domenica 20 febbraio 2022

MODA & MODI

 Il rosa 2022, colore non binario

 

Jacquemus


Il rosa si diffonde nelle vetrine, in alcune una nota sottile, in altre accampandosi come il colore che fa da ponte verso la nuova stagione. Tenero, baby, shocking, fucsia, virato sulle vibrazioni del lilla, o annacquato fino a diventare ostrica, ci spinge a familiarizzare con l’idea di lasciare indietro, di staccarci dalla gamma dei neri e dei grigi, o dalla palette autunnale, per scegliere almeno un accessorio della tinta che porta con sè l’idea di qualcosa che si schiude, di un altro inizio. Questo rosa infantile sembra innocuo, ma accostarlo e indossarlo evitando l’effetto Barbara Cartland richiede sempre un bell’esercizio di misura. Le vetrine ci rimandano molti total pink, interi tailleur, vestiti lunghi fino alle caviglie, pullover e gonne ton sur ton, che allenano l’occhio e il nostro senso critico a rifuggire dall’overdose.

 

La scrittrice Barbara Cartland

 


È un rosa da guardaroba femminile, ma non solo. Anzi, l’aspetto più interessante e originale ha a che fare proprio con la perdita di qualsiasi connotazione di genere legata a questo colore. Agli inizi del Novecento, la ripartizione cromatica per sessi era rovesciata: il rosa apparteneva al maschio, in quanto derivazione del rosso, espressione di vigore e forza, mentre alle femmine era riservato l’azzurro, più tenue e delicato, virginale e remissivo, per associazione al mantello della Madonna. Fino alla seconda guerra mondiale non c’è una categorizzazione secca dei colori, anche se dagli anni Trenta gli uomini cominciano ad adottare tinte scure, legate al mondo del lavoro, lasciando alla sfera domestica delle donne una palette più tenue. Nei lager, però, gli internati omosessuali erano distinti dal triangolo rosa.


Le operazioni di marketing degli anni Ottanta cambiano la prospettiva: rosa per le donne, dalla culla all’età adulta, passando per abbigliamento, giochi, cosmetici, accessori. Il maschio progressivamente si spoglia dell’azzurro, amplia la gamma, mentre la connotazione cromatica al femminile è dura da smantellare e per convenzione giornalistica resiste nei titoli: squadra rosa, vittoria in rosa, stagione tutta rosa, a definire con un aggettivo la prevalenza o la componente donna. 

Il simbolismo abbraccia gli estremi: da una parte ci sono le “quote”, dove dal recinto si passa al ghetto, dalla parte opposta il “pussy power hat”, il berrettino di lana con le orecchie che nel 2017 ha vestito la rivolta delle gattine contro il sessismo di Trump e di tutti i predatori stanati dal #metoo.


Il rosa 2022 non esprime radicalizzazioni. Si distribuisce sulle passerelle maschili e femminili, interpretando al meglio quanto ha detto Pierpaolo Piccioli, direttore creativo di Valentino: “non esistono uniformi ma persone e i colori sono di tutti, di tutte le persone”. Dai berrettini da baseball ai completi alla Gatsby, passando per felpe, soprabiti, pull e pantaloni, esiste un’infinita gamma di rosa per lui, in tutte le sfumature, senza nessuna sdolcinatezza. Il 19 marzo al Victoria & Albert Museum di Londra aprirà la mostra “Fashioning masculinities”, dove, raccontando l’evoluzione dell’uomo attraverso il guardaroba, si riabbracciano i concetti di ornamento, frivolezza, mollezza. E il rosa ritorna alle origini, colore non binario, adatto a tempi fluidi.

giovedì 17 febbraio 2022

L'INTERVISTA

Capucci: "Valentina Cortese voleva

essere grande, nei miei abiti più difficili"

 


 

 «Ho conosciuto Valentina Cortese agli inizi della sua carriera. Venne da me inizialmente come cliente, poi siamo diventati anche molto amici. Ci accumunava la passione per il grande teatro di prosa, per me lei era un mito, una interprete eccezionale tra attori e registi eccezionali».


Gli abiti di Roberto Capucci, dal guardaroba di Valentina Cortese, saranno battuti all’asta a Milano nella prima tornata dell’1 marzo 2022, ma potranno essere ammirati nelle sale di Palazzo Crivelli, in concomitanza alla Milano Fashion week, il 25, 26 e 27 febbraio 2022. Un trionfo di colori, cascate scenografiche di volants, ampie maniche a pipistrello, mantelle dall’alto collo a scialle. Abiti su cui il tempo ha lasciato il segno, al punto da aggredire e “bruciare” sete e chiffon.


Capucci, come piaceva vestire a Valentina Cortese? Voleva solo vestiti molto importanti e soprattutto dovevo disegnarle abiti che mettessero in risalto la sua personalità. Quasi mai il nero, solo gran colori, dal rosso al verde al fucsia. Sceglieva modelli di tutti i generi, sia costruiti che morbidi. Dovevano essere molto significativi, era la caratteristica principale che chiedeva. 


Che tipo di donna era fuori dalla scena? Spiritosa e allegra e non parlava mai male di nessuno, qualità che io apprezzo molto. Amava l'arte e la cultura, era curiosa e intelligente, era sempre un piacere e una sorpresa parlare con lei.


Un aneddoto relativo alla vostra amicizia? Un giorno mi telefonò per portarmi Anna Magnani. Ero molto contento, ma purtroppo non legammo e istintivamente, nonostante la Magnani avesse ordinato cinque vestiti, io non li misi in lavorazione, sentivo che non sarebbe andata bene. Poi telefonai a Valentina Cortese ringraziandola e spiegandole che non ero convinto. Valentina mi rispose che capiva e giustificò l'atteggiamento della Magnani dicendo che c'erano troppe donne belle nella mia sartoria.


Tra gli abiti che vanno in asta due dei Capucci sono i più preziosi. Com’è nato il kimono? Erano dei vestiti presentati in collezione, dove io mettevo sempre ispirazioni diverse. Valentina si innamorò di quello di ispirazione orientale, con il sopravestito a kimono, ed effettivamente lo portava in una maniera magica.


L’altro in seta e chiffon blu notte è quello che voleva copiare Raffaella Carrà ma lei lo impedì, non è vero? No, non lo impedii perché era un abito pubblicato e tutti lo possono rifare. Soltanto che il mio era confezionato in sartoria, quello della Carrà non so.


Come definirebbe lo stile di Valentina Cortese? Il suo guardaroba era quasi tutto firmato Capucci...  È vero, ero il suo sarto preferito, ma la cosa più importante è che eravamo amici. Valentina era una donna particolare, a parte la bellezza, con un volto straordinario, aveva la sicurezza di portare i miei vestiti, anche i più difficili, con estrema nonchalance. Il suo stile era di essere "grande".


È d’accordo che il suo guardaroba vada all’asta per beneficenza? C’è chi lo vorrebbe mantenere unito, magari sotto la tutela di una fondazione... Nella mia Fondazione ho già dei vestiti che mi lasciò Valentina Cortese e li conservo con molta cura per poterli mostrare al pubblico in iniziative culturali che diffondano la conoscenza delle lavorazioni nel campo della moda nel suo insieme e del mondo del tessile in particolare. Quest’asta ha uno scopo benefico, per chi ha bisogno, e io sono favorevole a questo tipo di interventi a sfondo sociale.

IL PERSONAGGIO

Valentina Cortese

all'asta il suo mondo triestino

de Sabata, Strehler, l'amica Leonor Fini

 

Gli amori, gli incontri. I registi, i colleghi, le teste coronate, racchiusi nelle cornici d’argento delle fotografie. Gli arredi, le suppellettili, le porcellane, i dipinti. Abiti da sogno e il sogno dell’arte, che si respira in ogni pezzo. La mondanità e l’intimità. Il mondo, pubblico e privato, di un’artista e di una donna, dal palcoscenico, allo schermo, agli affetti più gelosi e custoditi.

 

"Ritratto di Valentina Cortese e di suo figlio" di Leonor Fini

 


Molto della vita di Valentina Cortese, l’ultima grande diva, morta il 10 luglio 2019 a 96 anni, andrà all’incanto l’1 e 2 marzo 2022 a Milano. Arredi e guardaroba provenienti dalle sue residenze di Milano, l’ex conventino in piazza Sant’Erasmo, e della Giudecca a Venezia, che saranno battuti dalla casa d’aste Il Ponte in due tornate da remoto, per uno scopo benefico. È il congedo e l’abbraccio alla città di una sua figlia amata e celebratissima, che ha scelto di destinare i proventi della vendita a favore dell’Istituto di ricerca Mario Negri, cui fu sempre vicina, e della sua seconda casa, il Piccolo Teatro, dove per la prima volta andò in scena nel 1959. 

«Stavo per firmare il contratto di un film - ricordava l’attrice - ma il buon Dio volle che Paolo Grassi mi avesse appena vista in Amarsi male di François Mauriac diretto da Orazio Costa. Gli piacqui così tanto che venne in giacca e cravatta a Roma per propormi di persona il ruolo di Sofia in Platonov e gli altri di Anton Čechov al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giorgio Strehler». 

 

Valentina Cortese col figlio Jackie e il marito Richard Basehart

 


C’è tanta Trieste in questi capitoli della sua vita che Valentina Cortese ha scelto di affidare in custodia ad altri. Strehler, regista, maestro, amore furioso. Che vediamo in un’immagine poetica de “Il giardino dei ciliegi” del 1973, inginocchiato sul palcoscenico, la mano tesa verso di lei, la sua Ljuba, tutta vestita di bianco, come l’ombrello rovesciato al suo fianco. «Ma abbiamo insieme una cosa bellissima da fare, Valentina: - le scrive Strehler durante le prove dello spettacolo, il rapporto ormai al capolinea - una nostra nuova creatura che non è nè la prima nè l’ultima della nostra storia. È una delle tante, sebbene certo una delle più importanti. Il nostro discorso, cara, continua così, come può, con i nostri vecchi cuori che battono impazziti, le nostre memorie, le nostre speranze».

 

Valentina Cortese nell'abito kimono di Capucci (foto Fiorenzo Niccoli)

 


L’album fotografico si apre con i tre ritratti del lotto n. 1, un altro artista che segna la vita e l’inizio della straordinaria carriera di Valentina Cortese, il compositore e direttore d’orchestra triestino Victor de Sabata. Ha appena diciassette anni, Valentina, quando lo conosce, a Stresa, dove passa lunghi periodi con la nonna materna, e per seguire quell’uomo, più grande di trentun anni, sposato e con figli, fugge a Roma dove studia recitazione e inizia a farsi notare dal cinema. Nei tre ritratti in asta vediamo de Sabata impegnato a dirigere, seduto in poltrona con un foglio tra le mani, forse una partitura, e sorridente in primo piano, l’onda dei capelli bianchi e il profilo scolpito. «Fu un uomo speciale e meraviglioso. Persi la testa. Lasciai il liceo, mi trasferii a Roma», scrive lei nella sua biografia “Quanti sono i domani passati”. Quando il rapporto si chiude, lei vola a Hollywood.

 

Il direttore d'orchestra triestino Victor de Sabata

 


Spostiamoci idealmente nel salotto di Valentina Cortese dove una fotografia ci restituisce un momento che sembra di grazia. Sul divano, sorridente e senza l’iconico foulard, abbraccia l’unico e adorato figlio Jackie, vestito da marinaretto, accanto all’attore americano Richard Basehart, suo marito dal 1951 al 1960. Quando si scopre incinta, Valentina rinuncia al ruolo in “Luci della ribalta” al fianco di Charlie Chaplin. Jackie, che segue la carriera dei genitori, protagonista degli anni folli della “Hollywood sul Tevere”, muore dopo una lunga malattia che l’aveva allontanato dal mondo, nel 2015 a 64 anni. «Ancora un giro di clessidra e lo raggiungo» dice Valentina, che si spegne quattro anni dopo.

 

 

L'amitié, 1958, di Leonor Fini


Dietro il divano è appeso uno dei quadri più importanti dell’asta (base delle offerte 4-5mila euro), il “Ritratto di Valentina Cortese e di suo figlio”, firmato dalla sua grande amica Leonor Fini e già esposto nella mostra che il Revoltella dedicò alla pittrice triestina nel 2009, “L’italienne de Paris”. Valentina e Jackie si tengono per mano, ognuno perso in un suo pensiero, il piccolo in un completo antico, seduto sull’ampia gonna salmone della madre come su un isolotto. Ancora più prezioso (6-7mila euro), il dipinto più quotato dell’asta è “L’amitié”, anno 1958, andato in mostra a Trieste (l’allora direttrice del Revoltella, Maria Masau Dan, lo definì in catalogo “un capolavoro”) ma anche al Musee du Luxemburg di Parigi nell’86 e alla Galleria civica d’arte moderna Palazzo Diamanti di Ferrara nell’83, in altrettante esposizioni dedicate alla Fini. Infine, l’acrilico su tela “Le retour des absents” (3.500-4mila euro), anch’esso in mostra a Trieste e Ferrara.

 

Valentina Cortese in Capucci (foto Fiorenzo Niccoli)


“Per la mia Valentina con amore” scrive Leonor sotto l’acquerello “Ritratto di fanciulla”, che fa parte di una serie di opere minori, come una “Figura in piedi e “Lucrèce”, entrambe tecniche miste su carta. Completano la raccolta, i bozzetti di Rosaura e dei corteggiatori spagnolo e inglese, a inchiostro e gouache su carta, per “La vedova scaltra” di Goldoni, messa in scena per il Piccolo Teatro nel 1953 con la regia di Strehler, le scene di Fabrizio Clerici e i costumi di Leonor Fini.


Infine si spalancano le porte del guardaroba di Valentina Cortese ed esce una straordinaria collezione di abiti da giorno e da sera di Roberto Capucci, Maurizio Galante, Carlo Tivioli, Christian Dior, Mila Schön, idealmente abbinati a un set di valigeria Louis Vuitton. Della dalmata Mila è riconoscibilissimo il robe manteau avorio con petali rossi e ramage nero ispirato ai “mobiles” di Alexander Calder, ma c’è anche un inedito completo Schön-Capucci, dove la stilista di Traù firma una mantella corallo e il grande couturier romano un abito da cocktail con maniche a pipistrello e ampi volants rossi e fucsia.

L'abito di Mila Schon ispirato ai "mobiles" di Calder 

 


Abiti amati e indossati, con segni e difetti. Pezzi di storia privata e di storia della moda, quasi tutti con offerte base da poche centinaia di euro, non solo per le loro condizioni di conservazione, ma per rendere l’asta benefica accessibile a quante più persone possibile, come se fosse il saluto affettuoso di Valentina alla sua Milano. C’è però chi vorrebbe che questo patrimonio restasse unito, che il ricordo della diva non venisse disperso.

 

Roberto Capucci (Alfonso Catalano per gentile concessione dell'agenzia SGP)

 

 Due i pezzi più cari, entrambi di Capucci: un abito di gala in chiffon e seta blu notte, con un papillon sul corpetto ricamato con canottiglie (base 1200-1500 euro), e un vestito con sopravestito a kimono di seta abbinato a un ventaglietto con inserti di madreperla (1800-2000). Non sfigurerebbero nel sontuoso archivio di Capucci a Villa Manin di Passariano, dove sono custoditi altri abiti donati, “restituiti”, da Valentina Cortese al suo sarto preferito. 

 

Valentina Cortese con Elizabeth Taylor e Richard Burton

 

 

martedì 8 febbraio 2022

MODA & MODI

 

Carrie è boomer, ma prima è stata green

 

L’abito da sera “mille foglie”. Il poncho indossato dopo una notte brava con le amiche. Il costume da “Heidi” per un picnic sul prato. I due modelli firmati Halston, uno lungo arancio, l’altro corto blu. Siamo nell’episodio otto di And Just Like That, la serie che dopo più di vent’anni ci racconta cos’è accaduto nel frattempo alle ex ragazze di Sex And The City. Carrie, ovvero Sarah Jessica Parker, sta riordinando il suo guardaroba insieme a Lily, la figlia di Charlotte, prima di mandarlo in un magazzino.

Per la gioia e gli occhi dei cultori della serie, che non si sono fatti mancare nemmeno i due modesti film seguiti alle sei gloriose stagioni, alcuni capi storici scendono dagli appendini, riprendono fiato, riaprono il passato. Ricordate il Mille Feuille, il superbo pezzo haute couture di Versace che non uscì mai dalla camera dell’hotel di Parigi, mentre Carrie aspettava invano l’artista Petrovsky (il narciso Baryshnikov, al suo meglio) e che nella nuova serie si è messa un paio di volte per mangiare pop corn, appena rimasta vedova, davanti alla finestra del suo appartamento?

 

L'abito Mille Feuille Versace haute couture

 

 Il poncho se l’era buttato addosso per correre al servizio fotografico per il New York Magazine, in ritardo e con le occhiaie, all’indomani dell’ennesima rottura con Mr Big, e un’altra volta per coprire il dirndl, diretta al parco con le amiche, assemblando uno dei completi più assurdi e perversamente indimenticabili usciti dalla mente della costumista Patricia Field.


Vent’anni dopo quello che era lussuoso, sofisticato, allegro, etnico, è diventato vintage, più o meno d’autore. Così almeno lo vede l’adolescente Lily, che indossa il poncho come un reperto salvato da un’altra epoca. Un durevole guardaroba che la protagonista ancora rimette in circolo, che combina con capi nuovi, che ha conservato e curato gelosamente negli anni. Sono rispuntate fuori in And Just Like That anche le Manolo bluette equivalenti dell’anello di fidanzamento di Mr Big, incredibilmente sopravvissute per oltre due decenni alle strade e agli urti di Manhattan.

 

Lily col poncho di Carrie in And Just Like That

 


Ma è proprio questo il senso dell’operazione amarcord, studiata dagli sceneggiatori disseppellendo dall’affollatissima e impenetrabile rastrelliera i vestiti che evocano momenti chiave delle serie precedenti. Carrie, che dalle colonne di una rubrica è dovuta passare ai podcast, e ancora non ci si sente a suo agio, e dalle notti scalmanate alle scalmane delle menopausa, non può che essere stata green e sostenibile quando nessuno lo era, quando preoccuparsi del pianeta e della sua salvezza era da pochi lungimiranti eletti, molto cool. Gli abiti, le scarpe, le spille, che ritornano nella serie della maturità (a parte il “mille foglie”, degno di un museo), ci suggeriscono l’attitudine a proteggere e conservare quello che si è amato, a fare il riciclo creativo, l’upcycling.

 

Spilla "riciclata" e le celebri Manolo bluette

 


Insomma, sarà anche boomer la povera Carrie over cinquanta, proprio come tante di noi che sono invecchiate con lei, dovrà ancora fare l’orecchio, come le sue amiche del cuore, alle terze persone plurali di chi non si sente binario, ma nella moda è stata slow quando tutto intorno a lei girava fast e ai suoi capi continua a dare una seconda possibilità. L’ha fatto anche con gli uomini, ma nei vestiti certo non si sbaglia mai.