise di Mitteleuropa della sua cosmopolita famiglia lungo tutto il Novecento, con quest’opera Calligarich torna alla verve e in parte al linguaggio fulminante e ironico del primo libro, “Posta prioritaria” (2003), una raccolta di irresistibili simil-segnalazioni del Piccolo.


Dichiarata una nota autobiografica: lui stesso, infatti, è stato il fondatore del Teatro XX Secolo dentro il Fontanone del Gianicolo, collocazione che “ispira” quella dello strampalato teatrino (con grande vista sulla Capitale) dei quattro amici di questa storia. Anche la dedica del libro ci riporta a una venatura di affettuoso amarcord: «A Nicola e a tutti gli ancora presenti o ormai assenti compagni di un tratto di vita trascinante. Con affetto, nostalgia e opportuna irrisione del passare del tempo».

Il cronista delle avventure dei quattro è Casablanca, dal titolo del film che proiettava spesso nel suo cineclub e di cui, altrettanto spesso, era spettatore unico. C’è poi Paolo, figlio del più ricco allevatore della zona, con una marcata somiglianza al mascellone da gangster dell’attore Jack Palance; e ancora Sauro, decoratore di ceramiche dalla sessualità così ecumenica da far innamorare donne, uomini e animali (e in quest’ultima categoria, com’è immaginabile, un possente cuore respinto può causare tanti guai); infine il nanerottolo Elio, con quindici anni in più degli altri e una moglie da cui sogna la deportazione. Tutti, insomma, sono già in fuga ancor prima di partire.


Quale miglior propellente, allora, che un doppio amore non corrisposto, o corrisposto in coabitazione con altri? Quello di Short Horn per Sauro finirà, letteralmente, in fumo, come i piani degli improvvisati rapitori. Ma quello di Paolo per la fatalona cantante Samanta Cantavento, una mantide di provincia dal repertorio triste, dopo appena qualche notte gli farà convertire la fiammante Ferrari in una più democratica Fiesta con cui far rotta verso Roma e le luci della ribalta. Un sogno che si avvera nel teatro affittato sopra la fontana, chiamato pomposamente Stanislavsij, dove i nostri, con altri pittoreschi innesti, metteranno in scena grandi film americani, a cominciare da Scarface.


Calligarich, pluripremiato autore di teatro e di celebri sceneggiati televisivi (da Storia di Anna a Piccolo mondo antico), questa volta firma una irriverente e popolosa commedia umana, dove l’autobiografia, opportunamente esasperata e resa irriconoscibile, diventa fotografia del mondo dello spettacolo alternativo, con i suoi vizi e vezzi, gli amori e gli odi plateali che durano un pugno di secondi, la perenne bolletta, i biglietti omaggio prima sdegnosamente rifiutati e poi regalati a pioggia pur di riempire qualche fila, la ricerca di uno sponsor (che per un teatro dentro una fontana potrebbe anche essere un produttore di sanitari con stabilimento sul Raccordo anulare...). Fino all’incredibile incontro con un malinconico mecenate, industriale dell’acciaio innamorato dei film americani, che finanzia l’impresa dei quattro. Almeno finchè un amore più potente non dirigerà altrove i suoi favori.
Il romanzo è la perfetta sceneggiatura di una fiction a puntate, dove per macchiette e caratteri, come l’Algida Milanese o l’improbabile attrice friulana Lola Montez, Madame Veuve Clicquot e il misterioso N.N., ogni lettore già immagina l’interprete più calzante. Sulla carta, la vena comica, dopo un attacco folgorante, finisce per diventare un gioco scoperto e, lungo trecento pagine, inevitabilmente si estingue.


Resta però inconfondibile (per chi ama Calligarich dal suo libro d’esordio “L’ultima estate in città”, Premio Inedito ’73, diventato un cult) la capacità dell’autore di evocare, con malinconia impercettibile ma impastata in ogni pagina, una stagione tumultuosa di sogni e azzardi, di sconsideratezze e fallimenti. Quando qualsiasi avventura, per quanto folle, con i giusti compagni di strada sembrava a portata di mano. «Non ho più niente da dire - scrive Casablanca - tranne il fatto che qui, guardando il Tevere e pensando a N.N. e al nostro teatro, mi viene in mente sempre la stessa idea. Che sia per Short Horn che per il teatro eravamo andati a caccia di Moby Dick. Paolo come il capitano Achab ed Elio Sauro e io a formare la ciurma del Pequod».


L’Ismaele di Moby Dick guardava gli spazi sconfinati del mare quando sentiva vuota la vita, Casablanca butta giù un diario del passato per scacciare lo stesso avvilimento. Senza l’epica del quando eravamo ggiovani, ma con un disincanto dolente, a volte mascherato di cinismo, che è il registro più autentico dell’autore.

@boria_a