martedì 27 dicembre 2022

MODA & MODI

Con "Emily in Paris", senza rimorsi

sull'orlo del kitsch

 


 
 

Nei pomeriggi postprandiali delle feste non c’è niente di malsano nell’abbandonarsi alla maratona Netflix della terza stagione di “Emily in Paris”. Inutile negare: poche, forse nessuna, possono dire di non averne mai sentito parlare, di non aver letto almeno un articolo o visto un trailer sull’entusiasta giovane americana, traboccante sorrisi e positività, che da Chicago vola a Parigi per occuparsi di pubbliche relazioni ad alto livello e rimane catturata dall’ineffabile allure d’oltralpe.

La storia non impegna i neuroni e non palpitiamo nemmeno un attimo per le traversie sentimentali e lavorative della protagonista, combattuta tra due uomini e due agenzie ugualmente glamour. La forza perversa, che vince ogni ragionevole resistenza alla suprema stupidità dell’intreccio, è il guardaroba di Emily, un caleidoscopio pirotecnico che cattura e trascina al binge-watching, alle puntate guardate senza sosta, solo per vedere come si vestirà da un episodio all’altro.

“Pomeriggio di Natale? C’è Emily in Paris”. L’affermazione di una giovane collega, di solito impegnata su temi più cerebrali, emessa candidamente e senza tema di giudizio, mi conforta: Emily non è un problema solo mio, che appartengo alla generazione suo malgrado un po’ orfana di Sex and The City. Emily è magra e attraente come Carrie, lavora in un ambiente diciamo affine (soprattutto quando si parla di “luxury”, dove il confine tra giornalismo e mera pubblicità è sempre fluido), e i suoi outfit nella serie sono creati da Marylin Fitoussi, nelle prime due stagioni assistente di Patricia Field, proprio la costumista geniale di Sex and The City.

E come Carrie, che viveva nel cuore chic di Manhattan scrivendo una rubrica, anche Emily riesce incredibilmente a disporre di un guardaroba sopraffino di pezzi firmati, vintage, di tendenza con lo stipendio da assistente in un’agenzia di comunicazione in una delle capitali più care della vecchia Europa. Bocciata senza pietà dalla critica per essere lo stereotipo dell’americana che cerca di imitare l’impalpabile eleganza francese, in questa nuova serie Emily ha imparato qualche parola della lingua ma non l’arte del “less is more” di Chanel (anzi, di Chanel le piace piuttosto “il lusso è una necessità che inizia quando la necessità finisce”).

Così siamo risucchiate con lei tra feste, bistrot, ristoranti stellati in stivaloni colorati e mini metallizzate, cappe bordate di piume e platform, top minimali e cappellini a secchiello, pois e stampe Vichy, in un luna park di colori e fantasie accostati senza pudore: viola, verdi, arancioni, rosa e gialli. L’attrice Lily Collins ha dichiarato in un’intervista che probabilmente la sua Emily molti capi e accessori li affitta, come fanno le griffe-aholic della Generazione Z, perlomeno sfiorate dalle preoccupazioni sull’ambiente.

Godiamoci allora senza rimorsi questa girandola vorticosa ed eccessiva, divertimento transgenerazionale che impegna solo gli occhi, sul filo del kitsch. Con un po’ di nostalgia da boomer per la stordita dissipatezza dell’antenata Carrie («Mi state dicendo che ho speso 40mila dollari in scarpe e non ho un posto dove vivere? Sarò ridotta letteralmente ad abitare nelle mie scarpe...»), i cui abiti/borse/scarpe li sognavi e non li trovavi subito in uno store online del colosso streaming.

mercoledì 21 dicembre 2022

 MODA

Renato Balestra, il dono a Trieste dei disegni

e l'omaggio postumo della sua città

 

Lo stilista triestino Renato Balestra, morto il 26 novembre 2022 a 98 anni

 

Una data speciale per ricordarlo potrebbe essere il prossimo 3 maggio 2023, quando avrebbe compiuto 99 anni. L’evento è già stato ideato e avrebbe dovuto tenersi al Politeama Rossetti il 4 gennaio. Lo stilista Renato Balestra l’aveva voluto appassionatamente come omaggio alla città dov’è nato: un concerto, con orchestra e coro, e una contestuale donazione di oltre cento bozzetti alle collezioni triestine, una summa speciale della sua straordinaria avventura nella moda. Per un singolare scherzo della sorte la relativa delibera era stata portata in giunta dall’assessore comunale alla Cultura Giorgio Rossi il 28 novembre scorso, proprio due giorni dopo la morte di Balestra, avvenuta in una clinica romana a 98 anni, dopo un breve ricovero. Fino all’ultimo il couturier aveva creduto di poter essere a Trieste, ad accompagnare il concerto per i suoi concittadini, all’insegna di quell’amore per la musica e il canto che, al pari degli abiti, ha riempito tutta la sua vita, fin da ragazzino.

 

 

Gli abiti di haute couture e i disegni di Balestra alla Fondazione Zeffirelli di Firenze

 


Ma “Celeblueation”, come si intitola lo spettacolo, ovvero la celebrazione di quel blu speciale che ha reso noto Balestra nel mondo e che porta il suo nome, è stato solo rimandato. Si farà, probabilmente in primavera e sempre al Rossetti, assicurano l’assessore Rossi e il produttore dell’evento, Armando Fusco, con la sua società Be One Enjoy. «Ci confronteremo con la famiglia - dice quest’ultimo - con le figlie Fabiana e Federica e con la nipote, Sofia Bertolli Balestra, sue eredi, per trovare i tempi e le modalità più giuste per realizzare il grande desiderio di Renato Balestra: tornare a Trieste».


Protagonisti saranno la Grande orchestra sinfonica e il coro Art Voice diretti da Diego Basso, con la direzione musicale e la partecipazione del compositore Marco Falagiani (co-autore della colonna sonora del film premio Oscar “Mediterraneo”). Oltre un centinaio di elementi tra musicisti e cantanti, cui si affiancheranno alcuni solisti.

 


Copia dell'abito che Balestra realizzò per la regina Sirikit di Thailandia esposto nella Sala della Musica della Fondazione Zeffirelli di Firenze

 

Alla musica faranno da corredo le immagini, in anteprima, del docufilm prodotto dallo stesso Fusco sulla vita e la carriera di Balestra: cinquant’anni di una storia di invenzioni e di stile, che prenderà le mosse dalle prime prove pittoriche, dall’atelier romano, per poi seguire la costruzione di “Celeblueation”. Quest’evento, tra il 2018 e il 2019 ha toccato varie città italiane, con una mostra antologica di abiti, bozzetti e disegni di Balestra e una parte musicale, sempre diversa e studiata appositamente per ciascuna occasione. Anche Trieste era inserita nel calendario: era prevista un’esposizione al Castello di San Giusto e un concerto in Piazza Unità, ma la pandemia ha repentinamente bloccato l’appuntamento del 2020. Oggi la scomparsa di Balestra costringe a rimandare ancora “Celeblueation”, che idealmente rappresenterà la realizzazione dell’ultimo grande desiderio dello stilista.
«Renato Balestra era entusiasta come un bambino di tornare nella sua città. Fino all’ultimo abbiamo parlato e progettato l’evento», racconta Fusco. Conferma l’assessore Rossi: «Da un anno lavoravamo con lo staff di “Celeblueation”. Balestra era felicissimo, considerava Trieste la meta finale del suo straordinario percorso. In questo momento provo dolore e amarezza, ma l’evento che tanto voleva si farà».

 

Gli abiti alla Fondazione Zeffirelli di Firenze

 

I cento disegni che saranno donati al Comune di Trieste, probabilmente destinati al Museo teatrale Schmidl, fanno parte di una collezione di circa trecento opere di proprietà di Armando Fusco. «I cento della “special selection” di Celeblueation sono stati selezionati da Balestra stesso - racconta il produttore –. La collezione nasce da un meticoloso lavoro di acquisizione dal suo sconfinato archivio, che la Soprintendenza archivistica e bibliografica del Lazio ha dichiarato d'interesse storico particolarmente importante. Balestra ha lavorato con cura, scegliendo personalmente ogni singolo disegno e bozzetto a scandire le tappe salienti della sua carriera. Abbiamo poi proceduto alla stampa su carta hahnemühle - racconta Fusco - e a una rielaborazione a mano che lo stesso couturier con il suo ufficio stile ha impreziosito con l’aggiunta di vari elementi decorativi, creandone opere nuove e uniche». Ci saranno anche i disegni dei costumi per “La Cenerentola” di Rossini, “Il Cavaliere della Rosa” di Strauss (che aprì nel 1999 la stagione al Verdi di Trieste), la “Turandot” di Puccini e gli ultimi de “Il lago dei cigni”, disegnati per il Teatro dell’Opera di Belgrado nel 2019.


Insieme ai bozzetti, Balestra aveva in mente anche un altro regalo per Trieste: un suo busto in bronzo realizzato dallo scultore Ettore Marinelli, fuso delle Pontificie Fonderie Marinelli di Agnone, una delle più antiche fonderie di campane del mondo (i primi cenni storici rispetto a quest’azienda a conduzione familiare risalgono all’anno mille).

 

Il celebre Blu Balestra nella Sala della Meridiana del Museo e Certosa di San Martino a Napoli. L'abito corto a sinistra è il primo firmato Balestra, anno 1959

 

La mostra antologica “Celeblueation” ha debuttato nel Museo civico di Palazzo San Francesco a Domodossola nel settembre 2018, una sorta di anteprima con i soli disegni per il teatro. Un mese dopo venne allestita, integrale, alla Villa Reale di Monza, quindi alla Certosa e Museo di San Martino di Napoli da maggio a giugno 2019, dove fu inaugurata con una serata di gala e concerto degli orchestrali del Teatro San Carlo. La tappa successiva fu a Forte dei Marmi con un’altra colonna sonora d’eccezione, il concerto nel Giardino d’Inverno di Villa Bertelli dell’Orchestra Scarlatti, guidata dal magistrato-direttore Gianluigi Dettori, solista al piano l’enfant prodige quattordicenne Edoardo Riganti Fulginei. Quindi a Firenze, alla Fondazione Franco Zeffirelli, che fu grande amico di Balestra e con il quale lo stilista collaborò per i costumi di “Così è se vi pare” di Pirandello.


Prima di volare a Bangkok (Balestra ha vestito la regina Sirikit di Thailandia, a suo tempo definita la Jackie Kennedy dell’Asia, scomparsa nel 2016), la mostra avrebbe dovuto approdare al Castello di San Giusto. La pandemia ha fatto il resto e ora il concerto al Rossetti sarà solo un tributo postumo allo stilista, sperabilmente non il solo.

lunedì 12 dicembre 2022

MODA & MODI

Il recupero d'autore come una seduta psicanalitica

 


 

 

Un tavolino. Un’artigiana artista e una cliente. In mezzo a loro una collana mai o poco messa, magari rovinata, dimenticata in fondo a un armadio, passata di moda, un regalo poco gradito, un acquisto incauto. Recuperarla e trasformarla di nuovo in un accessorio indossabile è una piccola sfida all’insegna del recupero. Ma c’è molto di più nei tre laboratori tenuti sabato 10 dicembre al Cavò di via San Rocco a Trieste, protagonista Ines Paola Fontana, pioniera dell’economia circolare e del riciclo intelligente e creativo quando l’anima verde era molto poco in voga, prima come sarta e designer di borse e accessori con Studiocinque insieme a Roberta Debernardi, poi con una sua linea di gioielli “poveri”, nati da materiali di scarto restituiti a un’inedita identità decorativa. Molto di più di una semplice operazione di “rimessaggio”, dunque, perché consegnare un proprio oggetto, con una storia e un passato, in altre mani che lo ripensino e lo ricreino, mettendoci a loro volta un’altra storia, un altro passato e altre esperienze, è prima di tutto un atto di fiducia e complicità. 


Al banchetto di Ines Paola Fontana sabato si sono radunate palline di avorio, quadrati di plexiglas e perline colorate e cilindriche in pasta di vetro, prezioso acquisto da un bancarellaro che le aveva scambiate per plastica: tre collane da re-inventare, la prima con una componente etnica troppo accentuata per il gusto della proprietaria, l’altra acciaccata in alcuni punti, la terza semplicemente mai indossata, nonostante i bei colori e la regolarità del vetro alla base dell’acquisto.

 


 

 I laboratori - registrati per una prossima versione online - erano ospitati nell’ambito dell’iniziativa “Ponterosso memorie”, ideata da Massimiliano Schiozzi e Silvia Vatta e dedicata all’epoca d’oro dei jeansinari. La parola chiave in questo caso era proprio “memoria”. Perchè, intorno al tavolino, mentre gli spaghi che reggevano le collane venivano tagliati senza ripensamenti, le palline, i quadretti e le perle allineati e i fili da tendaggi o ricamo cominciavano a disegnare e assemblare un nuovo oggetto, artista e “committente” chiacchieravano sulla provenienza del pezzo, sui motivi del suo abbandono, sulla curiosità o le diffidenze nell’affidarlo a qualcuno per cambiarlo senza snaturarlo.

 


 


“Tra seduta psicoanalitica e buttacarte” scherzava Schiozzi. Una battuta, ma neanche poi tanto. La collana recuperata la metterò davvero? Non mi pentirò di averla disfatta? Non cancellerò il ricordo che porta con sè? Insomma, un laboratorio non soltanto di manualità.
Alla fine il monile etnico è stata alleggerito e le palline d’avorio rimontate su fili color borgogna lasciati cadere come lunghe frange, i ritagli di plexiglas si sono trasformati nel pendente di una collana di tessuto lavorato con il metodo shibori, i cilindri di vetro sono stati ricomposti su fili da ricamo verde intenso e sigillati da vecchi pezzi geometrici di legno. 

 


 


Una scatola di carta nera firmata dall’artista e il recupero è diventato un regalo d’autore (a se stesse), in una circolarità leggera e utile per gli oggetti e gli umani.

lunedì 28 novembre 2022

MODA & MODI

 

Balenciaga: bambine, orsetti fetish, scandali e vendite 

 

 


 

 Gli orsetti fetish hanno invaso la rete e anche chi non ha mai seguito le ripetute provocazioni di Balenciaga sotto la guida del creativo Demna (Demna Gvasalia, ma il cognome ultimamente ha deciso di cassarlo così chiunque scrive di lui si sente quasi obbligato a precisarne l’identità completa, suo malgrado) non può non essersi imbattuto nella tenera bimbetta dai capelli dorati imbragata nello zainetto “Plush Bear” con le cinghie da bondage.

La griffe si cosparge il capo di cenere dopo la sollevazione del web e con un messaggio surreale, una sorta di spiegone a lettere cubitali in luttuoso campo nero, rassicura tutti i navigatori che ai bambini ci tiene molto e mai vorrebbe accostarli a messaggi costrittivi e violenti, quindi di aver rimosso la campagna pubblicitaria da tutte le sue piattaforme. Con una puntualizzazione ancora più esilarante: agirà legalmente contro chi ha incluso accessori “mai approvati” nel set promozionale della linea Objects, di oggetti di design per la casa. 

Come se l’autore delle immagini, il fotografo Gabriele Galimberti (premio World Press Photo 2021), avesse personalmente deciso che cosa utilizzare per la pubblicità di un brand così spasmodicamente legato alle immagini, e quindi al loro controllo, come Balenciaga. Fa sorridere pensare alla catena di comunicatori, su su fino a Demna, che avrà guardato la bimba con l’orso legato, prefigurando l’esplosione pubblicitaria post indignazione. Così, mentre Balenciaga fa la presunta marcia indietro, le immagini continuano a correre ovunque e i suoi oggetti, sadomaso o meno (per chi gradisse tra le idee Natale della collezione ci sono statue a forma di sneaker dorata, portacandele come lattine, una ciotola per cani a forma di collare con punte, il brucia incenso con le sembianze di un orso molto più innocuo del cuginetto-zaino) sono sotto gli occhi del mondo ed entrano nei desideri di una platea potenzialmente senza limiti.


Le reazioni di pancia dei social sono un formidabile alleato di qualsiasi brand. Nel caso degli orsetti con le cinghie e il top a rete alcuni gridano a una sottile pedo-pornografia, altri, i commentatori più estremi, parlano di lavaggi del cervello gender-fluid. La bufera ha comunque determinato le scuse di Balenciaga e la pena capitale mediatica dei teneri plantigradi. Oggi, 28 novembre 2022, l'annuncio di una presa di distanza eccellente. Kim Kardashian, ambasciatrice del brand, pure lei sotto la pressione dei fan, ha dichiarato: "Sto riconsiderando la mia collaborazione con il brand".


Nel 2017 era la borsa copiata dalla Frakta dell’Ikea, rivisitata in pelle da Balenciaga e venduta a 1700 euro contro i sessanta centesimi dell’originale. Pochi mesi fa le “Paris sneakers”, scarpe da ginnastica logore e macchiate, che col sigillo Balenciaga svettano a 1450 euro. La rete reagisce: s’indigna o celebra il genio di Demna, che prende in giro chi può spendere migliaia di euro per oggetti apparentemente senza valore, ma rivisitati in chiave glamour.


Un cortocircuito rodato fino alla noia. Provocazione, reazione, celebrazione del brand, tante vendite di oggetti dove il messaggio supera la sostanza. Fanno quasi simpatia quegli orsetti con le cinghie. In mano alle due bambine sono stati collocati oggetti di poca o nessuna funzionalità, scarsa fantasia, pesantemente brandizzati. Senza scomodare il bondage, anche questa è pornografia.

IL PERSONAGGIO

 

Addio allo stilista triestino Renato Balestra

"L'Ausonia, la lirica, le mie radici mitteleuropee"

 

Renato Balestra, nacque a Trieste il 3 maggio 1924

 

Si rammaricava di non aver potuto portare a Miramare la sua mostra “Celeblueation”, che era stata ospitata nel maggio 2019 alla Certosa e Museo di San Martino di Napoli, con 250 bozzetti, disegni e abiti scelti personalmente da lui. Era un piccolo cruccio per Renato Balestra, lo stilista triestino morto sabato 26 novembre 2022 a Roma a 98 anni, che la pandemia avesse cancellato quell’appuntamento, «un’occasione - confessava al telefono nell’ultima intervista al Piccolo, il 3 aprile scorso - per tornare nella mia città, a cui penso con nostalgia, e per approfondire la storia del castello, di cui ho un’idea romantica, legata a Massimiliano d’Asburgo e alla sua partenza per il Messico».


Lucidissimo, forbito, mai un’incrinatura nella voce e nei ricordi. Il suo racconto era un fluire costante di aneddoti, di luoghi, di occasioni, di amicizie legate a Trieste e alla sua giovinezza. Parlava della madre di origine dalmata, Maria Gladich, detta Mary, del padre Renato, architetto, nel cui albero genealogico c’è un pittore di una certa fama, Angelo Balestra, conservato nelle raccolte triestine. Genitori amatissimi, la cui scomparsa gli aveva dato un dolore così profondo da portarlo a rompere il cordone ombelicale con la città dove era nato e dove, casualmente, si era scoperto stilista, disegnando il primo abito per la sua ragazza dell’epoca, «la più elegante della scuola».


Bagno Ausonia e il gruppo di amici che lo spinge ad abbozzare un figurino - lui, studente di ingegneria civile all’Università di Trieste, dopo il diploma al liceo Oberdan, molto versato nel disegno - per l’incontentabile signorina, che non aveva trovato nei negozi niente di suo gradimento, salvo una stoffa celeste a pois blu scuro. Quel primo modello, approdato a sua insaputa al Centro italiano della Moda di Milano, avrebbe aperto al giovane Balestra le porte di una carriera internazionale straordinaria, iniziata con l’apprendistato nell’atelier di Jole Veneziani, poi a Roma dalle mitiche Sorelle Fontana ed Emilio Schuberth.


Il blu che porta il suo nome, Blu Balestra, aveva vestito il Museo Revoltella nel dicembre 1998, in una mostra omaggio curata da Raffaella Sgubin con la direzione di Maria Masau Dan. Abiti e 126 bozzetti in esposizione, tra cui il primo disegno realizzato come griffe “Renato Balestra” per una mise da cocktail. «Ci sono particolarmente legato - diceva ancora nell’ultima intervista - è un vestito corto, di raso blu naturalmente, con una specie di drappeggio davanti, che ho fatto e rifatto anche in altre collezioni». 

 

La moda di Balestra al Museo Revoltella nel 1998

 

Nell’occasione della mostra aveva ricevuto il sigillo trecentesco della città dal vice sindaco Roberto Damiani e, in serata, aveva assistito alla prima de “Il corsaro” al Verdi, quel teatro che da ragazzo, come appassionato di lirica e pianista talentuoso, con ambizioni da concertista, aveva tanto amato e frequentato. Quell’incursione al Verdi non era stata peregrina: l’anno dopo Balestra disegnò i costumi per “Il cavaliere della rosa” di Strauss, titolo di apertura della stagione. Alla fine della rappresentazione uscì a ricevere gli applausi della sua città: «Ricordatevi che il mio cuore è là - disse al pubblico dal palcoscenico, con commozione - ho passato tanti anni con voi, in loggione e in galleria».


Il 1999 fu un anno speciale, rinsaldò il suo legame con Trieste. Il 3 maggio vi festeggiò il compleanno, insieme alle figlie Fabiana e Federica, invitato per una sfilata benefica al Verdi, promossa da Rossana Illy in favore dell’Associazione sclerosi multipla: in passerella un centinaio di abiti della collezione primavera estate, appena svelata a Roma, dal titolo evocativo, “Inseguendo il sole”.


La prima casa, quella dov’era nato, in via Udine bassa, di cui diceva di avere a memoria ogni dettaglio. Poi il trasferimento in Viale, «ultima casa sotto la scalinata», le passeggiate con gli amici all’Acquedotto, il gelato da Zampolli, di cui ancora sentiva il sapore, i tuffi al bagno, le file di ore per un posto al Verdi, anche in piedi. Il grande amore per la musica, che s’inventava, appena imparato a leggere le lettere, a sei anni, seguendo i testi dei libretti d’opera di uno zio. Ai ricordi triestini si mescolavano gli incontri di una vita e di una carriera lunghissime, accanto alle donne più belle del mondo, alle signore di sangue blu: Farah Diba “regale”, Noor di Giordania, a cui disegna l’abito da sposa, la regina di Thailandia Sirikit, Imelda Marcos e le sue scarpe, Claudia Cardinale “equilibrata e coerente”, Liz Taylor e Lauren Bacall “piene di grazia”, Julia Roberts “quintessenza della modernità”. «Noi siamo quello che siamo stati - diceva - non solo quello che siamo diventati. Portiamo dentro di noi le nostre radici. Io porto dentro di me la cultura mitteleuropea, se posso essere presuntuoso, una certa eleganza, non fisica ma interiore, un’innata armonia».


Una sola volta, nel 2003, sempre in dialogo col Piccolo in occasione del suo celebre siparietto “Casa Balestra” nel programma “Chiambretti c’è” su Rai 2, si lasciò sorprendere da un filo di amarezza: «Non ho mai avuto grandi riconoscimenti da Trieste e dalle istituzioni, nemmeno il San Giusto d’oro».


Con Renato Balestra se ne va uno degli ultimi signori, dei grandi vecchi della moda (anche se il termine “vecchio” lo farebbe inorridire, col Piccolo protestò per aver puntualizzato nel titolo dell’intervista il bel traguardo dei 98 anni...). Un protagonista del made in Italy, accanto a Ottavio Missoni, Mila Schön, Raffaella Curiel, i quattro che hanno portato nel mondo il nome di quest’angolo remoto a Nordest, così estraneo e disinteressato ai vestiti. Chissà allora che nel calendario delle mostre dell’amministrazione ci sia posto per un’ampia antologica su Balestra, un tributo dovuto. Nel segno del suo Blu, tinta, questa sì, felicemente e naturalmente “immersiva”.

 

lunedì 14 novembre 2022

MODA & MODI

 

Velate o coprenti?  Il muro è caduto

 

 Rieccoci al dilemma di ogni inverno: velate o coprenti? Eterna questione divisiva, che oppone le pasionarie della gamba coperta a chi sostiene l’irrinunciabilità della trasparenza. Dietro si agita anche una sottile lettura ideologica: lo “spessore” suggerisce praticità e comodità, scarpe piatte e trottate urbane, la “velatura” ama la vertigine del tacco, le estremità guantate su cui far correre sguardi. 

Quest’anno la faccenda si complica, su entrambi i fronti. Primo: irrompe il colore. Come sempre nei periodi di crisi, l’accessorio si fa forte, diventa protagonista, è la blanda compensazione a fronte di rinunce più pesanti. Una volta si parlava di lipstick-index, l’indicatore rossetto, inventato dal chairman di Estée Lauder, Leonard Lauder, negli anni Duemila gravati dalla recessione, numeri alla mano: le vendite del cosmetico si impennavano nei periodi bui, durante la depressione degli anni Venti, dopo le Torri Gemelle, dopo il fallimento della Lehman Brothers. Il rossetto intenso e consolatorio, quando l’incertezza e la crisi impediscono gratificazioni più costose.


Oggi la teoria è in aggiornamento con l’indice calza. Gialli, viola, rosa barbie, blu elettrici e verdi si affiancano al nero o al grigio di ordinanza per le grammature spesse e protettive. Anche le trasparenze si colorano. Non più solo il nero o il carne, ma un’intera palette di toni e tinte buca le vetrine e invita a comprare l’accessorio più modico con cui reinventare o trasformare un vestito. L’effetto “blocking” non spaventa, le gambe diventano imperative, i colori un tempo inaccostabili per il temuto effetto carioca - rossi e aranci, blu e verdi, gialli e fucsia - si mescolano a tutte le ore del giorno.
A sfumare i confini tra il vedo e non vedo, tra i collant opachi e i fumée, ecco le calze velatissime ricoprirsi di scritte, di rombi, quadri, grafismi, strisce bicolori. Sulla gamba ci si sbizzarrisce, si comunica, si piazzano insistentemente i propri loghi per indirizzarsi a un mercato giovane, abituato alle collaborazioni tra marchi, che non avverte l’imbarazzo di brandizzarsi, anzi più insegne riconoscibili si mette addosso meglio è.


Ma la diatriba tra velate e coprenti? La Generazione Z se ne disinteressa. Le calze colorate e trasparenti si infilano nelle scarpe da ginnastica, negli anfibi, negli stivali, si issano sui plateau o rimangono rasoterra nelle ballerine. Anche se ricamate, decorate con fiori e fiocchi, glitterate, punteggiate di perline o di strass, le vediamo transitare allegramente dentro Dr. Martens o stivali texani, in un mix spiazzante di aggressività e grazia. È saltata la regola non scritta che accostava la velatura al tacco sottile e svettante, anzi, più la scarpa è “chunky”, ingombrante e robusta, più le calze si fanno sottili. Non c’è brivido nemmeno se portate con le microgonne o gli shorts di lana: basta coprirle con un paio di calzettoni al ginocchio, in un gioco di sovrapposizioni cromatiche e di spessori. E le irriducibili delle coprenti? Non le accostano più solo alla scarpa piatta o alla gonna a pieghe, al twin set di lana e ai mocassini, ma le smorzano su abitini corti, lucidi, con stampe colorate, effetti sottoveste.


L’index ci dice che c’è voglia di contaminare e mescolare consistenze e colori, col gusto di azzardare senza esagerazioni. Almeno sul fronte calze un altro muro è caduto.

domenica 6 novembre 2022

IL LIBRO

 Irene Festa: da serafino a dolcevita, così il cinema ha dettato le parole della moda nel mondo

 

Irene Festa

 


Gli italiani la chiamano “Serafino”, i francesi “Serafinò”, per una volta prendendo a prestito un termine gergale della moda dal belpaese. Per gli americani invece è la “Wallace” e per gli inglesi la “Henley”. Di che cosa si tratta? Nient’altro che della maglietta della salute delle generazioni negli anta inoltrati, la cui denominazione da noi deriva da quella indossata da Celentano nell’omonimo film del 1968. Wallace era invece Wallace Beery, l’attore che la portava da protagonista di uno dei primi film carcerari, “The Big House” del 1930, vincitore di due Oscar, mentre “Henley” fa riferimento alla maglia della tradizionale uniforme della squadra di canottaggio della città di Henley-on-Thames.

 

"Serafino" con Adriano Celentano, 1968

 


Dal grande schermo derivano molti altri termini normalmente utilizzati per definire capi di abbigliamento, prima fra tutti la “dolcevita”, che in Italia si richiama alla maglia a collo alto indossata dal personaggio di Pierone nell’omonimo film di Fellini. Per gli inglesi è la “polo neck”, perchè parte dell’uniforme dei giocatori di polo fin dal 1860, per gli americani la “turtle neck”, simile al collo di una tartaruga, e per gli australiani la “skivvy”, ovvero l’uniforme della classe operaia maschile per decenni e, prima ancora, la parola usata per definire una donna che faceva lavori pesanti di tutti i tipi.
“Zhivago”, dal celeberrimo film del 1965 per gli inglesi identifica due capi molto diversi: la camicia maschile con la fila di bottoni a sinistra, portata da Omar Sharif, e il cappotto con alamari e il collo di pelliccia di Julie Christie. Molto più difficile capire perchè in inglese quella che noi chiamiamo “camicia da medico con bottoni asimmetrici”, in inglese americano sia la “Ben Casey shirt”. Tutto si deve a quella indossata dal giovane chirurgo protagonista dell’omonima serie medica, andata in onda sulla rete ABC dal 1961 al 1966 e ambientata al County General Hospital di Los Angeles.

 

Vince Edward è il dottor Ben Casey nella serie della rete ABC dal 1961 al '66

 


Insomma, raccapezzarsi nel linguaggio della moda non è facile nè intuitivo. Ogni lingua ha termini specifici, legati alla propria cultura visiva, alle tradizioni, allo sport, ai codici degli atelier e passare da una all’altra, in ambienti sempre più globali e connessi, può diventare un’impresa. Ne sa qualcosa la duinese Irene Festa che, approdata a Parigi dopo la formazione all’Istituto Marangoni di Milano, per lavorare come “trend forecaster”, previsore di tendenze, si mise a cercare invano un dizionario plurilingue. Ritornata a Milano nel 2015 per insegnare nella stessa scuola dove si è formata, con studenti oggi in larga parte provenienti dall’estero, Irene ha rispolverato la sua passione per la terminologia della moda e ha cominciato a postare online brevi vocabolarietti illustrati diventati subito virali.


Il lockdown ha fatto il resto. Durante la pandemia i post si sono trasformati in un vero e proprio dizionario, “Moda illustrata. Il linguaggio dell’abbigliamento” (Hoepli, pagg. 365, euro 44,90), un manuale con più di duemila termini in italiano, inglese e francese - le lingue delle tre principali Fashion Week, ma sotto ogni scheda c’è lo spazio perchè i lettori aggiungano altre definizioni, nella loro lingua - e millecinquecento disegni eseguiti dalla stessa autrice, che al Marangoni, oltre a coordinare i programmi didattici, è docente di disegno tecnico.
Dai cappotti ai pigiami, dalle gonne ai costumi da bagno, dall’intimo all’abbigliamento per bambini, per approdare ai dettagli condivisi della parte finale, in cui c’è da perdere la testa nelle varianti di colli, risvolti, maniche, tasche, orli, allacciature, pieghe, arricciature e qualcosa come trentasei polsini diversi da camicia. Compreso quello doppio con bottoni, definito, con un inedito derby nord-sud, sia “Milanese” sia “Napoletano”, ma anche James Bond, perchè Terence Young, regista di “Dalla Russia con amore” e “Thunderball”, fece vestire Sean Connery a sua immagine, portandolo dal suo sarto, Anthony Sinclair e dal suo camiciaio di fiducia, Turnbull & Asser, esperto nel doppio polsino con gemelli.

 

"Dalla Russia con amore", regia di Terence Young

 


«Oggi c’è bisogno di definire correttamente le cose e scendere nel dettaglio - spiega Festa -. Le fonti ufficiali che ho usato risalgono agli anni Ottanta, ma sono riuscita a reperire molti testi introvabili anche anteriori, tra cui il Piccolo Dizionario Tessile in 5 lingue del 1956 e il Four Languages Dictionary del 1989 in edizione giapponese. Le sartorie spesso usano parole diverse, Google traduttore è fuorviante, insomma, sentivo il bisogno di chiarezza. Io stessa ho scoperto molti termini che non conoscevo. Per i miei studenti, poi, è uno stimolo alla creatività: se sai che esiste una serie di colli diversi non ti ritrovi a disegnare sempre lo stesso. Ho inserito nel libro anche una parte di abiti dal mondo, per evitare uno sguardo troppo occidentale e aprire un po’ la mente. Ho tralasciato invece termini legati alla storia del costume, mentre ho recuperato quelli di tendenze tornate in auge. Per esempio la “Gibson girl blouse”, la camicia della perfetta ragazza americana disegnata da questo celebre illustratore, o i capi di una serie di grande successo come Bridgerton».


Il libro è uno strumento di lavoro per studenti, addetti del settore, appassionati, con gustosi aneddoti sciovinistici, considerata la tradizionale rivalità modaiola tra Italia e Francia. Un esempio? Il collo classico della camicia dagli italiani è chiamato “all’italiana”, dai francesi alla francese, mentre quello con le punte allargate, che permette di mettere una cravatta ampia, evidentemente detestato da entrambi i paesi, dai francesi viene chiamato “all’italiana” e viceversa.


Tra i “falsi amici” c’è lo smoking, per gli italiani giacca da sera, per gli inglesi giacca trapuntata che copre quella da sera per evitare che si impregni di fumo, mentre la giacca corta detta “Spencer” deve il suo nome al lord che a metà ’700 ne bruciò le code vicino al fuoco. Nella sezione degli abiti da cerimonia si fa chiarezza su “black tie”, “white tie” e sul completo più elegante, il “morning dress”, in italiano familiarmente “tait”, che contempla tight con garofano all’occhiello, pantaloni a righe grigie e nere, cilindro, ombrello, ed è il vestito maschile obbligatorio per entrare nel Royal Enclosure ad Ascot, la parte riservata ai reali alle corse dei cavalli.

 

Re Carlo, allora "solo" principe Charles, nel morning dress

 


E da “trend forecaster” cosa prevede Irene Festa per il nostro futuro guardaroba? «La prossima estate - dice - torneremo alla gonna a ruota, sulla scia del film “Elvis” di Baz Luhrmann, che ha avuto un grande successo. Quando lo stesso regista girò “Il grande Gatsby”, la moda anni Venti ha resistito per un paio di stagioni. Per individuare le tendenze - spiega - si parte dalla strada, dai cosiddetti “segnali deboli”, cercando di individuare il primo che si veste in un modo diverso. Di solito funziona così: quando abbiamo colto lo “spirito dei tempi” ci vogliono circa due anni per vederlo tradotto in moda. Nel 2025 avremo un’epoca felice, come i brillanti Ottanta dopo il punk e il gothic dei Settanta. E forse ci vestiremo davvero in modo più sostenibile».

lunedì 31 ottobre 2022

MODA & MODI

 

Te lo giuro sul tailleur pantalone

 


 

 

Giorgia, ovviamente, non c’entra. Se avesse fatto impennare le vendite a poche ore del giuramento si candiderebbe a un ruolo di influencer che neanche Kate Middleton col suo abito da sposa. Ma di certo contribuirà alla causa. I tailleur pantalone che hanno segnato i primi giorni della sua vita da aspirante e poi da premier sono nella top five dei capi di stagione. È probabile che il signor presidente del consiglio dei ministri l’abbia scelto per i contenuti impliciti, molto prima che diventasse di moda parlare di empowerment femminile: solidità, praticità, rigore, eleganza senza sdolcinatezze. Insomma, un completo perfetto per vestire chi ha subito messo in chiaro di non avere attitudine a stare un passo dietro agli uomini, indossando quasi provocatoriamente il pezzo forte del guardaroba maschile.

 


 

 

Del tailleur pantalone i grandi magazzini stanno registrando un’impennata di vendite. Con la riduzione dello smart working e il ritorno in ufficio, non ultimo per sfuggire al caro-bollette domestiche, perde terreno il leisurewear, quell’abbigliamento da tempo libero che durante il lockdown e le sue code è diventato sempre più pretenzioso e costoso. La collaborazione tra marchi sportivi e del lusso ha fatto il resto, rendendo desiderabile un guardaroba geneticamente modificato di tute da ginnastica, felpe e pantaloni coperti di loghi e venduti a peso d’oro. Ma questa moda slouchy, diciamo floscia, forzatamente rilassata, ha stancato. Ora cerchiamo capi duraturi e durevoli.

 

Elodie premiata alla Festa del cinema di Roma

 

Il tailleur maschile caccia indietro la stagione di passaggio. Senza trascurare il comfort che è diventato un principio irrinunciabile, c’è voglia di tornare a indossare qualcosa di più strutturato, compiuto, che abbia taglio e peso. Oltre a versatilità: nei luoghi di lavoro si abbina alla scarpa, fuori le ginniche gli tolgono ogni rigidezza. I numeri testimoniano un gradimento transgenerazionale: il tailleur pantalone lo mettono le baby boomers, che hanno nel loro immaginario cinematografico i completi di Yves Saint Laurent o Armani, entrambi ispirati da Marlene Dietrich, e le loro figlie, le Millennial e la Generazione Z, conquistate dai due pezzi viola oversize con cui Elodie è stata premiata all’ultima Festa di Roma, pantaloni larghissimi e giacca portata sopra un semplice reggiseno nero. Gli abbinamenti fanno il resto: camicie per un insieme più tradizionale, top corti per le giovanissime, che espongono l’ombelico anche ai rigori invernali.

La palette dei colori è ampia: dai blu, neri, rigati, ai rosa, gialli maionese, verdi carichi per chi non si spaventa dell’”emotivamente impattante” del total look, per dirla ancora con il premier Giorgia Meloni. Le sue sei ministre si sono allineate nel giuramento: Bernini in tailleur nero con camicia dal collo maschile, Santanchè gessata col fiocco sciolto portato come una cravatta, in due pezzi scuri Calderone e Roccella, total white abbacinante per Casellati e Locatelli, la cui contiguità nella foto di famiglia ha reso l’effetto deflagrante. L’uniforme, casuale o concordata che sia, lancia un messaggio: il tailleur pantalone non è un capo di passaggio nell’armadio, con cui ci si può anche sbizzarrire. Ministre o no, chi chiederebbe di più?

lunedì 3 ottobre 2022

MODA & MODI

Dal Far West allo Yeti, stivali estremi

 

Divisivi come l’animalier, ritornano in versione aggiornata gli stivali texani. In realtà, proprio come le stampe zebrate, la moda non si scrolla mai di dosso una volta per tutte la nostalgia del vecchio west, che attraversa le stagioni meteorologiche oltre che quelle dello stile, riuscendo a resistere - letteralmente - anche nelle canicole estive, con decine di affezionate che sottopongono le estremità nude alla prova di resistenza.

 

I texani secondo Fenti, 2022-2023

 

Quest’anno, per animare le giovani generazioni di aspiranti country girl, si portano a testimonial i Måneskin, mentre per mamme e nonne funziona l’immarcescibile icona Lady Diana, che li indossava negli anni Ottanta e nel più tradizionale dei combo, infilandoci dentro i jeans. Ora, rieditati, aggiornati, logati quanto basta, i texani sono tra gli stivali più amati dalle passerelle. Si parte dalla versione ortodossa con l’inconfondibile tacco cubano, squadrato o inclinato, la punta spesso rafforzata da un inserto metallico, il gambale ricoperto da ricami e intarsi e le due linguette laterali che ne facilitano la calzata. Ma i modelli dell’inverno 2022-2023 giocano sugli effetti e mettono al bando la sobrietà delle origini, quando il cuoio spesso dei camperos della corsa all’oro di metà Ottocento serviva a proteggere dai morsi di serpente e la suola a punta a infilare in fretta la staffa delle bardature dei cavalli. Dalla versione stivaletto a quella che si allunga a metà coscia, in pelle o camoscio, sono tutti arricchiti da decori a contrasto, imbottiture, borchie, glitter. La selvatichezza fa parte del dna dei texani, ma le cow girl amano il rischio di zoccolare sul baratro.

 

Emporio Armani e i cuissard di vinile

 


Rapite o meno dallo spirito del West, l’inverno alle porte si percorrerà con gli stivali. Lunghissimi, in camoscio o maglia, avvolgono tutta la gamba, quasi un prolungamento dei vestiti o due pezzi in lana, il bozzolo che va per la maggiore. I cuissard hanno tacco sottile e punta affilata e ce ne sono anche in vinile, rossi o neri, che rispolverano l’effetto contundente di Julia Roberts in Pretty Woman. Gli affezionati alla Imma Tataranni della serie televisiva campione di ascolti (per non scomodare Meghan Markle) avranno notato i cosiddetti “slouchy”, che nell’onomatopea rivelano la loro natura “molle”: sono gli stivali che si fermano sotto il ginocchio e si acciambellano in varie pieghe sulla gamba.

 

Miu Miu e gli stivali in pelliccia sintetica
 

Chi ha sufficienti riserve di autoironia, e la propensione a investire parecchio su una bizzarria di stagione, può calzarsi nel modello “uomo delle nevi”, sorta di doposci urbani completamente ricoperti di pelliccia e molto simili a quelli che negli anni Ottanta popolavano le cinematografiche vacanze invernali dei Vanzina, noti come “mammuth”. Anche i “trombini” anti-pioggia si danno più importanza, con suole carroarmato e lavorazioni in 3D. Perdono terreno, invece, gli “ankle boot”, domesticamente chiamati “tronchetti”, gli stivaletti alla caviglia o poco più su. In tempi tormentati e di prevedibile austerity si enfatizzano le estremità, senza mezze misure.

lunedì 12 settembre 2022

L'INTERVISTA

Eugenia Paulicelli: "I grandi magazzini

sono un teatro

affacciato sulle città"

 

«L’avvento dei grandi magazzini porta a profonde trasformazioni economiche, sociali e culturali. Non si comprenderebbe la loro portata rivoluzionaria senza le intime connessioni con lo sviluppo tecnologico, urbano e l’architettura delle città, che danno vita a una riconfigurazione dello spazio e del tempo. Tempo e spazio sia esteriori che interiori. Di conseguenza il grande magazzino contribuisce al processo di diffusione e di democratizzazione della moda. Una moda su larga scala».


Eugenia Paulicelli, docente e fondatrice della specializzazione in “Fashion Studies” al Graduate center e Queens College della City University di New York, è una delle anime della mostra “Moda e Pubblicità”.

 

Eugenia Paulicelli

 


Prima della creazione del “made in Italy”, negli anni ’50 del ‘900, esisteva già una rodata pubblicità di moda in Italia? Sì - risponde Paulicelli dalla sua casa negli Stati Uniti - infatti nell’esposizione si possono osservare le radici del marchio Italia e come l’Italia elaborasse la sua identità complessa e multipla. E come questa si formasse attraverso processi di modernizzazione, che si concretizzavano nelle astute ed elaborate campagne pubblicitarie. Queste forme di comunicazione si sviluppano parallelamente alle arti, al saper fare artigianale e alla formazione di una classe imprenditoriale e industriale, come mostrano le esperienze della Rinascente, di Mele, dei magazzini Zingone a Roma. Sono anche i grandi magazzini a innescare le novità della moda e della confezione in serie, che man mano si svilupperà con gli anni a venire. È nei grandi magazzini che già alla fine dell’Ottocento comincia il “ready to wear”.

 

Achille Luciano Mauzan, La Rinascente inaugura i suoi magazzini, 1917 (Collezione Salce, Treviso)

 


I grafici come interpretano le nuove esigenze pubblicitarie dei grandi magazzini? Guardano ai cambiamenti sociali ed estetici e cercano di rappresentare una figura di donna dinamica che man mano si libera delle costrizioni, come avviene con il corsetto. In queste opere si possono leggere le trasformazioni identitarie, soprattutto delle donne. Le donne sono presentate all’interno di piccole storie e atmosfere che evocano il sogno, l’aspirazione e il desiderio. Meccanismi psicologici e tecniche che sono alla base dello sviluppo dei consumi. Si notano le nuove maniere di muoversi dei corpi delle donne, che diventano più agili, attive e occupano spazi non solo o solamente domestici. Molte lavorano nei grandi magazzini oppure nell’industria della moda e del tessile. E anche loro vogliono vestirsi bene, cosí i grafici contribuiscono a costruire il marchio distintivo di un determinato magazzino, come il motto onnipresente dei magazzini Mele che assicura la potenziale clientela di “Massimo buon mercato”.

 

Filippo Omegna, Unione cooperativa Miccio & C. Napoli, 1910

 


Il caso di Mele a Napoli e della Rinascente a Milano distinguono l’Italia da tutti gli altri paesi europei e non solo. Perché? Proprio per il fatto che le città che ospitano o hanno ospitato questi magazzini sono uniche al mondo, con la loro bellezza diversa, l’architettura, l’organizzazione dello spazio urbano e del centro storico. Questi magazzini, che erano come un grande teatro dove si poteva trovare il caffè, o il ristorante, il parrucchiere o una sala di proiezione, si situavano a loro volta nel teatro spettacolare delle città italiane, creando un continuum e una sinergia tra spazi diversi. Persino oggi il ristorante della Rinascente a Milano offre dalle sue grandi vetrate lo spettacolo del duomo. Le finestre sembrano trasformarsi in uno schermo cinematografico e rimandano alla rappresentazione di quello spaccato della città nel cinema italiano, Luchino Visconti in primis. Certo parliamo di immaginari e di poesia della visione, ma tutto questo fa parte dello spettacolo messo in atto dalla comunicazione e dal racconto della moda. L’importanza del display, delle vetrine, è anch’essa un’arte che si evolve e si sviluppa dall’Ottocento in poi.