martedì 27 giugno 2023

MODA & MODI

Carla Movia, uno zuccherino per orecchino 


 


 

 

Tutto può diventare un gioiello. Una scatoletta di latta, il suo coperchio, la linguetta utilizzata per aprirla. Riciclando separatamente questi tre elementi e trasformandoli in altrettante spille, la triestina Carla Movia nel 2017 ha vinto il premio “Talente”, riservato ai giovani artisti nel campo della gioielleria contemporanea alla Handwerksmesse di Monaco di Baviera. E una zolletta di zucchero? Può convertirsi in un orecchino, nei colori candy dello zucchero filato. Carla l’ha scoperto durante i suoi studi ad “Alchimia”, la scuola di gioielleria contemporanea di Firenze dove ha conseguito bachelor e master in “fine arts” e dove oggi lei stessa insegna.


 

 Durante le sperimentazioni con materiali poco convenzionali, distanti e diversi da quelli della gioielleria classica, Carla si rese conto che trattando lo zucchero con vari tipi di resina, era possibile ottenere un materiale strano e misterioso, che ricorda il ghiaccio, i coralli o alcuni minerali. Ai tempi dello studio il singolare composto rimase inesplorato, ma l’idea tornò utile non appena diventò mamma di due bambini, quando si rivelò prezioso per lavorare a casa, vicino ai neonati e senza bisogno di un banco. La confezione dell’amalgama dura qualche settimana, è tutt’altro che da fast fashion, ma permette di creare tanti pezzi contemporaneamente nello stesso lasso di tempo. Gli orecchini di zucchero e resina hanno un po’ del dolcetto e un po’ del fossile, sono leggerissimi e in una palette di colori perfetta per l’estate: verde tiffany, ciclamino, rosa barbie, bianco ghiaccio. «Un antidoto - spiega Carla - a tanti gioielli creati in massa e venduti a basso prezzo».

La designer li ha esposti qualche settimana fa, in piazza della Borsa a Trieste, nell’ambito della rassegna “CrafTS”, dedicata agli artigiani e artisti triestini. E per molti la sua gioielleria è stata davvero una sorpresa: divertente, fresca, leggera e “colta”. A riprova di quanti talentuosi creativi operino in città, conosciuti molto meglio fuori Trieste.
L’idea da cui parte Carla Movia è in apparenza semplice: c’è un potenziale gioiello in qualsiasi oggetto o materiale, basta saperlo vedere. E la spinta al suo lavoro viene proprio dallo stupore che la trasformazione della materia prima “povera” genera in lei, poi nello spettatore.

 



Ma gli studi all’accademia “Alchimia” le hanno insegnato anche a recuperare e valorizzare tecniche antiche come la filigrana, che Carla ambisce a rileggere in chiave contemporanea. «È un lavoro lento e lungo - racconta -. Fondo i grani d’argento, mi tiro i fili e poi, una volta preparati i materiali, inizio a creare tutte le forme dettagliate e intricate proprie di questa tecnica. A volte ci vogliono mesi per completare un pezzo e ci tengo a sottolinearlo, tanto più in tempi come i nostri in cui con un clic possiamo stampare quello che vogliamo».
 

L’ispirazione? Viene da qualsiasi cosa: la vita, il mondo, le persone. Dai libri letti, dagli artisti seguiti e dallo stesso processo di lavorazione, quasi mai dalla gioielleria. A volte Carla ci mette anni per decifrare un’idea, altre completa un monile in poche ore. «L’importante per me è far sempre lavorare le mani, e di conseguenza il cervello, circondarmi di persone con menti simili alla mia e mantenere una visione aperta». È così che in una zolletta riesce a immaginare un orecchino.

www.carlamovia.com Foto Carlotta Bianco, Federico Cavicchioli

giovedì 15 giugno 2023

MODA & TRADIZIONE

 

 "Scarpetti" contro le friulane tarocche

 

Furlane o friulane? Nessuna delle due. Si chiameranno di nuovo “scarpetti”, le pantofole carniche che fanno la loro comparsa ufficiale in un atto di dote di Prato Carnico del 1826, oggi conservato all’Archivio di Stato di Udine, ma che di certo venivano usate già nel Cinquecento. Saranno “scarpetti” 2.0, oggi al centro di un progetto di recupero culturale e imprenditoriale guidato dal Museo delle arti popolari “Michele Gortani” di Tolmezzo, sostenuto dalla Regione Friuli Venezia Giulia, dall’Erpac e da altri partner istituzionali, industriali e formativi.

“Scarpetti” diventa un marchio registrato, da settembre anche europeo, per garantire un puntuale e rigoroso processo di lavorazione, con un logo moderno che ricorda l’impuntura antica della suola. Il Museo curerà l’avvio di un primo corso a numero chiuso per insegnare la tecnica di confezione, puntando a recuperare un pezzo di storia sociale e culturale della Carnia e farne un’occasione imprenditoriale.

 


 


 


Diventare di moda ha snaturato le “friulane”, che spesso hanno cambiato livrea: a pois, a righe, animalier. Vampirizzate dall’industria, che le sforna in Estremo Oriente in molti colori e scarsa qualità, o trasformate in calzatura glamour, griffatissima, avvistata ai piedi di Kate Moss e, prima ancora, di Tom Ford, hanno perso qualsiasi legame con l’originale. Manualità, materiali, tecnica, ore di lavoro sono stati sacrificati al prodotto di massa, ubiquo e a basso costo. Qualcuno le ha definite addirittura “veneziane”, scambiando per lagunare la pantofola che i gondolieri dei primi del ’900 importarono dalla Carnia, dove venivano ad approvvigionarsi di legno, conquistati dalla suola antiscivolo, che non graffiava l’imbarcazione. Le indossavano tutti, dai bambini agli anziani, per il lavoro o il giorno di festa, per la quotidianità e la cerimonia, i ceti più umili e le classi agiate. Di panno o velluto, semplici o più o meno riccamente ricamati, gli “scarpets” indicavano l’appartenenza a una classe sociale, a una comunità, a una famiglia.

 


 


Da qui è partita la ricerca di Monica Peron per il Museo di Tolmezzo, che ha ricostruito, scavando negli archivi e raccogliendo testimonianze orali, le prime segnalazioni nei documenti e le tecniche di fattura delle calzature. Esempio di riciclo ante litteram, si cominciava a confezionare gli scarpetti da pezze di stoffa recuperate, abiti dismessi e lenzuola, e sistemate una sopra l’altra - ce ne potevano essere anche trenta - che poi venivano pressate col ferro da stiro scaldato con le braci fino a raggiungere uno spessore di circa due centimetri.


Gli stampi per la suola e la tomaia erano ritagliati su carta da macelleria o da negozio, sui fogli dei libretti utilizzati in latteria per la registrazione del latte. Erano una sorta di patrimonio familiare, non si cedevano volentieri.

Dopo una prima imbastitura per tener ferme le pezze, le donne ci mettevano sopra lo stampo, segnavano la forma, quindi con il filo di canapa, passato nella cera d’api per renderlo scorrevole, trapuntavano il bordo della suola. L’operazione poteva durare una giornata intera. Per la tomaia, collocavano sulla sagoma stoffe diverse, le ritagliavano e cucivano insieme, quindi applicavano tutt’intorno un bordino di stoffa resistente ricavato dalle lenzuola di canapa. Assemblaggio delle due parti, rinforzi su punta e tallone, fascette per le pantofole dei bambini, ricami di stelle alpine, genzianelle, viole, ciclamini: per un paio di “scarpets” servivano anche quaranta ore di lavoro.

 


 


Il progetto “Scarpetti. I scarpéts de Cjargne” è stato presentato il 14 giugno al Museo Gortani di Tolmezzo, dalla presidente Aurelia Bubisutti e dagli altri partner dell’iniziativa, con interventi video degli assessori regionali Alessia Rosolen, Mario Anzil, Barbara Zilli. Ottanta ore di formazione curate dall’Enaip per venti studenti selezionati, serviranno da fine settembre a insegnare il confezionamento delle pantofole e a farne una futura impresa per l’economia del territorio. 

“Scarpetti” è diventato anche un film documentario di Paolo Comuzzi in cui, attraverso le parole di otto donne che ancora li confezionano, si ripercorre una storia antica di sapienza manuale, artigianalità, tradizioni e territorio. 

www.scarpetti.it

lunedì 12 giugno 2023

MODA & MODI

Principesse a buon mercato

 

Benvenuta principessa Rajwa, appena andata in sposa a Hussein, erede al trono di Giordania. Ufficialmente ora entra anche lei nelle interminabile galleria delle signore di sangue blu, per nascita o matrimonio, che nei siti delle riviste di moda ci spiegano in tempo letteralmente “reale” come vestirci e accessoriarci. Ce la farà a eguagliare la suocera Rania, regina dal glamour ineffabile, che unendo in magica armonia oriente e occidente arriva là dove mai nessuna diplomazia? Per il momento ha sfidato sul suo stesso terreno un’altra regina in attesa, la borghese Kate Middleton: Rajwa si è infilata in un bel tailleur fucsia di Zara al forum organizzato dalla fondazione del marito ed è riuscita a eclissare col suo completo popolare le alate parole politiche di Hussein. Trema Kate, campionessa nel far diventare oggetti del desiderio straccetti da grande magazzino, riciclatrice seriale di orecchini cheap, che i magazine moltiplicano all’infinito nelle pagine online, spingendoci a spremere la principessa che è in noi.

 

Rajwa di Giordania in tailleur Zara (Instagram.com)

 

 

Kate Middleton nel blazer di Zara (Getty Images)

 

Regine e aspiranti tali infestano i siti, ormai più influencer delle influencer, al punto da far apparire un’infiltrata l’onnipresente Ferragni. Non si apre pagina senza che una consorteria di reali non compaia a illustrarci come tirar fuori il meglio da un capo alla nostra portata, che su di loro acquista naturalmente una diversa allure. La gonna midi a fiori sul corpo palestrato di Letizia, futura regina di Spagna, indossata a Granada per la giornata delle forze armate, viene presentata come il pezzo di cui quest’estate non possiamo fare a meno, l’acquisto “furbo” per qualsiasi occasione, formale o relax. Il vestitino corto di jeans della principessa Beatrice di York, figlia di Sarah e Andrea, anche lei emersa come ispiratrice dalla sconfinata genealogia dei Windsor, non può che essere un inno alla libertà, mentre sono un perfetto esempio di slow fashion (che poi è il soft power del guardaroba) le microfantasie della discretissima duchessa Sophie, la preferita di re Carlo e moglie di suo fratello minore Edoardo. Si affacciano alla rete anche le più defilate nordiche, come la futura regina di Svezia Vittoria, che ha presenziato alle nozze di Rajwa e Hussein con un abito lungo e floreale.

 

Vittoria, futura regina di Svezia col consorte (Getty Images)





 

 

Letizia Ortiz, regina consorte di Spagna, gonna José Hidalgo (Getty)

 

 Principesse e dintorni generano engagement, ovvero fedeltà, commenti, condivisioni. Catalizzatrici di traffico, ogni volta che clicchiamo quei visi immacolati, o i contenitori dedicati alle real vicende, schizza l’hype e s’impennano gli acquisti (facilitati da opportuni link sottostanti che se non proprio lo stesso propongono pezzi molto molto simili). Le principesse fanno vendere, insomma.

 Ma, allora, siamo noi il problema, che ingrossiamo le fila dei follower senza distinzione tra Gen Z e boomer? Spiegano gli esperti: in tempi incerti, la favola a portata di mano non ci rassicura, però ci rasserena. Sappiamo benissimo che Kate si infila il blazer a quadretti di Zara tra una tiara e l’altra e in favor di fotografo, ma una parte di noi si gratifica con quel capo che ci fa entrare nel suo mondo senza troppi sacrifici. La principessa (con l'armadio) del popolo è come la crema antirughe: non esiste, ma la compriamo. A proposito: la futura regina d’Inghilterra ha pure il suo botulino naturale. Low cost, of course. 

 

Beatrice di York e il marito Edoardo Mapelli Mozzi. Lei abito River Island e bomber H&M (Ipa)

 

sabato 10 giugno 2023

IL LIBRO

Ilaria Tuti e la sua "Madre d'ossa":

Teresa Battaglia indaga nella sua mente

 


 

Sarà l’indagine più delicata e dolorosa per Teresa Battaglia, l’indagine più sfidante. Scavare nella sua mente, recuperare ricordi cancellati, volti che si appannano, oggetti quotidiani di cui è diventata ignota la funzione. L’Alzheimer avanza nel suo cervello, ma dilaga anche nel corpo, rende ogni passo faticoso, impastato, ogni osso del suo scheletro dolorosamente percettibile.
E le ossa sono la traccia che attraversa l’ultima investigazione del commissario Battaglia, la fortunata profiler creata dalla scrittrice gemonese Ilaria Tuti, che è diventata anche un personaggio televisivo per Rai 1 nell’interpretazione di Elena Sofia Ricci. Il quinto capitolo della serie gialla, appena uscito in libreria, porta il lettore dentro culti antichissimi praticati in Friuli, quando il re Alboino arrivò dalla Pannonia nella Forum Iulii romana e la ribattezzò Civitas fori iulii, facendone il primo ducato longobardo d’Italia. Riti pagani, in onore della dea Iside, si intracciano a riti cristiani, ognuno con i suoi proseliti e liturgie spesso oscure e crudeli.


Ai longobardi risale la famiglia del giovane Ratchis Evaldi, suicidatosi al lago del Cornino con uno scramasax, il pugnale che quel “popolo equestre, abile nell’arte della guerra”, consegnava alla nascita anche a donne e bambini e con cui tutti sarebbero stati seppelliti, guerrieri fin nell’ultimo viaggio. Ma che cosa fa Teresa al centro del teatro d’indagine, cullando quel ragazzo dalle lunghe ciglia, il pube segnato da tagli e un lungo tatuaggio eseguito attraverso la scarificazione? Chi ha richiamato sul posto con una telefonata anonima l’ispettore Massimo Marini, fido collega e amico? E chi è il responsabile di quell’irruzione di contemporaneità in una vicenda arcaica, l’autore di un video su Tik Tok in cui si dice che Ratchis è stato ucciso, la sua mano armata da altri? 


“Madre d’ossa” (Longanesi, pagg. 360, euro 22) affonda le sue radici nella storia del territorio, facendo muovere i personaggi che i fan di Ilaria Tuti conoscono bene - Teresa, Marini, il medico legale Parri, il questore Albert Lona, la squadra con Parisi, De Carli, Alice e il cane Smoky, che scova resti umani - tra Cividale, Venzone, Castelmonte e Gemona, a camminare su “strati di morti”, di ieri e di oggi, in ipogei utilizzati dai celti come camere funerarie, in fosse comuni riempite per secoli, in necropoli di uomini deformi.

 

 

Ilaria Tuti

 

I fili lasciati penzolare nei libri precedenti, “Ninfa dormiente” e “Figlia della cenere”, vengono richiamati per chiudere una sorta di trilogia con al centro Teresa Battaglia, ma Ilaria Tuti ha detto di non essere ancora pronta a congedarsi definitivamente dall’acciaccata poliziotta che l’ha resa famosa e che custodisce lampi di intuizione in una mente annebbiata e bisognosa di appunti. Sono le sue stampelle per farsi largo in una quotidianità sempre più estranea.


“Madre d’ossa. Stai attenta” diceva una di queste note, l’indizio per arrivare a districare un’inchiesta che rimbalza dal passato più lontano all’oggi, dove il culto più potente è quello del denaro e del potere. La “madre d’ossa” custode di antichi rituali di purificazione, tramite del passaggio tra il mondo terreno e l’aldilà, sciamana, protettrice e guida degli adepti, si è trasformata in una setta vendicativa, che ricatta e punisce chi se ne allontana. È stato questo il destino di Ratchis? E chi è la “Madre d’ossa” in grado di manovrare uomini incardinati ai vertici della struttura sociale?


Teresa arriverà alla fine di questo viaggio oscuro, accettandone tutti i rischi. Il suo “lascito solenne di dolore”, che viene da lontano e abbiamo scoperto in “Fiori sopra l’inferno, il primo libro di Ilaria Tuti, si è trasformato in forza per combattere le fragilità del presente, anche l’inganno di chi, fingendosi amico, si è insinuato nella sua coscienza per manipolarla.
In quello strano primo dicembre, scelto per il pranzo di Natale con la sua squadra, assecondando un tempo tutto “suo” che ormai non può che essere il presente, la commissaria Teresa Battaglia, finalmente, dice di sentirsi “in pace”. 

 

Elena Sofia Ricci in "Fiori sopra l'inferno", girato tra Tarvisio e Malborghetto