venerdì 27 febbraio 2015

IL LIBRO

Marino Niola, metti un vegano e un paleo-dietista a tavola... 



Vegani contro ortoressici, cultori della paleo-dieta versus seguaci della dieta del gruppo sanguigno, fanatici del crudo opposti ai puristi del cereale. Sushisti, vegetariani, popolo del gluten-free, paladini del no-carb. Anche a tavola si combatte una battaglia di opposti estremismi, ciascuno in nome del proprio credo alimentare, alla ricerca della formula magica se non per l’immortalità, almeno per la longevità.
Perchè il cibo è diventato una religione globale? Perchè intorno alla tavola si consumano contrapposizioni, scismi ed eresie, si formano sette e si lanciano anatemi? Quand’è, insomma, che siamo entrati nell’era dell’«homo dieteticus»? L’antropologo Marino Niola ha deciso di fare una ricerca sul campo, alla scoperta di tribù contemporanee più a portata di mano, ma esotiche e affascinanti almeno quanto quelle relegate ai confini del mondo: le tribù alimentari. E nel suo ultimo libro, per l’appunto “Homo Dieteticus” (Il Mulino, pagg. 145, euro 13,00), ci conduce in un viaggio colto e leggero alla scoperta delle loro passioni e ossessioni, quelle che spesso stravolgono sane abitudini in imperativi categorici, cancellando ogni piacere di convivialità e scambio. E che ci fanno vivere da malati, per morire sani. O almeno, magri.

L'antropologo Marino Niola
Capovolgendo Feuerbach, diciamo pure che oggi, in una società in cui il grande nemico non è più la fame ma l’abbondanza, noi «siamo quello che non mangiamo». La dietetica è diventata diet-etica, pratica fisica ma soprattutto morale, una religione senza Dio fatta di privazioni spontanee, penitenze laiche, rinunce autoinflitte, allo scopo di trovare la pace con se stessi, depurando il corpo da qualsiasi insidioso elemento possa attentare alla sua perfezione interna ed esterna. D’altro canto ogni religione, ci spiega Niola, dalla creazione di Adamo ed Eva fino alle cosmogonie primitive, inizia dalla plasmazione del corpo. Solo che ora siamo noi stessi, ogni giorno, a “plasmarci”, a “modellarci” e a sottoporci al giudizio non di un dio misericordioso o di un qualche santo con la bilancia della giustizia, ma a quello inappellabile di un’altra bilancia.
Se il regime alimentare è una fede, non c’è da meravigliarsi che si assista spesso a processi di “evangelizzazione” militante. E che si tenda a guardare con diffidenza, quando non con sincera disistima, chi segue altre regole o non ne ha nessuna. Potreste mai immaginare a una stessa tavola un seguace della “paleodieta” e un vegano? Ovvero un mangiatore di cacciagione e un vegetariano scismatico, l’ala integralista, che epura della sua mensa anche latte, uova, miele, tutti alimenti che considera ottenuti forzando le normali funzioni biologiche degli animali?
Intanto, facciamo chiarezza. Chi professa la “stone age diet”, la dieta dell’età della pietra, segue gli studi dell’etnologo Vilhjalmur Stefansson, esploratore dell’Alaska e grande esperto di cultura eschimese, secondo cui gli animali cacciati e pescati, insieme a bacche, radici e a qualche vegetale spontaneo, possono garantirci una lunga vita. L’alimentazione giurassica aborre tutti i regimi che contemplano cereali e carboidrati, dieta mediterranea in testa, incurante del fatto che quest’ultima sia riconosciuta dalla medicina ufficiale come uno dei sistemi nutrizionali più adatti a prevenire le malattie cardio-cerebrovascolari.
La carne è al centro della "paleo-dieta" (foto da www.ideegreen.it)
Tra paleo-mangiatori e vegani - talebanismo a parte - c’è però un punto di contatto: l’idea rassicurante di trovare un’armonia originaria. Il veganismo nasce nel 1944, suo malgrado da una “costola” della Vegetarian Society di Londra, capitanato dai vegetariani scissionisti Donald Watson ed Elsie Schringley, secondo cui lo stile di vita ideale è quello che non procura alcun danno agli animali. Non si tratta dunque solo di evitare cocktail di gamberetti, hamburger e frittate, ma di non portare scarpe di pelle (per le borse di coccodrillo non c’è proprio partita...), maglioncini di mohair o di cachmere, di non visitare zoo e acquari, templi della “cattività”, di boicottare l’equitazione e il circo. Gli adepti nel mondo sono in crescita, al punto che in America l’industria alimentare, attentissima al business, ha inondato i supermercati di “vegan junk food”, cibo spazzatura non violento, che è una sorta di transizione morbida verso la mensa veg, mentre il giornalista Mark Bittman ha lanciato il “vegan before six”: ortodossi fino alle sei, poi liberi di ingurgitare a piacimento, anche per non isolarsi troppo dagli amici onnivori. Perchè il rischio di ossessionarsi è concreto, e può limitare molto la vita sociale, a tavola ma pure a letto: i vegansexuals, infatti, rifiutano relazioni carnali con partner carnivori per non essere contaminati.
A proposito di ritorno ai ritmi naturali, a un’ideale, e assai problematica tavola, dovrebbero sedersi anche i modaioli “crudisti”, paladini di marinature, emulsioni, macerazioni in cui avvolgere pesci e carni, per far loro perdere scivolosità e ferinità in nome della seduzione del palato e dell’occhio. E dove sistemare i seguaci del naturopata Peter D’Adamo, secondo cui nei nostri gruppi sanguigni sarebbero contenute tolleranze e intolleranze, disposizioni e indisposizioni, che influenzano il sistema immunitario e il metabolismo, determinando la reazione agli alimenti? Dunque: gruppo zero, avi cacciatori, in tavola carne e proteine; gruppo A, agricoltori, pasta e verdura; gruppo B, progenitori nomadi, latte e derivati. 


Vegan before six (da www.berrybreeze.com)
Anche qui, il credo alimentare ha a che fare con la rassicurazione interiore: prendere ordini da madre natura ci fa sentire meno responsabili di scelte problematiche. La tribù più estrema è però quella degli “ortoressici”, ossessionati dai cibi che mangiano. È una vera e propria patologia, che coinvolge almeno il 15% dei tre milioni di italiani affetti da disturbi vari del comportamento alimentare. Crudisti e vegani sono tra le categorie a rischio degenerazione, ma anche gli atleti, sempre in competizione con se stessi e con gli altri e ansiogeni su tutto quanto ingeriscono.
L’Homo dieteticus è un essere complicato. Trascinato dalle mode, vittima di false credenze, preda di fobie collettive, esposto allo stupidario globish. Ma - avverte Niola - tutto questo non basta a spiegare una “cibomania” così forte e coinvolgente come quella odierna.

Alla base ci sono due potenti correnti sociali. Da una parte, quelle che Michel Foucault chiama “le tecnologie del Sè”, cioè l’insieme di conoscenze, esperienze, competenze che induce a prendersi cura del proprio corpo per essere sempre più belli, sani, giovani, attivi, longevi, potenzialmente immortali. Dall’altra, le spinte bio-politiche di grandi organizzazioni internazionali - Fao, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di cibo e agricoltura, Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e del commercio (Omc) - e il planetario business del benessere, una lobby che orienta la domanda di salute e bellezza, condiziona stili di vita, propone diete miracolose, facendo leva sul nostro bisogno di sicurezza ma anche su un desiderio di conoscenza e di cura personale che risale alla notte dei tempi.
Come far sì che l’homo dieteticus non diventi una specie in via di estinzione, vittima delle sue stesse cibo-fobie? L’autore, per restare in tema, evita le ricette. Ma pare suggerire un Qb, quanto basta, di tutto: salutismo, ecologia, economia e anche ideologia. Senza dimenticare la fantasia che, ai nostri nonni, serviva per temperare l’abbondanza di frugalità, a noi per realizzare la frugalità dell’abbondanza. Perchè alle religioni della tavola abbiamo sacrificato tanto. Soprattutto il gusto.
twitter@boria_a

mercoledì 18 febbraio 2015

IL FILM

Advanced Style, sette icone d'antan raccontano i loro segreti


Jacquie “Tajah” Murdock ha realizzato il suo sogno: diventare modella per l’haute couture. Ce ne ha messi di tempo e di dedizione, lei, ragazza di colore cresciuta ad Harlem, ma appassionata di moda fin da bambina, a passeggio lungo la Settima Avenue col padre, orgoglioso del suo completo e del cappello Stetson. «Volevo fare la modella da quando avevo 18 anni - racconta guardando dritta nella telecamera, nonostante i seri problemi di vista - ci sono riuscita a cifre invertite, adesso che ne ho 81». Filiforme, scavata, con la postura naturale di una lunga carriera da ballerina all’Apollo Theater di New York, Jacquie ha posato per la campagna 2012 di Lanvin.

Jacquie "Tajah" Murdock, 81 anni
Joyce Carpati ha 80 anni, un viso senza tempo e un obiettivo perseguito tutta la vita: «Non apparire giovane, ma essere grandiosa». Giornalista per il gruppo Hearst, dove ha lavorato a Cosmopolitan e Good Housekeeping, Joyce ha coltivato la “carriera parallela” dell’opera, studiata a Milano a sedici anni: «Vedevo le donne uscire per strada la mattina con i loro bei tailleur, i maglioncini e un filo di perle. Volevo essere così». Ci è riuscita: pelle d’alabastro, curata maniacalmente con la vaselina, un filo di rossetto e una retina sui capelli, a evidenziare, con civetteria, solo la folta treccia argentea, avvolta intorno al capo come un diadema.
Joyce Carpati, 80 anni
Lynn Dell Cohen, autoproclamatasi “contessa del glamour”, svetta anche lei sugli ottanta e da oltre la metà gestisce nell’Upper West Side la boutique “Off Broadway”, che il marito l’ha aiutata a comprare per tenerla lontana da guai e tentazioni extraconiugali. «Lo stile o si ha o non si ha. Ma si può imparare», dice questa energica signora dalle labbra sanguigne e la passione per gli accessori estremi. Nel suo negozio - «il più longevo spettacolo in cartellone», ridacchia - galvanizza anonime casalinghe ageée mai spintesi tanto oltre, ma improvvisamente fulminate dal suo esempio su quanto bene possano fare all’autostima un paio di enormi occhiali di cellulosa gialla o un anello grande come un disco.
Lynn Dell Cohen, 80 anni
Jacquie, Joyce, Lynn. E ancora Tziporah Salamon, 62 anni, che sfreccia per New York nei suoi vestiti vintage e senza caschetto, «per non distrarre chi mi guarda»; Ilona Royce Smithkin, 93 anni, artista e insegnante di pittura, con un paio di interminabili ciglia finte color rame che si confeziona da sè, con i suoi capelli; Zelda Kaplan, 95 anni, dolcemente smemorata e perfetta nei suoi completi accessoriati di cappello, le cui stoffe sceglie e assembla girando il mondo. Infine Debra Rapoport, 67 anni, eccentrica signora modellata dallo yoga e i capelli con guizzi fucsia, che considera il suo corpo “una scultura” su cui sperimentare e ha un fede incrollabile non nella moda, ma «nella capacità di guarigione dello stile».
Come chiamarle? Anziane eleganti, stravaganti e alcune anche un po’ “tocche”? Terza età creativa? Vecchiette coraggiose e simpaticamente esibizioniste?
Lina Plioplyte e Ari Seth Cohen le hanno definite “Le signore dello stile”. Il loro docu-film “Advanced style” esce oggi in tutta Italia e, al cinema ai Fabbri di Trieste, resterà in sala fino al 25 febbraio.
La pellicola è nata dal blog di Ari Seth Cohen che dal 2008, pattugliando le strade di New York, fotografa eccentriche, raffinate, sublimi, esagerate, pazzoidi vegliarde, tutte sopra i sessanta, serenamente consapevoli che il tempo passa ma che, ugualmente, quello che resta può essere riempito di vita e di idee, a cominciare dal guardaroba. Non vecchie patetiche che vogliono sembrare giovani, ma donne botox-free, orgogliosamente coperte di rughe (o con una loro ricetta per le rughe, chiedete a Joyce...) che trasmettono un’impareggiabile lezione di vita: l’età non è che uno stato d’animo.
Debra Rapoport, 67 anni
Da tempo, pubblicità e moda, hanno scoperto le testimonial “over”. Ultima in ordine di tempo Céline, griffe intellettualoide, che ha scelto la scrittrice Joan Didion, 80 anni. Non a caso, il film di Plioplyte e Cohen si apre con l’icona d’antan per antonomasia, Iris Apfel, 93 anni, “rare bird of fashion” come la definì nel 2007 il Metropolitan Museum di New York nella mostra dedicata alla sua strepitosa collezione di abiti. Con la sua eterna aria di saggia civetta dietro gli inconfondibili occhialoni tondi, Iris, già volto dei cosmetici Mac nel 2012, dichiara: «Le donne di una certa età sono mortificate, umiliate, assediate. Ovunque guardi ci sono ragazze taglia quaranta, ben truccate, che indossano abiti meravigliosi. Come è possibile essere come loro?».
Le sette arzille newyorkesi ci danno la risposta senza esitazioni: per essere icone di stile, non c’è limite di tempo. E le difficoltà possono essere superate con eleganza, prendendo esempio da Lynn, che dopo tre operazioni, dalla sua stanza di ospedale, confessa: «Quando potrò truccarmi nel modo che preferisco per gli anni che mi rimangono, sarà il giorno più bello della mia vita».
Non c’è buonismo in “Advanced style”. Le “icone” sono acciaccate, ci vedono poco, la memoria le sta abbandonando, hanno mariti invalidi cui badare. La più longeva, Zelda, ha un attacco di cuore nel front row, prima fila davanti alla passerella. «Un modo straordinario per andarsene», si consola Debra. «Era dove stava bene, vestita grandiosamente, facendo parte di quel mondo. Sentendosi viva».

twitter@boria_a

Iris Apfel, rare bird of fashion, 93 anni

lunedì 16 febbraio 2015

IL FILM
Norma Cossetto è "Rosso Istria"


Si intitolerà “Rosso Istria” e a fine giugno sarà girato anche a Trieste e in paesi della provincia di Gorizia e Udine che abbiamo un “sapore” istriano, perchè il regista teme che oltreconfine possano sorgere problemi a maneggiare armi, per quanto su un set cinematografico. Lui è il padovano Antonello Belluco e alle polemiche ha fatto un callo recente, dopo il marasma suscitato dal suo ultimo lavoro, “Il segreto d’Italia”, sull’eccidio di Codevigo del 1945, quando 136 tra fascisti della Guardia nazionale e delle Brigate nere, e civili (ma la cifra non è certa, c’è chi dice molti di più) furono sommariamente giustiziati per mano di partigiani, tra gli altri della 28° Brigata Garibaldi.
Adesso Belluco si prepara ad affrontare un altro episodio delicato: il “rosso” dell’Istria è infatti il sangue di Norma Cossetto, la ventitreenne di Visinada, laureanda all’Università di Padova, che nel settembre 1945 venne arrestata a, ripetutamente violentata dai partigiani titini nel carcere ricavato nella scuola di Antignana e gettata a morire nella foiba vicino Villa Surani. Nel progetto è coinvolto anche Simone Cristicchi che, dopo il successo (e le polemiche) di “Magazzino 18” scriverà la colonna sonora del film e la canzone “Rosso Istria”, di cui verrà girato un videoclip. «A settembre avevo invitato Cristicchi a Piemonte d’Istria - racconta Belluco - non ha potuto venire, ma avevamo già stabilito un contatto virtuale. Quando sono scoppiate le polemiche sul “Segreto d’Italia”, ha preso le mie difese. Abbiamo iniziato a chiacchierare, poi Cristicchi è venuto a Padova e ci siamo conosciuti. Condividiamo idee e obiettivi: nè interessi commerciali, nè scopi revisionisti. Quando Gerardo Fontana, sceneggiatore ed ex sindaco di Codevigo, mi ha invitato a fare il “Segreto”, ho accettato: portare alla luce una verità non detta non vuol dire fare un’operazione revisionista».
Norma Cossetto nel 1942 con il fidanzato Alberto Jacobacci

“Il segreto d’Italia” e “Rosso Istria” nascono, per Belluco, da una spinta diversa. Fu Fontana (che è morto nel giugno 2013), sceneggiatore di prodotti di successo come “Centovetrine”, ex primo cittadino di Codevigo eletto in una lista di sinistra, a chiamare il regista padovano. «Avevamo un vissuto familiare simile, Fontana lo sapeva», racconta Belluco. «Suo cugino, Farinacci Fontana, 18 anni, figlio del capo delle Brigate nere del paese, fu ucciso da un partigiano della “Garibaldi”, nonostante non avesse fatto nulla. il padre si salvò consegnandosi ai carabinieri, il ragazzo, innocuo, fu giustiziato. Gerardo Fontana mi chiese aiuto per costruire questa storia, che però non mi apparteneva direttamente».
Per Norma Cossetto, invece, il regista parla di una sorta di “dovere”. «Mia nonna era slovena - dice - di Villa del Nevoso. Mio nonno italiano, ufficiale della Brigata Sassari a Trieste. Si sono sposati a Villa del Nevoso, dove sono nati mia madre e mio zio, poi si sono trasferiti a Fiume. Lì sono stati arrestati. Mi ricordo i loro racconti, la grande delusione provata al vedere che le persone conosciute, il macellaio, il barbiere, da un giorno all’altro erano diventati nemici.... Una volta liberato dalla prigione, mio nonno si trasferì a Trieste, poi a Padova, dove aveva un cugino, evitando il campo profughi. Arrivarono con solo quello che avevano addosso. Non c’è stato modo di far tornare mia nonna in Slovenia, mai - prosegue Belluco -. Mia madre ci tornò negli anni ’70 e ritrovò la sua vecchia baby-sitter».
Il film si baserà sulla ricostruzione storica, ma non sarà «nè didascalico, nè documentaristico». «Norma si sta per laureare a Padova, ma dopo l’8 settembre torna a Visinada. Vive la destabilizzazione del paese, le voci che cominciano a correre, la paura della sopraffazione e la certezza che qualcosa sta per capitare. Accanto all’obiettività storica - anticipa Belluco - cercherò l’introspezione, mi immaginerò i dialoghi di Norma con la madre, con le sorelle, con l’amica...».
L’attrice protagonista, cercata per mesi, è stata trovata via internet («per lei mi lascio guidare dall’istinto», dice il regista) e ha un’incredibile somiglianza con Norma Cossetto, ma ci sarà anche «qualche nome grosso, che darà da richiamo». Il film sarà co-prodotto da Venice Film ed Eriadorfilm e dovrebbe essere pronto per il Giorno del ricordo del 2016. Belluco si rivolgerà anche alla Film commission del Friuli Venezia Giulia dove, dopo il set a Padova, girerà a giugno. «Le polemiche? Ci sono abituato, non mi spaventano. La difesa di Cristicchi del “Segreto d’Italia” ha avuto undicimila condivisioni in rete. La contestazione è partita a Padova, ma il film è rimasto in sala tre settimane, a Natale, scalzando De Sica e Ficarra e Picone. E a TheSpace guardano gli affari, mica le chiacchiere. Ha fatto 26 mila euro d’incasso e l’hanno visto oltre tremila persone. Da lì hanno cominciato a chiedermelo. A Trieste è stato nei giorni scorsi, adesso esce a Vittorio Veneto, Bologna, Ravenna, in più città della Sicilia, lo vuole il sindaco di Latina... Scriverò un libro sulle vicissitudini che l’hanno accompagnato, sarà “Il mio segreto d’Italia”...». “Rosso Istria” un’altra sfida? «Mi auguro - conclude Belluco - che ci si limiti sempre ai litigi verbali, le contestazioni che Cristicchi ha subito a Firenze sono tristi... Io però vado avanti a testa alta. Mi sono laureato in Scienze politiche a Padova nel ’79-80, insegnavano Toni Negri e l’ex ministro Brunetta. Quei tempi sono passati...». 
@boria_a

Antonello Belluco regista di "Rosso Istria"

MODA & MODI: tra nudi e disossati, rivogliamo Richard Gere

E adesso ci mancava anche Mr. Grey, con i suoi completi sartoriali color inox, a confonderci le idee. Quadricipiti femorali, glutei, tartaruga. Ecco le sfumature - anzi sottolineature - muscolari molto più interessanti di quelle sado, sotto le aspettative.
Quanti tipi di uomo affollano il nostro immaginario, dalle passerelle al grande schermo. Abbiamo cominciato a vacillare qualche settimana fa, con lo stilista americano Rick Owens alla settimana parigina della moda. Escono i modelli e l'attenzione è subito risucchiata dai genitali che ondeggiano (o occhieggiano)"full frontal", complice pure un oblò in loco. Tutti a fare "wow" di finto orrore o reale compiacimento per la rottura del tabù della nudità maschile in passerella, a esercitarsi in apprezzamenti su consistenza e misure (e qui sì siamo agli sdilinquimenti sulle sfumature, di centimetri).
La sfilata maschile di Rick Owens a Parigi

Ma che uomo sfilava sotto quegli incomprensibili tendaggi, quelle tuniche con il buco davanti, da utilizzo funzionale più che erotico? Confuso, inerme e così disorientato da voler subito correre in suo soccorso con un paio di mutande, al grido di “ricopriti!”.
E dopo l'esibizionista inconsapevole, è arrivato il disossato. Firmato Gucci, il primo maschio del dopo-Frida Giannini, attribuito al designer Alessandro Michele, ha i fianchi mollemente disarticolati, i capelli lunghissimi e lisci, il ventre incavato.


Gucci uomo, prima sfilata dopo Frida Giannini
A cavallo tra i sessi, in quella zona grigia dei generi che oggi è molto frequentata dalla moda (e non è neppure una novità, gli efebi denutriti li abbiamo anticipati a Trieste, grazie a Niels Peeraer, Its 2010), questi esseri si coprono di camicie di chiffon, t-shirt di pizzo e pantaloni simil-pigiama, amano i fiocchi e i tocchi di pelliccia.

Se il denudato strappava un risolino, l’angelo del quarto sesso, l’uomo-proteo che abbraccia in sè, ecumenicamente, maschi e femmine, etero e omo, ci fa scappare a gambe levate con un filo di inquietudine. Si vendicherà su di noi della sua fragile sorte?
Mr. Grey, dallo schermo, vorrebbe rassicurarci, sfoggiando una muscolare Savile Row, ma il completo impeccabile non basta a fugare il sospetto del trucco. Già lo sappiamo dal libro, c’è qualcosa di marcio da quelle parti (che aspetta pure di essere redento) e potrebbe non piacerci.
Che nostalgia per American Gigolò e il mono-espressivo Richard Gere, per i sessi separati degli anni ’80, per quei vestiti di Armani così morbidi, ma prevedibilmente, convintamente maschi. 
@boria_a

Richard Gere in "American Gigolò" (1980)

sabato 7 febbraio 2015

LA MOSTRA

Trieste in stile New York, correva verso la guerra

La mostra "La grande Trieste 1891-1914. Ritratto di una città" all'ex Pescheria di Trieste (foto di Francesco Bruni dal Piccolo)

Il 30 dicembre 1909 sbarca a Trieste il principe Tsai Fhung, a capo di una missione di studio dell’Imperiale marina cinese, in visita al cantiere San Marco. La fotografia dell’aristocratico orientale - una figurina minuta, colta mentre incede speditamente nell’abito lungo e svolazzante, seguito dalle occhiate curiose di una delegazione di gentiluomini in completo scuro - è una delle sedici “immagini sospese” che all’ex Pescheria, fino al 3 maggio 2015, raccontano “La grande Trieste”. Dal 1891, anno dell’abolizione del porto franco, allo scoppio della Grande guerra, 1914: quasi un quarto di secolo in cui Trieste assume, esteriormente, la connotazione odierna, scandita dai grandi palazzi che testimoniano un’economia già solida, ma vivace e in crescita, un composito tessuto industriale e non solo portuale, una cultura multiforme, una pluralità di voci e di comunità, di cui sono espressione le arti, la musica, il teatro, l’associazionismo, il confronto sui tanti giornali, in italiano, sloveno, greco. Una sorta di “Trieste delle meraviglie”, New York in miniatura proiettata verso il mondo, dove un ingegnere boemo avrebbe potuto agevolmente scendere dal treno alla stazione centrale per poi imbarcarsi, dal lato sud del Molo IV, sul piroscafo Helouan, alla volta di Alessandria d’Egitto: pochi scali e servizio prestigioso, riservato all’aristocrazia europea e ai top manager dell’imprenditorialità.
Industria, porto, e terziario già all’avanguardia nelle campagne di marketing e di promozione, come testimoniano le immagini, quasi dannunziane, di aviatori o di bellezze femminili, che le Assicurazioni Generali fanno inserire nei pacchetti di “spagnolette” e che danno diritto a uno sconto sulla polizza. O l’Agenda della padrona di casa, gadget datato 1898, in cui accanto a una sorta di scadenzario del bucato, c’è l’invito, amabilmente intimidatorio, a una sana gestione del budget familiare rivolto alla gentile signora: È troppo caro?
Le foto “sospese” tracciano una sorta di galleria ideale di questo capitolo di storia recente ma ancora poco conosciuta, offrono spunti e collegamenti, suscitano curiosità che il visitatore potrà approfondire andando alla riscoperta di documenti, giornali, dipinti, modellini custoditi nelle collezioni della Fototeca dei Musei civici, del Revoltella, del Museo Schmidl, dei Musei Scientifici, della Biblioteca civica. Alla cordata di istituzioni comunali - perchè questa è mostra “autarchica”, che in tempi di magra punta a valorizzare le raccolte di casa - si affiancano lo spazio curato dalla Biblioteca nazionale slovena e quello riservato all’Archivio storico delle Generali, da cui proviene anche la singolare macchinetta distributrice automatica di polizze, destinate ai viaggiatori di terra e di mare per ventiquattro ore, in uso nell’Ottocento: 10 centesimi in cambio di un ipotetico premio di 3000 lire in caso di morte, mille per un occhio, trecento per la perdita di “almeno” tre dita.



Distributore automatico di polizze assicurative Generali: 10 centesimi per 24 ore
Sono trecento, in totale, le fotografie stampate appositamente per realizzare questo che, amministratori e curatori, hanno definito un “incubatore” di suggestioni. Cinquanta i metri lineari di bacheche, uguali a quelle in uso a Vienna e appartenenti al Museo di storia naturale, nell’epoca d’oro il terzo per importanza in Italia, con direttori che erano scienziati di fama e curavano rapporti internazionali, come testimoniano i coccodrilli esposti, omaggio o acquisizione da omologhe istituzioni estere. Tredici i chilometri di cavi nautici che, sotto il soffitto della Pescheria, ne riproducono il cassettonato, in otto colori diversi, simbolo delle comunità e delle componenti diverse della Trieste “plurale”.
Le immagini appese si misurano con l’altezza della Pescheria, anch’essa orgogliosamente appartenente all’epoca rappresentata in mostra, e rimandano alle dieci aree tematiche ricavate ai lati. Si parte dal 1849, quando Trieste viene riconosciuta “città immediata dell’impero”, col privilegio di un rapporto diretto col sovrano, per poi approfondire l’adozione delle più innovative tecnologie in tutti i campi, dal telegrafo, all’illuminazione elettrica, al cemento armato per le costruzioni portuali, quindi passare alle proiezioni marittime, esaltate dal Lloyd Austriaco e dalla Compagnia austro-americana dei fratelli Cosulich specializzata nelle rotte del nord e sud America, entrambe tra le più importanti al mondo, ma anche dagli armatori delle compagnie libere triestine. Nel 1893 l’Austria decide di premiare le costruzioni navali effettuate nei cantieri nazionali: vent’anni dopo, il successo di quest’incentivo è rappresentato nel dipinto di Timmel in mostra, punteggiato di navi, sul cui nome e appartenenza si lavorerà in futuro. È la prima opera documentata di grandi dimensioni del pittore, per un valore di oltre mille corone, donato dagli armatori al Museo del mare a testimonianza della capacità di crescere e della volontà di far crescere anche la cultura cittadina.
Dal Museo Schmidl arrivano le istantanee della Trieste “scatola magica” di educazione artistica e divertimento, con immagini del Verdi, del Filodrammatico (l’ultima recita prima della chiusura), dell’Armonia, del Rossetti, del Fenice, del Minerva, della sala teatrale del Narodni Dom, della Società Filarmonico Drammatica e dello Schillerverein. La Festa delle Bambole al Verdi nel 1907, una Grande Cavalchina al Rossetti del 1905, le allieve del maestro Coronini con i loro strumenti a corda, la costituzione del Circolo mandolinistico, un ritratto di Eleonora Duse dedicato “al signor Morpurgo”, si affiancano ai preziosi strumenti musicali, ai costumi teatrali, alle locandine, tra cui una “Dannazione di Faust” firmata da Dudovich, per suggerire l’ambiente colto che fa da cornice al fervore economico, spaziando dalla lirica al cabaret.
Costumi teatrali del museo Schmidl di Trieste
Ma torniamo sotto la galleria “sospesa”, immaginando che cosa avrebbero potuto vedere il principe Tsai Fhung e l’ambasciatore Leu Pou Dong durante la permanenza in città, che festeggia l’importante delegazione sulle note dell’inno cinese suonate dal Reggimento Bosno-erzegovino, tra l’entusiasmo di una folla trattenuta a stento. Un anno prima, il 1° novembre 1908, a Trieste è stato aperto il frenocomio di San Giovanni e i pazienti già lavorano nei laboratori del comprensorio. In tutt’altro scenario (e alcuni anni dopo, nel 1913), la famiglia Basilio si lascia immortalare dal pittore comunale Pietro Opiglia - che non disdegna di fare il ritrattista o il fotoreporter - nella villa di Grignano con le racchette da lawn-tennis, sport diffuso in città dal 1896. Due anni dopo, nel ’98, in via Murat nasce il Lawn Tennis Triestino, che raccoglie gli appassionati della disciplina.

La famiglia Basilio nella villa di Grignano con le racchetthe da lawn-tennis, 1913
Sono ricordi che già sbiadiscono la grande festa della Lega Nazionale in piazza Grande, nel 1902, e lo sciopero dei fuochisti, il 2 febbraio dello stesso anno, contro straordinari non pagati e obbligo di turnazioni di guardia più pesanti.

Per la prima ascensione dell’aerostato, il principe avrebbe dovuto attendere ancora un anno. È il 30 aprile 1910 quando il pallone prende il volo, riempito di gas dal concittadino Otto Pollach. Un’immagine degna della Trieste delle meraviglie, che quattro anni dopo, il 2 luglio 1914, avrebbe seguito il funerale di Francesco Ferdinando e Sofia. E forse un po’ anche il suo.
@boria_a

lunedì 2 febbraio 2015

MODA & MODI: le birkenstock? Oriented, mai deluxe

I furry sandals di Celine
Perchè nobilitare le birkenstock? Perchè riscattarle dalla loro teutonica sobrietà per metterci fronzoli, colori, pelliccia, perchè snaturare i loro rassicuranti connotati con un lifting riuscito male?
È storia vecchia che le ciabattone tedesche risvegliano il manicheismo in ognuno di noi: sono l’equivalente dell’animalier, o si amano senza esitazioni o mettono i brividi. Non sono soltanto una calzatura, sono sandali “oriented”, come ben sa (o finge di non sapere) chi li porta. Molto più schierati delle svampite, trasversali e qualunquiste crocs.
Le birkenstock sono comode, pratiche, lasciano respirare il piede, vanno bene con qualsiasi tipo di abbigliamento sportivo: e fin qui, le ragioni degli osservanti. Ma fanno anche sapere a tutti che, se le hai ai piedi, oltre a non temere di sporcarteli (e per estensione le mani...), sei genericamente “friendly” verso l’ecologia, gli animali, i tessuti bio, le cause nobili, il mondo, il prossimo, i negozi solidali. I detrattori per lo più non appartengono alla composita area “dem” o, semplicemente, le giudicano informi, sgraziate, ciabattanti, irredimibili.
Eccolo, il punto. Peggio della birkenstock c’è solo la birkenstock del glam 2.0. Che vuol fare la consapevole, ma costa centinaia di euro. Che sotto il ritocco è rimasta una ragazzona pannonica, tagliata con l’accetta. Che si atteggia a sostenibile con i soldi di papà.
Ci aveva già provato Céline con i “furry sandals” per la primavera-estate 2013, in pratica una birkenstock con soletta o carapace di pelo (al posto dell’ordinario feltro), quotata oltre i mille euro. Siccome le stagioni non esistono più, quindi si inventano, il loro utilizzo va presumibilmente collocato in quella zona grigia del meteo dove non c’è più neve, pioggia, fanghiglia sulle strade, ma la pelle non ti si attacca ancora all’asfalto. Burberry per il 2015 li chiama “The field sandal”, arcadico sandaletto da campagna (450 euro), dai colori brillanti, suola inclusa, e cuoio morbido.
Ma ci vuole ben altro per ingannare, noi, talebane paladine, puriste della tedesca autentica. Le due cinghiette, per quanto vezzose, sono una citazione bell’e buona. E poi, il sostantivo rivelatore: “respirabilità”. Quello che, unito a praticità e comodità, ci fa amare o odiare le birkenstock polically correct, il sandalo “antagonista”. Per la versione deluxe, la respirabilità non sarà mai una preoccupazione.
@boria_a

The field sandal firmato Burberry