martedì 18 aprile 2023

MODA & MODI

 Valeria Rossini e Rita Martínez

gioielli come "paesaggi da indossare" 


Gli orecchini della linea "Cemento" di Valeria Rossini


 Fotografie che diventano gioielli, gioielli che richiamano le fotografie. Tutti pezzi unici, come gli “scatti” di una Polaroid. Le immagini sono di Lorenzo Rossini, che in bianco e nero ha catturato una serie di angoli della sua città, Verona, alcuni riconoscibili, altri più sfuggenti. Al suo progetto si è affiancata la sorella Valeria, gemmologa e designer di accessori, che ha reinterpretato linee, angoli, curve, incroci degli edifici e nuance delle fotografie declinandoli in una collezione intitolata “Cemento”: sono orecchini, spille e anelli che si portano anche in tre dita, come se fossero un leggerissimo skyline. Creati con progettazione manuale, senza stampo, quindi pezzi che possono ripetersi ma mai essere uguali. “Paesaggi da indossare” li definisce Valeria, che ha scelto materiali in una palette di colori sobria, in continuità con i toni delle immagini: bronzo bagnato in oro rosa o giallo, rutenio, con cristalli naturali e quarzo bianco.


L’idea di abbinare fotografie e gioielli ha coinvolto anche un’altra designer, la costaricana Rita Martínez, da molti anni trapiantata a Verona, dove condivide il laboratorio in centro città con Valeria. La sua collezione s’intitola “Dantesca” e si ispira alle bestie che ostacolano il cammino del Sommo Poeta, la lonza, la lupa e il leone, interpretate in spille, collane, anelli e bracciali, nel cui disegno la pesantezza dell’allegoria viene smorzata da fiori o elementi ispirati all’esplosiva natura centroamericana che appartiene all’autrice.
Anche in questo caso le foto di Lorenzo Rossini colgono dettagli della Verona dove Dante trascorse metà degli anni dell’esilio, o particolari dei singoli gioielli. I materiali sono argento e bronzo con bagno d’oro, lavorati con la tecnica della cera persa e impreziositi da pietre naturali come la tormalina, l’ambra, la tanzanite, l’ametista, il quarzo rosa, la pirite, il cristallo di rocca. Rita definisce i suoi gioielli “un percorso dalle tenebre alla luce”, un concetto sintetizzato nel braccialetto aperto con una testa di leone e un fiore che si guardano alle estremità.

 

"Dantesca" di Rita Martìnez

 


Le collezioni “Cemento” e “Dantesca” sono state esposte in gallerie d’arte a Porto in Portogallo e a Berlino e ora debuttano da Bardot di Isabella Bullo in via Madonna del mare a Trieste, con cui Valeria Rossini aveva già collaborato nel 2016 per una capsule di anelli dedicata alla Barcolana. Chi sceglie un gioiello avrà anche l’immagine del luogo che l’ha ispirato, in un gioco di rimandi tra scorci urbani e accessori che è una delle tendenze più originali e imprevedibili della gioielleria contemporanea (Instagram: Bardotrieste, Twitter:@Bardotrieste).

lunedì 10 aprile 2023

 L'INTERVISTA

 

 Jader Tolja: "Stiletto, cravatte, pantaloni a vita bassa

così ci facciamo tiranneggiare dalla moda"

 


 

 A tutte è capitato di soffrire arrampicate su uno stiletto o strizzate in un abito. La moda tiranneggia anche chi dice di snobbarla e spesso circostanze, ruoli, occasioni sociali pretendono capi e accessori in cui non ci sentiamo a nostro agio. Su un tacco sbagliato rischiamo l’equilibrio mentale oltre che quello fisico, con un punto vita compresso mettiamo sotto stress una quantità impensabile di tessuti, liquidi, connessioni interne al corpo. Perchè allora non rovesciare il nostro rapporto con quello che ci mettiamo addosso e ripensare la moda dal punto di vista del corpo, liberandoci dalla schiavitù di adattarci a vestiti “astratti”? Si chiama “body conscious design” ed è una sfida, per chi compra e per chi crea. Lo spiegano in un godibilissimo volume “Corpo Moda Mente” (pagg. 319, euro 25, 90, Edizioni Il Punto d’Incontro), con disegni, citazioni, aneddoti, testimonianze e un poderoso impianto scientifico, il medico, psicoterapeuta e ricercatore triestino Jader Tolja, direttore del Body Conscius Design Lab al Politecnico di Bratislava e l’olandese Nelleke Don, consulente, ricercatrice, esperta di anatomia esperienziale. Perfino quella che può sembrare un’aberrazione solo dal punto di vista estetico, i pantaloni a vita bassa che lasciano scoperto il sedere, ha un effetto devastante sulla postur, simile a quella di un cane con la coda tra le gambe.

 

 

Jader Tolia, medico, psicoterapeuta, ricercatore triestino

 

Dottor Tolja, la salute del corpo e l’equilibrio psichico rispondono alle nostre scelte in termini di vestiti e accessori. Come funziona? «Si pensa ai vestiti come a un fatto estetico, ma non è così. Oggi, che stiamo recuperando il nostro sentire anche grazie alla conoscenza esperienziale dell’anatomia offertaci da tecniche come l’osteopatia, la terapia craniosacrale e le pratiche corporee di ascolto interiore, siamo in grado di cogliere a un livello diverso l’effetto delle nostre scelte in termini di abbigliamento. Una scarpa, per esempio, non cambia solo la forma del piede, ma cambia l’intero corpo, perché il nostro organismo è una tensostruttura dove tutto è collegato con tutto. Un reggiseno non si limita a ‘reggere’, ma condiziona il nostro respiro e ciò che succede nel cosiddetto interstizio, quel complesso mondo di fluidi che scorrono sotto pelle scoperto di recente. E il nostro mondo psichico non è un’attività localizzata nella testa, ma si radica nella nostra biologia e ne riflette con precisione le condizioni e i cambiamenti».


La parte iniziale del libro è dedicata ai piedi. Senza arrivare al modello “Armadillo” di McQueen che nessuna modella voleva indossare o alle zeppe di Vivienne Westwood, da cui Naomi Campbell precipitò in passerella, è vero che anche il mezzo tacco ha delle conseguenze negative? «Non lo sostengo io, ma la risonanza magnetica fatta sui polpacci di 80 donne che lo portano abitualmente. Uno studio inglese ha dimostrato che le loro fibre muscolari sono più corte del 13%. Ma non è questo il problema più serio, perché usando abitualmente il mezzo tacco la pelvi, che sarebbe naturalmente inclinata in avanti del 25%, si inclina invece del 45%. E in questo modo tutti gli organi contenuti nell’addome scivolano in avanti, il sangue e gli altri fluidi non circolano come dovrebbero e i nervi che partono dalle vertebre lombari hanno meno spazio. Ciò fa sì che anche se non ci sono sintomi, gli organi dell’apparato riproduttivo e di quello digestivo si trovino comunque in sofferenza». 

 

Alexander McQueen, 2010, e l'iconica scarpa "Armadillo"

 


Dunque siamo condannate alle scarpe piatte. «Potremmo dire ‘autorizzate’, dal momento che mentre in realtà nessuno ci obbliga a usare scarpe piatte, in molte occasioni di lavoro o mondane ci si aspetta invece di vedere gli uomini con le cosiddette scarpe all’inglese – un modo ‘elegante’ per dire che i piedi devono stare confinati in forme di cuoio rigide con almeno tre centimetri di spessore in più sotto la suola del tallone – e le donne su rialzi ancora più alti e sottili, col peso spostato quasi tutto sull’avampiede e le dita affastellate l’una sull’altra. Come dice la giovane imprenditrice dell’aneddoto che apre il libro: “Altrimenti non ho alcuna chance”».

 

Naomi Campbell cade sulla passerella di Vivienne Westwood, 1993

 


Simbolo della “consapevolezza corporea” sarebbe la scarpa a cinque dita del designer ed escursionista Robert Fliri. Un po’ difficile andarci in giro… Non c’è una via di mezzo? «L’arrivo di una scarpa del genere, disegnata nel pieno rispetto della nostra realtà anatomica – una scarpa nella quale i piedi sono liberi come se fossero scalzi e protetti come con indosso le scarpe – ha reso evidente che la quasi totalità delle calzature ignora completamente tale realtà. Le scarpe tradizionali nascono infatti da astrazioni mentali e per seguirle dobbiamo deformare i nostri piedi e compromettere la nostra stabilità fisica e psichica. Questo non sarebbe necessario se tenessimo conto di alcuni principi chiave: avere spazio per le dita, così da non essere costretti a deviarle o accartocciarle per stiparle in una sorta di imbuto; avere la stessa altezza davanti e dietro, in modo che i muscoli del polpaccio non si accorcino cronicamente; e una suola sufficientemente flessibile da permettere alle 33 articolazioni del piede di fare il movimento per cui sono state progettate. Una suola spessa e rigida ingessa il piede».

 


La scarpa a cinque dita ideata da Robert Fliri

 

Cravatta sì, cravatta no? Karl Lagerfeld che la portava con un colletto alto e rigido si castigava da solo? «Le scelte che facciamo in termini di abbigliamento, come in questo caso, mettono in luce ciò che succede a livello sociale e/o personale. La mancanza di integrazione tra vita affettiva e vita sessuale, ad esempio, si manifesta a livello di abbigliamento col bisogno di rimarcare la separazione tra petto e pelvi usando colori e materiali diversi, o vestiti e cinture che segnano la vita. Analogamente se in una società non c’è coerenza tra il sentire e il pensare, gli individui preferiranno usare colletti rigidi e cravatte che separino fisicamente e simbolicamente la testa dal corpo».


Arriviamo al punto: il body conscious design. Cos’è? «È un approccio al design che tiene conto dell’effetto che il design ha sul corpo e della reazione del nostro sistema nervoso. Ogni scelta di design – fashion, industrial, interior, architectural, urban, landscape – ci modifica agendo su di noi fisicamente, come una scarpa che devia l’allineamento delle dita del nostro piede o un divano che ci fa ‘incassare’ quando ci sediamo, e anche a livello neurologico, come nel caso del graphic design, che può entrare in conflitto o in sinergia col funzionamento del nostro sistema nervoso. Per il libro, ad esempio, abbiamo elaborato una grafica che risulti più neuroergonomica possibile. Un libro ben disegnato, come un edificio ben costruito, é in grado di dare orientamento, perché quando sappiamo dove siamo ci rassereniamo e ci rilassiamo; ha un buon ritmo e respiro, e ci porta a leggere, comprendere e ricordare spontaneamente, senza che si debba prendere la decisione di farlo». 

 

Pleats Please, Issey Miyake, 1993

 

C’è qualche stilista che potrebbe essere definito body conscious? Forse Issey Miyake, quando parla di spazio tra il corpo e l’abito per lasciar vivere lo spirito? «Gli stilisti sono ispirati principalmente da due forme di percezione: quella visiva e/o quella propriocettiva, cioè basata sulle sensazioni che si provano all’interno del corpo. Ecco, Miyake è un buon esempio di stilista body conscious perché la sua estetica non nasce dalla mente, ma dal perseguire un certo stato fisico di respiro. Lui lo fa dando spazio tra corpo e vestito, un altro stilista potrebbe invece rivelare la sua consapevolezza del corpo con abiti che ne fasciano sapientemente le forme. Tuttavia gli artisti – e quindi anche gli stilisti – quando sono visivi sono più riconoscibili, perché in certa misura tendono a rimanere uguali a se stessi, mentre quelli propriocettivi sono talmente al servizio della singola persona o del personaggio che poi è più difficile identificarli». 


Ma così non si rischia di fare alla fine abiti tristanzuoli e poco attraenti? «Lo stesso discorso potrebbe valere per l’architettura: fare edifici stabili e funzionali, che stanno in piedi e in cui gli scarichi rispettano le leggi di gravità, non rischia di penalizzare la creatività degli architetti? No, semmai succede il contrario. Perché è solo dall’incontro coi limiti che la creatività si esalta. Il dover rispettare le leggi di natura per far stare in piedi gli edifici ha contribuito per secoli a garantire un certo standard di bellezza. Il cemento armato, che con il suo arrivo ha ‘emancipato’ dalle leggi di natura, non ha creato più bellezza, ma meno». 


Lei dice di non aver mai avuto interesse per il mondo della moda: dopo aver scritto questo libro ha cambiato idea? «Sì. All’inizio sono stato motivato a occuparmene solo perché ne constatavo, di persona e nella professione, gli effetti sui nostri corpi e le nostre menti. Lavorare al libro è stata così l’occasione che mi ha fatto apprezzare di quanta sensibilità, abilità ed esperienza sia in realtà intriso questo mondo. Mi é pertanto diventato sempre più chiaro che la moda, così come può penalizzare il nostro essere, altrettanto può diventare uno dei suoi più preziosi alleati. In fondo questo è proprio questo che faceva Anita Pittoni. Non usava i vestiti per omologare le persone o per trasformarle in veicoli della propria creatività, ma l’esatto opposto: combinava la sua creatività con quello che chiamava il proprio “famelico ideale di sincerità” per far emergere gli aspetti più individuali e autentici della persona. In questo senso andrebbe considerata la prima vera stilista postcopernicana».

sabato 8 aprile 2023

LA MOSTRA

Roberto Capucci e Pietro Oretti

dialogano in "Prospettive" a Villa Manin

 

C’è uno spirito segreto nelle sculture tessili di Roberto Capucci, che le mette naturalmente in dialogo con gli spazi dove sono ospitate, con le opere d’arte accanto alle quali si collocano. Un angolo di pura emozione è quello, al Labirinto della Masone di Franco Maria Ricci a Fontanellato (Parma), dove l’abito “Calla” e la testa dell’uomo antico, il “Vis temporis acti” di Adolfo Wildt sembrano quasi usciti dalla stessa materia e il biancore del marmo allungarsi in quello della seta. Accade anche all’abito “Sagenite”, in shantung oro e corpino a cordoni, che fu creato da Capucci per la Biennale di Venezia nel 1995 e ora trova una sua cornice ideale in una delle sale affrescate di Villa Manin, appena restituite al pubblico dopo i lavori di adeguamento antincendio. Dal 5 maggio 2023 la residenza dogale di Passariano (Udine) ospiterà un nuovo omaggio all’arte di Capucci con la mostra “Prospettive”, che sarà visitabile fino al 17 settembre, in un sorta di continuità temporale con quella di Fontanellato, “Seriche armature”, che chiude il 16 aprile.

 

Un giovanissimo Roberto Capucci negli anni '50 (Fondazione Capucci)

 


Quindici abiti, scelti dallo sconfinato scrigno che è l’archivio del couturier romano, custodito a Villa Manin, saranno disposti in tre delle sale, dove gli affreschi sono trompe l’oeil che creano fantastiche prospettive illusionistiche. Ne è autore Pietro Oretti, misterioso pittore bolognese noto solo per il lavoro realizzato a Villa Manin intorno al 1710. Di qui il titolo della mostra, che ancora una volta intesse naturalmente un dialogo tra la tridimensionalità delle creazioni di Capucci e l’abile uso della prospettiva degli affreschi. Si tratta di abiti iconici realizzati a partire dagli anni Ottanta, e di tre sculture tessili vere e proprie, create da Capucci per la Biennale di Venezia del 1995 e per l’apertura dell’allora museo dell’artista a Villa Bardini di Firenze, cui si affiancherà una selezione di schizzi e disegni.

 

"La Sposa Rossa" (2009) creata per la mostra a Palazzo Fortuny di Venezia Foto Claudia Primangeli

 


Tre i temi declinati nelle sale, in cui si articolerà l’allestimento: “Fiori applicati” (con una delle sue creature più eclatanti, “Primavera”, dove una cascata di fiori colorati in tessuto, oltre cento, sembra essere piovuta sull’organza di seta ed esservi rimasta incollata), “Rossi” e “Ricami”. Saranno esposti anche alcuni abiti da sposa, tra cui la celebre “Sposa rossa” creata per la mostra a Palazzo Fortuny di Venezia nel 2009 («Capucci ama le spose colorate - spiega Enrico Minio Capucci, nipote del couturier e anima della Fondazione - e ha sempre suggerito alle sue clienti una scelta diversa dal bianco...»), un abito avorio con applicazione di fiori e un terzo ispirato all’affresco “La continenza di Scipione” del Tiepolo a Villa Cordellina Lombardi di Montecchio Maggiore (Vicenza).

 

"Sagenite" di Roberto Capucci nelle sale di Villa Manin a Passariano (Udine)  Foto Simone Di Luca

 

Si tratta di creazioni, sculture tessili a parte, tutte realizzate per le affezionate clienti di Capucci, tra cui Valentina Cortese, molto amica del couturier, scomparsa nel 2019 a 96 anni. Proprio l’anno scorso la casa d’aste Il Ponte di Milano ha battuto alcuni sontuosi Capucci appartenuti all’attrice: un abito di gala in chiffon e seta blu notte e un vestito con sopravestito a kimono, di cui nell’archivio a Villa Manin è custodito un esemplare “gemello”. Da Fontanellato ritornerà a casa a Passariano anche l’abito “Fuoco”, esposto al Labirinto della Masone accanto ad altri tre pezzi celebri della collezione di Franco Maria Ricci, le copie di “Amore che fabbrica l’arco” del Parmigianino, una attribuita a Joseph Heintz il Vecchio e le altre anonime. 

 

Roberto Capucci a Villa Manin Doto Simone Di Luca

 


La Fondazione Capucci ha appena rinnovato con Erpac la convenzione per la custodia dell’archivio dello stilista a Villa Manin per altri cinque anni. «E la mostra “Prospettive” - anticipa Enrico Minio - sarà una sorta di prologo a quella permanente che verrà allestita in uno degli ambienti della dimora, magari nelle Scuderie o nella Barchessa di levante. Saranno percorsi tematici, da rinnovare ogni sei mesi circa, con cui puntiamo a sviscerare l’intera opera di Capucci nell’arco della sua carriera. Anche aspetti meno conosciuti, come la produzione degli anni Settanta che nasce dal rapporto con l’Arte povera. O le influenze reciproche col costumista Danilo Donati, di cui fu amico ed estimatore».

 

Roberto Capucci nelle sale affrescate da Pietro Oretti a Villa Manin Foto Simone Di Luca

 

All’inaugurazione del 5 maggio potrebbe arrivare da Roma proprio Roberto Capucci, cogliendo così anche l’occasione per visitare la mostra di Palazzo Attems Petzenstein a Gorizia, “Italia 50. Moda e design”, dove sono esposti altri abiti provenienti dal suo archivio, dalla Fondazione Giorgini di Firenze (un inedito rosa antico appartenuto a Matilde, la figlia dell’inventore della moda italiana, il marchese Bista Giorgini) e da una raccolta privata.  Un doppio omaggio al novantaduenne Capucci, che non aveva nemmeno vent’anni quando iniziò un’avventura che dura ancora, dentro e molto al di là della moda..

lunedì 3 aprile 2023

MODA & MODI

 Il collant trasparente esce allo scoperto

 

 


 

C’era un tempo in cui l’elastico dei collant che s’intuiva sotto il vestito era un indizio di sciatteria. Come il profilo dell’intimo che segnava pantaloni o gonne, o le spalline del reggiseno messe allo scoperto dalla scollatura delle maglie. La sottoveste impediva all’abito di aderire al corpo ed evidenziare la lingerie, con i pantaloni attillati si cercava biancheria senza cuciture e calze a vita bassa che non fuoriuscissero alla cintura. Regola da non trasgredire: dissimulazione. L’intimo, come da definizione, tale doveva rimanere. Curato, inappuntabile (lo dicevano le nonne, con un consiglio che strappa ora un sorriso: perfette anche di sotto nel caso ci si dovesse spogliare in condizioni di emergenza), ma non visibile.


Tutto cambia nella stagione 2023, l’anno del disvelamento. Il focus diventa l’underwear, citando i comunicati stampa delle case di moda. Ovvero: non c’è più alcuna differenza tra sopra e sotto, l’underwear si converte in outwear, gli slip sono un capo da passeggio e l’orlo dei collant esce abbondantemente dalla gonna. Sembra paradossale, ma è proprio la promozione della mutanda a colpire meno in questo progressivo ribaltamento di funzioni nel guardaroba.

Da anni gli shorts si vanno rimpicciolendo, si portano sempre più corti, sgambati, attillati. In denim, soprattutto, di cui si popolano le strade ai primi accenni d’estate, ma anche in pelle con calze spesse nei mesi freddi. Ora cade l’alibi della definizione: non più calzoncini minimali ma slip a tutti gli effetti, indossati con la giacca e il maglione. A oggi la tendenza è stata avvistata solo nelle cosiddette modelle/influencer (la solita Bella Hadid per le strade di New York in mutanda bianca e giacca di pelle nera), ma siccome in passerella, in una versione gioiello ricoperta di paillettes, l’ha proposta Miu Miu, il brand più desiderato in rete, è probabile che conquisti le strade con qualche coraggiosa pioniera, esattamente come accaduto l’anno scorso per quel francobollo svolazzante dello stesso brand che è stata definita microgonna.


I collant sono la nuova scoperta, letteralmente. Eccoli in passerella spuntare ben al di sopra della gonna, velati, con il loro bel bordo elastico. Le calze di pochi denari, trasparenti e da sempre le più divisive si lasciano vedere, fumè o carne, e il golfino del twin set che sprigiona bon ton ci va infilato dentro (esattamente come si fa con la canottiera per evitare che risalga sulla schiena). Il messaggio pare chiaro: non siamo un’eccentricità, abbiamo davvero una funzione. Le vedremo sulla strada, conquistare millennial e Gen Z come le mutande urbane con i loro loghi in bella vista? L’unico deterrente è che non si mostra nulla, nè pancia, nè ombelico, nè gambe. Forse sarà sufficiente a rimettere le calze al loro posto.