sabato 19 agosto 2017

IL LIBRO

Un grande paese un po' ottuso 


Bill Bryson


Ottusa, ignorante, inguaribilmente razzista. Una potenza, ma poco intelligente. Priva di senso dell’ironia. Che preferisce le copie agli originali (distrugge le Main Street storiche e poi si pigia su quella di Disneyland...). Che si fissa sul rispetto delle regole, anche se non hanno senso. Che abbonda di tutto col rischio che ogni semplice scelta, a cominciare dai cereali o del caffè da Starbucks, diventi una seduta di autoanalisi. L’America di Trump? No, quella di Bill Bryson, scrittore e giornalista impareggiabile nel regalare al lettore reportage di viaggio, ritratti di città e paesi, acutamente esilaranti, leggeri ma mai superficiali.

Vi ritroverete a ridere di gusto, anche se negli Stati Uniti non avete mai messo piede, se li guardate con diffidenza o li conoscete solo dalle serie tv, a leggere “Notizie da un grande paese” (Guanda, pagg. 361 euro 19,00), la cronaca del ritorno in patria di Bill, americano di Des Moines nello Iowa, dopo vent’anni trascorsi in Inghilterra. Nell’«isoletta» - titolo di un altro suo libro irresistibile - ha compiuto le scelte fondamentali della vita, si è sposato con un’inglese e ha avuto quattro figli. Partito dagli Usa ragazzo, vi ritorna da adulto, con abitudini e approcci acquisiti altrove.




Non siamo nel 2017 di The Donald ma tra il 1996 e il 1998, quando Bryson pubblica questo diario tragicomico del ricongiungimento con l’America sotto forma di rubrica sul supplemento Night & Day del tabloid inglese “Mail on Sunday”. Sulla carta dovrebbe essere un rientro morbido, facilitato dalla lingua comune, invece l’ormai britannico di adozione Bill si riscopre un analfabeta di ritorno a casa sua. Tutto è cambiato, tutto è simile all’Inghilterra ma anche irrimediabilmente diverso. E le avventure cominciano alla ferramenta, quando si tratta di metter mano alla manutenzione della vecchia casa nel New England dove ha scelto di abitare con la famiglia.


Perchè il primo ostacolo è proprio la lingua condivisa, che si trasforma in dialogo surreale: «’Giorno. Avrei bisogno di quella roba che si usa per riempire i buchi nei muri. Dalle parti di mia moglie la chiamano Polyfilla». «Intende dire lo stucco». «Molto probabilmente sì. E poi mi servirebbero quei piccoli aggeggi di plastica che servono per tenere le viti nel muro quando si montano le mensole. Io li conosco come rawlplugs». «Be’, qui sono i tasselli».

Dall’abnorme proliferazione del cibo spazzatura al sopravvento degli oulet sui centri abitati, dall’innamoramento per il tritarifiuti domestico all’ossessione per gli spostamenti in auto (all’epoca della confezione delle rubriche, l’americano medio camminava a malapena 320 metri al giorno: “Riesco a mettere insieme più chilometri anche solo andando alla ricerca del telecomando”, annota sconsolato l’autore), Bryson registra con una contagiosa capacità di stupirsi e di sorridere, grandi e piccole idiosincrasie, contraddizioni e ingenuità, testardaggini e debolezze del suo grande paese e dei suoi connazionali, con una vena di nostalgia per la scomparsa dei “diner”, per l’industrializzazione dei motel, per la modernizzazione dei vecchi stadi (la vicinanza del superstite Fenwey Park di Boston, casa dei Red Sox, ha avuto un suo peso sulla scelta della residenza dei Bryson...).


E davvero, leggendo questi deliziosi e surreali camei di quotidianità a stelle e strisce (tradotti magistralmente, soprattutto nella resa dei doppisensi, da Isabella C. Blum), non sembra che siano trascorsi vent’anni, e il mondo nel frattempo si sia rovesciato, ma piuttosto di essere proprio lì, adesso, a discutere con la monolitica cameriera in un ristorante deserto per aver ignorato il cartello “wait to be seated” (ti “sediamo” noi...) ed esservi accomodati da soli al tavolo o a compiacervi come se il robotico “how’re you doing today?” dei commessi sia un interessamento speciale rivolto a voi di persona.
Rigidi, meccanici. Assuefatti a non pensare. Non si spiegherebbe altrimenti che il bombardamento pubblicitario via posta convinca ogni anno decine di americani a prendere un volo e o guidare come pazzi nell’assurda ed estatica convinzione di aver vinto le migliaia di dollari promesse dalle lettere truffaldine arrivate a casa. Il dolente “Nebraska” del 2013, il film di Alexander Payne che valse a Bruce Dern la Palma d’oro a Cannes, raccontava proprio uno di questi assurdi viaggi della credulità.


«Ho l’impressione di essere stato un po’ duro, ultimamente, con i miei compatrioti», scrive Bill nell’ultima rubrica. In realtà la sua critica è affettuosa e mai acida, come se parlasse di un bambinone che non vuol crescere, confortato da un incrollabile ottimismo. La signora Bryson riassume così: «La gente è amichevole, il tempo è fantastico, e puoi camminare dappertutto senza preoccuparti delle cacche di mucca». Non esaurisce quello che vorremmo da un “grande paese”, ma è un inizio.

@boria_a

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