lunedì 27 dicembre 2021

MODA & MODI

 Trent'anni dopo, ma con le stesse parole



 

 

Una nuova austerity”. Si intitolava così, nel novembre 1991, la prima rubrica di moda del Piccolo. Trattandosi di abiti e accessori, un’autentica antenata di quella che state leggendo. Annunciava una svolta nel vestire per l’anno successivo: il 1992 sarebbe stato all’insegna della sobrietà, con gonne lunghe, pantaloni ampi e severi, giacconi di maglia. Fotografava la fine della sbornia dell’usa e getta, all’insegna del bisogno di «qualità, confortevolezza, economicità, riciclabilità». Cortocircuito temporale: queste parole non le abbiamo già sentite, non le ho scritte anche di recente?


Tempo di bilanci, dunque. Oltre ai 140 anni del Piccolo, personalmente festeggio un altro compleanno: il trentennale di questo spazio. Tre decenni a guardare e cercare di interpretare la moda e i suoi cambiamenti da un angolo di osservazione del tutto particolare, quello di una città che ha dato i natali o ha adottato celebri designer (Renato Balestra e Raffaella Curiel, Ottavio Missoni e Mila Schön), ma dove di moda non si è mai prodotto niente (a parte lo stabilimento degli abiti senza pinces che all’inizio degli anni ’70 Roberta di Camerino varò nel magazzino Sessanta del Porto nuovo per sfruttare le agevolazioni doganali). Una città dove novità e tendenze arrivano in ritardo, pressochè ignorate, e che implacabilmente tende a vestirsi sempre nello stesso modo, pratico e impersonale, anche quando griffato. Insomma, è stata una sfida quantomeno stimolante.


Forse non è un caso che questo anniversario cada in un 2021 anch’esso spiazzante e singolare, al termine di due anni contrassegnati da chiusure, riaperture, confinamenti, progressive liberazioni e per l’abbigliamento da una profonda rivoluzione. Ci sono le opportunità da cogliere nel mondo virtuale e c’è il dovere di contribuire a salvare il mondo reale dall’inquinamento: in entrambe le dimensioni la moda conta e può dare molto. Ogni bilancio sembra oggi più impegnativo, perchè la pandemia ha annientato certezze e accelerato trasformazioni, paradossalmente rallentando processi che sembravano destinati a durare per sempre, come la bulimia delle collezioni.


Cosa ci resta allora di questo 2021? Certamente alcune parole chiave. A cominciare dalla consapevolezza. Che significa trovare la propria misura nella sostenibilità: senza mortificazioni (che resistono poco), basta circoscrivere gli acquisti seriali, poco durevoli, destinati a una rapida rottamazione. Resta la circolarità. Senza improvvisarsi esploratrici di mercatini, pratica che richiede tempo e allenamento, è più facile cominciare a guardare in casa propria, disseppellendo dall’armadio giacenze dimenticate. E poi la libertà. A partire da un modo di vestire confortevole senza essere sciatto, che dal perimetro domestico del lockdown si è trasferito sulle strade, nei luoghi di lavoro, negli spazi recuperati di socialità: un vestire che con linee e materiali rispetta la mobilità, la praticità, il benessere, eliminando rigidezze e costrizioni, uniformi e dress code ormai diventati insopportabili. Infine, ritroviamo il tatto, un senso di cui a lungo siamo stati privati e che ci accompagna a riscoprire morbidezza, lavorazione, struttura di ciascun capo, ad apprezzarne artigianalità e durata.


Non la chiameremmo più “austerity”, questa parola sì è andata fuori moda. Le altre, trent’anni fa erano già tutte lì. C’è voluto un lungo percorso e un virus molto veloce per restituircele.

venerdì 17 dicembre 2021

IL LIBRO

 Natalia Ginzburg

e la poesia di Biagio Marin

Un amore lungo una vita

 

 

 


 

Una giovane Natalia Ginzburg, studentessa al liceo Alfieri di Torino, scoprì un giorno nelle sale di lettura della biblioteca “Pro cultura femminile”, un saggio critico su un poeta che scriveva in dialetto gradese. “Cò vampa la tò cavelada/ e un bel rie la boca te imbianca/ l’anima mia se spalanca/ co’ l’ali de la tò riada”. 

Natalia, che da adolescente scriveva furiosamente poesie, non si riconosceva nel piemontese, ne sapeva poche parole e lo sentiva estraneo, perchè in famiglia si parlava un lessico diverso, fatto di altri dialetti mescolati all’italiano. Quei versi di Biagio Marin, invece, la conquistarono subito. Li imparò a memoria, li ripeteva per la strada e girò tutti i librai di Torino alla ricerca delle raccolte che il saggio - anni dopo scoprirà firmato da Silvio Benco - menzionava: “Fiuri de tapo” e “Cansone picole”. 

Le raccolte erano introvabili a Torino e Natalia, senza pensare di scrivere all’editore o all’autore, visse questa ricerca vana come una privazione. «Mi sembrò tristissimo di non essere nata a Grado e di non poter scrivere in dialetto gradese. Mi parve a un tratto di capire cosa io volevo raggiungere e dove era la poesia vera. Quando dicevo “Cò vampa la tò cavelada” sentivo ogni volta un sussulto forte e profondo di felice emozione».


Queste parole sono tratte da un articolo firmato da Natalia Ginzburg sulla Stampa nell’ottobre 1970 - circa quarant’anni dopo la scoperta casuale di Marin - e incluso nella terza raccolta di testi non narrativi dell’autrice, “Vita immaginaria”, che ora esce per Einaudi a quarantasette anni dalla prima pubblicazione di Mondadori. «Con l’animo di un poeta fallito - scrive Ginzburg sul quotidiano torinese - leggevo quelle riviste e mi struggevo di tristezza e di invidia; e mi sembrava di guardare il mondo da una perduta provincia».


Nell’estate precedente l’articolo, era uscita per Einaudi “La vita xe fiama”, raccolta di poesie di Marin composte tra il ’63 e il ’69, curata da Claudio Magris e con prefazione di Pier Paolo Pasolini. Natalia sfogliò il libro e ritrovò un filo mai interrotto. Le strade di Torino e i luoghi della giovinezza, le sale di lettura della “Pro cultura”, i desideri e le tristezze di quella ragazza che consumava il tempo a buttar giù versi piuttosto che a studiare, erano ormai lontanissimi. «A volte - confessa nell’articolo - mi riusciva difficile riconoscere me stessa nella persona immemore e inaridita che subiva strane vicende e se ne andava per città ignote. Riconoscevo me stessa quando le parole antiche e amate “Cò vampa la tò cavelada” riaffioravano al mio ricordo».
Un giorno, a Roma, Natalia Ginzburg si era imbattuta ne “I canti dell’isola” di Marin, nell’edizione del ’51 di Del Bianco di Udine. Si era avvicinata a quel volume con sospetto, con la paura segreta di una delusione, e aveva permesso che qualcuno glielo portasse via. Ma in quell’estate del ’70, sfogliando “La vita xe fiama”, tutto si ricompose: i versi in dialetto gradese le erano rimasti dentro «senza intristire nè morire», come un bene inesauribile.


Ancora una volta Natalia battè i librai di Roma cercando i volumi precedenti al ’63 e non ne trovò nessuno, pur scoprendo che Marin era famosissimo. Poi prese carta e penna e gli mandò una lettera presso l’editore che condividevano, Einaudi. Il poeta le rispose, le chiese perchè avesse aspettato tanto a dirgli che amava la sua poesia, perchè gli scrivesse solo ora che «era moribondo». E si lamentò che credeva di avere pochi lettori, non più di venti, con lei ventuno.


«La poesia di Biagio Marin - scrive ancora Ginzburg nel pezzo sulla Stampa - è una poesia immobile: come è nata, così è oggi. È modulata e melodiosa, fatta di poche cose e pochissime parole che ritornano sempre: nuvole, sabbia, conchiglie, stagioni felici, gabbiani e ragazze. I colloqui con i cari perduti; l’attesa della morte insieme amara e serena; i vincoli con la propria terra, confusi di collera, ironia e testarda tenerezza; L’addio al figlio: “Tu avevi ventiquattro anni/ el cuor come un zardin...”».


Biagio Marin fece mandare a Natalia Ginzburg una raccolta quasi completa della sua opera, stampata dalla Cassa di Risparmio di Trieste. E la scrittrice vi ritrovò un frammento del mare, citato nel saggio di Benco, che invano aveva cercato fino allora: “Anche el mar el me par ingrisinio/ elo elo ch’el xè cussí grando/ elo elo ch’el ze como Dio/ adesso el se oscura tremando”. Destinato, come gli altri imparati da ragazzina, a farle compagnia per tutta la vita.

martedì 14 dicembre 2021

MODA & MODI

 

L'anno che verrà sarà Very Peri

 

Kamala Harris in very peri al giuramento

 

 

Kamala Harris l’aveva scelto per il giorno del giuramento come vice di Joe Biden, il 23 gennaio scorso. Total blu, capospalla e abito firmati Christopher John Rogers, ma di una sfumatura particolare, con una punta di viola e di rosso. Un colore dall’impatto forte, reso ancora più asseverativo da quel lungo cappotto monopetto sotto il ginocchio che disegnava una linea imponente, forse troppo. Nulla è lasciato al caso in cerimonie come l’insediamento del presidente degli Stati Uniti, dove i colori hanno significati ben precisi, una sorta di linguaggio cromatico destinato a colpire l’immaginario del mondo e a trasmettere un messaggio. Kamala, scopriamo ora, era in anticipo sui tempi nell’esprimere energia e positività. In questi giorni infatti, quell’entità misteriosa che è il colosso americano Pantone, l’istituto che, dopo certosine valutazioni e ricerche in tutti i settori, cataloga i colori secondo criteri riconosciuti a livello mondiale e si pronuncia come un oracolo sulla tinta che caratterizzerà moda, design, beauty, arredamento per l’anno a venire, ha decretato la sua scelta: il 2022 sarà Very Peri, blu pervinca mischiato a viola e rosso, inedito e adatto a tempi fusion come quelli che viviamo.

 

Lady Gaga alla première londinese di House of Gucci

 


Avete presente Lady Gaga alla premiere londinese di “House of Gucci”? Era avvolta in un abito-mantello plissettato in chiffon di seta dell’ultima collezione Love Parade di Gucci in un viola indefinibile, un’alchimia di colori dirompente che la protagonista del film (interpreta Patrizia Reggiani e i suoi look minacciano di tormentarci nei mesi a venire...) faceva svettare sopra stivaletti stringati con platform vertiginose. Ecco, Gaga sfoggiava anche lei il Pantone 17-3938, ovvero il Very Peri. Che al di là del nome scelto, non felicissimo, rappresenta una novità: per la prima volta è un neo-colore, una tinta creata apposta per vestire la transizione che stiamo attraversando.

 

Un’anticipatrice della neonata nuance è stata anche Anya Taylor-Joy, l’attrice che ha spopolato su Netflix ne “La regina degli scacchi” (e, attenzione, le serie in streaming dettano stili quasi più delle passerelle), vestita ai Cfda Fashion Award in mini-tailleur Very Peri di Oscar de la Renta e come lei anche Nicole Kidman agli Instyle Awards, infilata in un Armani Privé viola ricoperto di paillettes. Prima del verdetto di Pantone, la nuova sfumatura era già nell’aria e sui red carpet.

 

Anya Taylor-Joy ai Cfda Fashion Award a New York

 


Dopo l’«ultimate grey» e il giallo «illuminating» del 2021, abbinata che sulla carta doveva dare forza e speranza, e che si è rivelato un matrimonio freddo e un po’ tristanzuolo, Pantone ha puntato sulla sferzata di vitalità. Leatrice Eiseman, direttore esecutivo dell’Istituto, ha spiegato che la famiglia del blu è stata il punto di partenza, perchè trasmette comfort e sicurezza. L’infusione di rosso e viola rappresenta invece una sorta di ponte cromatico verso il mondo digitale, quello che ha segnato gli ultimi mesi della nostra vita. Insomma, un colore “innaturale”, necessario per reagire a tempi innaturali. Studiato a tavolino per farci sentire Very Peri sia in presenza che da remoto. Funzionerà?