martedì 29 agosto 2017

MODA & MODI

Quelle sneaker sono un cult. Anzi, un culto





Liste d’attesa, code interminabili fuori dai negozi autorizzati, un mercato di re-selling via web che decuplica il prezzo base, molti falsi in circolazione. La borsa Birkin di Hermès? No, un paio di scarpe da ginnastica Adidas firmate dal rapper Kanye West, la cui fama di re Mida delle sneaker ha eguagliato quella di signor Kim Kardashian (la burrosa celeb con cui è accasato).

I nomi delle scarpe mettono a prova i neuroni: le ultime sono le Yeezy Boost 350 V2, di cui gli appassionati attendono con ansia le nuove colorazioni in uscita tra ottobre e dicembre, ma dal 2015 in poi il lucroso accordo commerciale tra il cantante scopertosi designer e il marchio sportivo tedesco ha prodotto le Yeezy Boost 750, le Yeezy Boost 350, le Yeezy 950 duckboot. Kanye aveva iniziato con Nike ma poi, per problemi di mancate royalties sulle vendite, si è accasato commercialmente con Adidas, dove continua a sfornare oggetti del desiderio per giovani maschi in carriera dal portafoglio gonfio o per teen-ager con solide famiglie alle spalle.
L’originalità sulle scarpe da ginnastica non richiede di scervellarsi troppo. Quelle disegnate da Kanye non fanno eccezione, se non per le promozionate caratteristiche tecniche: aderiscono come una seconda pelle alla tomaia, grazie ai ritrovati dell’ingegneria dei materiali, e la suola assicura grandi prestazioni e comfort.


Non tanto di più di quanto prometta qualsiasi sneaker di alto livello. Ma la tecnologia Adidas e il nome di Kanye West, aggiunto al baraccone mediatico che la moglie Kim e la sua impattante famiglia portano con sè, hanno centrato l’obiettivo. Versioni mandate sul mercato in edizioni limitate, pochi negozi autorizzati a venderle sia in Europa che nel resto del mondo, un mercato parallelo che gonfia i prezzi.

Come si spiega questo delirio? Se le borse Birkin e Kelly erano ispirate a icone, l’attrice e la principessa che facevano sognare dalle pagine delle riviste, Kanye e il suo pittoresco entourage evocano trash più che stile. La frenesia da accaparramento fa leva su altro. Le Yeezy lanciano un messaggio basico: leisure-style deluxe high-tech per privilegiati. Desiderabili ma non così esose da non poterle collezionare.
La gratificazione sta piuttosto nelle energie, meglio ancora del tempo buttato per possederle (e oggi non è avere tempo per i propri desideri il più grande indicatore del lusso?). Così il loro codice di riconoscimento immediato funziona tra pari ed esclude tutti gli altri. Più che un cult un culto iniziatico.
@boria_a

domenica 27 agosto 2017

IL LIBRO

 Tra cuore e amore, decide il cervello dove va la passione





Cuore e amore, la rima più scontata della canzone italiana, l’associazione immediata nei versi dei poeti. Ma è davvero il cuore l’organo più coinvolto quando ci si innamora? Gli studi più recenti delle neuroscienze smentiscono e spostano più in su il centro dei nostri turbamenti sentimentali. È il cervello, con le componenti chimiche che scatena, l’organo determinante nella mescolanza di stati emotivi delle storie d’amore, dalla fase del colpo di fulmine, al consolidamento del rapporto, all’evenutale rottura col partner. L’aveva capito Voltaire, secondo cui «l’amore è di tutte le passioni la più forte perchè attacca contemporaneamente la testa, il cuore, il corpo». Insomma, a costo di perdere un po’ di poesia, bisogna fare i conti con la biologia per capire che cosa accade nella psiche e nel corpo quando amiamo. 

Ce lo racconta Grazia Attili, psicologa evoluzionista e docente di Psicologia sociale alla Sapienza di Roma, nel saggio “Il cervello in amore. Le donne e gli uomini ai tempi delle neuroscienze” (Il Mulino, pagg. 230 euro 16), uno studio rigoroso sulle ragioni biologiche del come e perchè ci amiamo, con divertenti e impreviste incursioni nel cinema, nella musica, nella letteratura.


Professoressa Attili, rivalutiamo il cervello in amore? «Nei romanzi d’amore o nelle canzonette quando si parla d’amore si parla dei battiti del cuore. E noi stessi quando amiamo diciamo che ci batte forte il cuore. In effetti, come provano le neuroscienze, le nostre emozioni o i nostri comportamenti sono dovuti all’attivazione di particolari aree del cervello e a dei neurotrasmettitori, a neuro ormoni che vengono rilasciati nelle varie fasi del percorso che caratterizza la formazione e la costruzione di un legame di coppia. Pensiamo all’amore come a un “processo di attaccamento”, che si forma attraverso trasformazioni continue, caratterizzate dal coinvolgimento di aree cerebrali specifiche e da reazioni chimiche diverse». 



Grazia Attili


“Quell’odore che tu hai, io lo so per me son guai” cantavano le Sorelle Bandiera. È vero che c’è un rapporto tra attrazione e odore? «Uno dei fattori che influenza l’attrazione per un’altra persona è proprio il suo odore. L’odore di un individuo è importante perché rivela le caratteristiche del suo sistema immunitario. In maniera inconsapevole siamo attratti da persone il cui odore “ci dice” che sono “portatori” di un sistema immunitario diverso dal nostro. Noi, infatti, scegliamo il partner sulla base della possibilità che esso ci aiuti in un nostro programma di derivazione evoluzionistica: cercare di lasciare le nostre caratteristiche nei figli e nei figli dei nostri figli. Se un eventuale partner ha un sistema immunitario diverso dal nostro, i nostri figli saranno più forti, faranno a loro volta figli forti perché erediteranno le difese di entrambi i genitori. In questo senso “gli opposti si attraggono”».


Quando scocca la scintilla più che di “chimica” allora è questione di “sostanze chimiche” che entrano in circolo. Come funziona? «Quando una persona ci attrae si attiva una area del cervello che produce dopamina, un neurotrasmettitore che ci fa sentire su di giri, in uno stato di continua eccitazione. Le nostre pupille si dilatano e la dilatazione della pupilla produce attrazione a sua volta. È un meccanismo fisiologico incontrollabile. Ecco fatto: colpo di fulmine».


Passione d’amore come droga? «”La mia droga si chiama Julie” è il titolo di un bel film di Truffaut. Quando ci si ritrova in quello stato alterato che è la passione è come se si fosse dopati. Il cervello rilascia dopamina e il partner viene continuamente cercato per provare di continuo quell’eccitazione. Esattamente come accade ai cocainomani che hanno bisogno di dosi costanti e sempre maggiori per stare bene».


Però il cervello innamorato perde anche un po’ di lucidità. È vero che ci sono proprio delle “aree” che si spengono? «Sì, nella fase iniziale di una storia d’amore le zone frontali del cervello, quelle deputate al ragionamento, al giudizio, all’inibizione di risposte irrilevanti, non si attivano. Woody Allen diceva: “È molto difficile mettere d’accordo cuore e cervello. Pensa che nel mio caso non si rivolgono nemmeno la parola”».


Di solito associamo l’ossitocina all’induzione del parto. Mentre ha un ruolo anche nel passaggio a un legame duraturo. «L’ossitocina è l’ormone dell’amore. Viene prodotta anche durante l’allattamento, ma viene rilasciata tutte le volte che manteniamo il contatto con qualcuno. E produce un tale piacere e un tale senso di rilassatezza che spinge a mantenere un legame affettivo con la persona che abbracciamo di frequente. Il contatto sessuale, il piacere dell’orgasmo sono potenziati dall’ossitocina, la quale tuttavia spinge a mantenere il contatto fisico, a farsi le coccole, così che la relazione diventa una relazione d’amore».


Fedeltà e infedeltà sono regolate dai geni? «Monogamia o promiscuità sono l’esito dell’intreccio di molti fattori. Alcune varianti di alcuni geni possono avere un peso, a livello individuale. Ma contano anche le modalità di accudimento materne di cui si è fatta esperienza da piccoli con le caratteristiche di personalità cui danno esito, il tipo di ambiente in cui si vive».
Cosa avviene nel nostro cervello quando un rapporto finisce?
«Dire “mi si è spezzato il cuore” è più di una metafora. Quando veniamo abbandonati si attivano le stesse aree del cervello che si attivano quando proviamo un dolore fisico, quando ci provochiamo una scottatura. Inoltre si verifica nel cervello un calo di oppioidi e quindi sentiamo un dolore straziante». 


Lei sostiene che «l’amore è l’effetto collaterale del raggiungimento della posizione eretta». Ovvero ci siamo evoluti sugli animali a prezzo di farci tiranneggiare dai sentimenti? «È il prezzo inevitabile da pagare se vogliamo diventare ”immortali”. L’amore è “comparso” perché produciamo una prole immatura per tempi lunghi, la quale, per poter sopravvivere, richiede un investimento forte non solo da parte di una madre ma anche di un padre. Se un uomo e una donna vogliono lasciare le loro caratteristiche nei figli e nei figli dei figli, così che dopo la loro morte parti di sè (il colore degli occhi, i propri valori) siano presenti nelle generazioni successive, devono saper formare un legame d’amore ed essere disposti a soffrire pur di mantenerlo. Certo, l’amore è sganciato ormai dal desiderio di avere progenie, ma la spinta a formare un legame deriva dalla nostra evoluzione biologica».


In amore il cervello delle donne e degli uomini funziona in modo diverso? «Certo, e non solo in amore. Ai primordi della nostra specie le donne potevano lasciare le loro caratteristiche se si prendevano cura dei figli, se riuscivano a mantenere legato un partner che le aiutasse in questo compito gravoso. Quindi utilizzano di più il sistema delle emozioni, sanno riconoscere meglio i segnali non verbali, producono più ossitocina e di conseguenza mantengono di più i legami affettivi. Gli uomini sono maggiormente centrati sulla sessualità. La parte del cervello che reagisce agli ormoni sessuali è due volte e mezzo più grande nei maschi che nelle femmine. Copulando con molte femmine i maschi avevano maggiori probabilità di replicazione genica».


Come potremmo tradurre “sono pazzo di te” nel linguaggio delle neuroscienze? «Quando ti vedo o ti sento si attiva il mio sistema dopaminergico della ricompensa e sono travolto dalla dopamina che mi fa sentire in preda a una follia. Sono travolto anche dalla feniletilamina, che mi produce scariche di adrenalina. Potrei mangiare cioccolata per avere reazioni simili. Ma tu sei molto di più di una tazza di cacao».

@boria_a

sabato 19 agosto 2017

IL LIBRO

Un grande paese un po' ottuso 


Bill Bryson


Ottusa, ignorante, inguaribilmente razzista. Una potenza, ma poco intelligente. Priva di senso dell’ironia. Che preferisce le copie agli originali (distrugge le Main Street storiche e poi si pigia su quella di Disneyland...). Che si fissa sul rispetto delle regole, anche se non hanno senso. Che abbonda di tutto col rischio che ogni semplice scelta, a cominciare dai cereali o del caffè da Starbucks, diventi una seduta di autoanalisi. L’America di Trump? No, quella di Bill Bryson, scrittore e giornalista impareggiabile nel regalare al lettore reportage di viaggio, ritratti di città e paesi, acutamente esilaranti, leggeri ma mai superficiali.

Vi ritroverete a ridere di gusto, anche se negli Stati Uniti non avete mai messo piede, se li guardate con diffidenza o li conoscete solo dalle serie tv, a leggere “Notizie da un grande paese” (Guanda, pagg. 361 euro 19,00), la cronaca del ritorno in patria di Bill, americano di Des Moines nello Iowa, dopo vent’anni trascorsi in Inghilterra. Nell’«isoletta» - titolo di un altro suo libro irresistibile - ha compiuto le scelte fondamentali della vita, si è sposato con un’inglese e ha avuto quattro figli. Partito dagli Usa ragazzo, vi ritorna da adulto, con abitudini e approcci acquisiti altrove.




Non siamo nel 2017 di The Donald ma tra il 1996 e il 1998, quando Bryson pubblica questo diario tragicomico del ricongiungimento con l’America sotto forma di rubrica sul supplemento Night & Day del tabloid inglese “Mail on Sunday”. Sulla carta dovrebbe essere un rientro morbido, facilitato dalla lingua comune, invece l’ormai britannico di adozione Bill si riscopre un analfabeta di ritorno a casa sua. Tutto è cambiato, tutto è simile all’Inghilterra ma anche irrimediabilmente diverso. E le avventure cominciano alla ferramenta, quando si tratta di metter mano alla manutenzione della vecchia casa nel New England dove ha scelto di abitare con la famiglia.


Perchè il primo ostacolo è proprio la lingua condivisa, che si trasforma in dialogo surreale: «’Giorno. Avrei bisogno di quella roba che si usa per riempire i buchi nei muri. Dalle parti di mia moglie la chiamano Polyfilla». «Intende dire lo stucco». «Molto probabilmente sì. E poi mi servirebbero quei piccoli aggeggi di plastica che servono per tenere le viti nel muro quando si montano le mensole. Io li conosco come rawlplugs». «Be’, qui sono i tasselli».

Dall’abnorme proliferazione del cibo spazzatura al sopravvento degli oulet sui centri abitati, dall’innamoramento per il tritarifiuti domestico all’ossessione per gli spostamenti in auto (all’epoca della confezione delle rubriche, l’americano medio camminava a malapena 320 metri al giorno: “Riesco a mettere insieme più chilometri anche solo andando alla ricerca del telecomando”, annota sconsolato l’autore), Bryson registra con una contagiosa capacità di stupirsi e di sorridere, grandi e piccole idiosincrasie, contraddizioni e ingenuità, testardaggini e debolezze del suo grande paese e dei suoi connazionali, con una vena di nostalgia per la scomparsa dei “diner”, per l’industrializzazione dei motel, per la modernizzazione dei vecchi stadi (la vicinanza del superstite Fenwey Park di Boston, casa dei Red Sox, ha avuto un suo peso sulla scelta della residenza dei Bryson...).


E davvero, leggendo questi deliziosi e surreali camei di quotidianità a stelle e strisce (tradotti magistralmente, soprattutto nella resa dei doppisensi, da Isabella C. Blum), non sembra che siano trascorsi vent’anni, e il mondo nel frattempo si sia rovesciato, ma piuttosto di essere proprio lì, adesso, a discutere con la monolitica cameriera in un ristorante deserto per aver ignorato il cartello “wait to be seated” (ti “sediamo” noi...) ed esservi accomodati da soli al tavolo o a compiacervi come se il robotico “how’re you doing today?” dei commessi sia un interessamento speciale rivolto a voi di persona.
Rigidi, meccanici. Assuefatti a non pensare. Non si spiegherebbe altrimenti che il bombardamento pubblicitario via posta convinca ogni anno decine di americani a prendere un volo e o guidare come pazzi nell’assurda ed estatica convinzione di aver vinto le migliaia di dollari promesse dalle lettere truffaldine arrivate a casa. Il dolente “Nebraska” del 2013, il film di Alexander Payne che valse a Bruce Dern la Palma d’oro a Cannes, raccontava proprio uno di questi assurdi viaggi della credulità.


«Ho l’impressione di essere stato un po’ duro, ultimamente, con i miei compatrioti», scrive Bill nell’ultima rubrica. In realtà la sua critica è affettuosa e mai acida, come se parlasse di un bambinone che non vuol crescere, confortato da un incrollabile ottimismo. La signora Bryson riassume così: «La gente è amichevole, il tempo è fantastico, e puoi camminare dappertutto senza preoccuparti delle cacche di mucca». Non esaurisce quello che vorremmo da un “grande paese”, ma è un inizio.

@boria_a

lunedì 14 agosto 2017

MODA & MODI

Corsetto vs tuta, opposti intrecci 

Corsetto e tuta, due capi agli antipodi. Costrizione e libertà, complicazione e semplicità. L’estate che fa oggi il giro di boa ha riportato in auge il primo, da mettere sopra camicie e abiti per esaltare il punto vita, con tanto di nastri e ganci metallici, se non proprio costrittivo come in passato, senza dubbio scomodo e posticcio. L’autunno prossimo ci infileremo invece nella geniale, autenticamente futurista, invenzione dell’artista fiorentino Thayaht, anno 1920, e proprio con i suoi stessi obiettivi: funzionalità, praticità, rapidità (ed economicità, almeno di tempo...).

C’è un interessante gioco di intrecci e rimandi fra bustier e tuta, che ci racconta qualcosa del passato della moda e tanto del nostro presente. Madeleine Vionnet è la prima a eliminare il corsetto, nel 1907, regalando alle donne la libertà di muoversi, spostarsi, respirare correttamente, camminare con una postura naturale e partorire senza rischiare la morte per le deformazioni provocate dalla gabbia. E chi va a lavorare come disegnatore nell’atelier parigino della stilista? Proprio un giovanissimo Ernesto Michahelles, in arte Thayaht, che una certa aria di dinamicità del corpo (non solo femminile) e di senso del benessere deve pur averli assimilati se nel 1919, tornato a Firenze, elabora i primi studi per la tuta, che lancia attraverso il quotidiano “La Nazione”, con tanto di cartamodello, al prezzo aggiuntivo di 50 centesimi: nata contro il caro-tessuti e per i meno abbienti, viene subito adottata dagli aristocratici in vena di eccentricità.





E il corsetto? Lo ripesca Dior, negli anni Cinquanta, tornando alla vita da clessidra su cascate di stoffa, per aiutare l’industria tessile che rinasce dalla guerra e congelare di nuovo le signore nel ruolo di bell’oggetto, da ammirare e limitare. Chissà cosa direbbe Monsieur Christian nel vedere che Maria Grazia Chiuri, oggi alla guida della sua maison, per il prossimo autunno-inverno ha pensato all’esatto opposto: una comoda e svelta tuta, addirittura in denim. Al passo con i tempi e con le esigenze delle donne, proprio come quella di Thayaht, che alle sue ortodosse “tutiste” raccomandava di cercare nella massima semplicità la vera bellezza, abolendo tutto ciò che è “vana esteriorità”.


Capi e testimonial agli antipodi? Col bustier sul mini-vestito si è fatta subito paparazzare Kim Kardashian, in tuta una delle prime uscite da neo-mamma di Amal Clooney...
 @boria_a

sabato 12 agosto 2017

IL LIBRO

1993, l'anno della ragazza sbagliata





Giampaolo Simi


La Versilia di Giampaolo Simi ha sempre qualcosa di ferino. In “Cosa resta di noi” (Sellerio, 2015), vincitore del premio Scerbanenco, erano i muri degli stabilimenti balneari, spossati dall’erosione silenziosa e inesorabile dell’inverno, come i legami tra i protagonisti, condannati a morire di sfinimento. Nel nuovo noir, “La ragazza sbagliata” (pagg. 386, euro 15,00, Sellerio), la Versilia è quella “verticale” delle miniere di piombo argentifero abbandonate da cinquant’anni e delle cave che si aprono come orbite secche dove i castagneti si diradano, tra macchie d’ossido che sembrano pozze di sangue e binari mangiati dalla ruggine.

È quassù, lontano dal mare modaiolo e lussuoso ma non troppo da non sentirne l’eco, che nel 1993 venne ritrovato il cadavere di una diciottenne, Irene Calamai, studentessa modello appena diplomata, scomparsa da una settimana. Il suo corpo ormai decomposto, scoperto per caso, restituì intatta la brutalità dell’assassino: tagli, ferite, unghie scorticate fino alla pelle viva. Un “cold case” di cui ritorna a occuparsi, ventitrè anni dopo, il giornalista Dario Corbo, all’epoca dei fatti praticante col sacro fuoco della professione, i cui pezzi inchiodarono, prima ancora del tribunale, Nora Beckford, giovane inglese figlia di un noto scultore, condannata a diciannove anni per omicidio. Sullo sfondo, la gelosia per un ragazzo e le chiacchiere di provincia intorno alla “straniera” - desiderata e ambigua, una “sorella minore di Uma Thurman”, promiscua, drogata - la colpevole perfetta per un pm agli esordi e carabinieri con l’urgenza di placare genitori straziati e opinione pubblica.


Due decenni dopo, i destini di Nora e Dario si incrociano di nuovo. Lei, scontata la pena e tornata a vivere in Versilia, sta organizzando una mostra sull’opera del padre, ma il paese non le perdona nè il passato nè lo sfregio alla memoria della vittima. Lui, licenziato dal nuovo proprietario del suo giornale (logiche editoriali: si compra e poi si chiude per liberarsi di un concorrente) e con moglie separata e figlio da mantenere, accetta di riaprire con un istant book l’assassinio di Irene. Ha bisogno di soldi, ma non solo. Per la prima volta ha conosciuto Nora, ha incontrato la donna di cui scrisse a freddo vent’anni prima ed è rimasto agganciato dal suo mistero. Tra di loro il trait d’union è uno strano magistrato, Lavinia Monforti, “destrorsa” con un passato da musicista metallara, che ha fatto trasferire Nora dal carcere dopo un tentativo di suicidio e ora spinge Dario a riscrivere il caso, suggerendogli indizi trascurati, favorendogli l’accesso agli incartamenti.


È il 1993, non a caso. L’anno dell’autobomba in via dei Georgofili a Firenze, della strage di via Palestro a Milano, degli attentati a Roma. L’anno in cui al giardino dei Boboli venne trovato un proiettile di artiglieria. La storia sanguinosa della sfida della mafia allo Stato si infila anche qui, tra le ville lussuose della Versilia, e sfiora quella di una ragazzina risucchiata in un destino che si compie altrove. È il 1993 delle schede telefoniche, dei primi cellulari grandi come valigette, dei teledrin per cronisti ansiosi di fare il salto, così ansiosi da non farsi troppe domande se qualcosa non collima nella verità scritta da altri. L’epoca prima di facebook e whatsapp, della non connessione, quando nei fatti di “nera” per stabilire la verità, o quel che più le si avvicinava, pesavano le parole dei testimoni e anche quelle scritte dai giornalisti.


La verità, appunto. Che ora Dario deve correre il rischio di cercare e accettare, smontando e ricostruendo ogni tassello di quel primo caso che ha determinato scelte e cambiamenti, scatenato ambizioni e fatto tagliare ponti, e alla fine l’ha condotto proprio dov’è ora, a una sorta di capolinea personale e professionale. La verità che Nora deve riuscire a vedere, dissipando i black out della sua mente, come anche Lavinia, che pure la cerca con ostinazione, quasi con un sinistro presentimento.


Tra vecchi e nuovi indizi, in un intersecarsi di passato e presente, il puzzle dell’omicidio di Irene si ricompone. E, come sempre accade nelle storie di Simi, nel disegno concluso ciascuno dei protagonisti scopre in sè un lato oscuro, uno scartamento, un abisso insondabile. Una verticalità, come quella della Versilia, da percorrere fino in fondo per ricominciare.

@boria_a