domenica 31 gennaio 2016

 L'INTERVISTA

Sara Mengo, anatomia di un cuore innamorato a Trieste




 
Sara Mengo fotografata da Andrea Lasorte per Il Piccolo




“Le lezioni si svolgono all’interno di quello che sembra un ospedale concepito per raggiungere la luna...”. Bastano le prime dieci righe per capire dov’è ambientato il romanzo della giovane veneta Sara Mengo, studentessa di Medicina e ora anche scrittrice debuttante. Ma se la prima citazione non vi mette ancora sulla strada, eccone un’altra: “La sola compagnia di cui goda lassù è data dalle implacabili raffiche di bora triestina”. Non ci sono più dubbi. Siamo atterrati nella torre di Cattinara, tra primari-professori e futuri dottori, tutti fascinosi protagonisti di una chick-lit in salsa medica, dove le frecce di Cupido lavorano con più velocità e precisione dei bisturi.
Autobiografico? Lei, l’autrice, 29 anni di San Donà di Piave, universitaria a Trieste, giura di no, ma un’ombra di dubbio rimane. Il suo romanzo d’esordio, “Anatomia di un cuore innamorato” (Piemme, pagg. 299, euro 18,50), è uscito il 12 gennaio scorso, proprio nel giorno in cui affrontava, e felicemente superava, l’esame di Oftalmologia. Ora, china sui testi di Medicina legale, pensa ad accorciare le distanze tra sè e la laurea, prevista il prossimo anno, piuttosto che a fantasticare sugli allegri anatomopatologi seduttori che si aggirano nelle corsie e tra le pagine del suo romanzo.





Nata sulla scia di una delusione d’amore, questa “Anatomia” sentimentale è stata scritta in un anno, dal settembre 2013 a ottobre 2014, quando l’autrice ha avuto in mano il contratto. Scrittura notturna, compulsiva ed esorcizzante, con cui è riuscita nell'impresa di espugnare subito una casa editrice, sarà per la voglia di leggerezza ed evasione che c’è nell’aria, sarà perchè, complici le serie tivù americane, siamo abituati a palpitare con eroi ed eroine da triage. «Sono personaggi affascinanti, ma altrettanto preparati e capaci. Per questo piacciono», sintetizza Sara. Che presenterà il libro il 12 febbraio nella sua San Donà e poi a Trieste.
È vero che le sue passioni sono sempre state il fonendoscopio e la penna?
«Sì, fin da piccola volevo fare il medico. E non ho mollato, nonostante abbia tentato l’esame di ammissione tre volte. Ma sono stata determinata fino in fondo verso il mio obiettivo. La scrittura è stata un’áncora di salvataggio, uno spazio immaginario dove dare forma ai miei pensieri. Mi piace scrivere, al liceo scientifico l’unico compito che non mi angosciava era quello d’italiano. Questo è in assoluto il mio primo tentativo ed è andata subito bene. Mi sento una privilegiata: è bellissimo entrare in rapporto con le persone attraverso un libro».
Quando ha scoperto le serie tv?
«Ho cominciato con Chicago Hope, dei miei amici nessuno la conosce. Seguivo tutte le puntate e mi è dispiaciuto quando hanno smesso le repliche. Poi, negli stessi anni, E.R., sembra incredibile ma mi sono appassionata così alla medicina. Ora seguo soprattutto Grey’s Anatomy, che è ambientata a Seattle, una città che ha delle affinità con Trieste: sono entrambe culturalmente vive, sono di confine, una a nordest, l’altra a nord ovest... Trieste è anche romantica, la vedo perfetta per una commedia sentimentale come la mia».


 
I protagonisti di Chicago Hope


Meglio il dottor Shepherd o il dottor House?
«Il dottor Shepherd, non c’è alcun dubbio. House l’ho visto tutto, ma non è stata fonte di ispirazione, perchè la serie è più centrata sugli aspetti diagnostici che sulle faccende di cuore. Il protagonista del mio libro, Giorgio Ferranti, assomiglia a Shepherd, anche se ho cercato di non fare copie. Diciamo che è una specie di dottor Stranamore all’italiana, ho preso spunto dall’attore in carne ed ossa e ho cercato di adattarlo all’idea che avevo in testa».
E non dimentichiamoci di Clooney, il mitico dottor Ross...
«Ero una bambina ma già mi affascinava, anche se non ho mai pensato che i medici fossero così nella realtà. In sei anni di università ne ho incontrati moltissimi... I miei docenti sono sicuramente molto bravi, ma non certo così belli».


E.R. con al centro George Clooney, il dottor Doug Ross


Celeste, la protagonista del libro, è lei?
«No, per niente, non mi innamoro ogni dieci minuti in corsia. Mi assomiglia nell’emotività, questo sì».
Com’è nata l’idea del libro?
«Dopo una delusione d’amore».
Storia con un medico?
«No, per niente. Ma avevo bisogno di una valvola di sfogo, qualcosa che mi aiutasse a recuperare il sorriso. Ho buttato giù qualche riga e i personaggi prendevano forma da soli. Così mi sono detta: facciamo una scaletta, pensiamo alla trama. Volevo qualcosa che emozionasse, che permettesse al lettore di identificarsi, riconoscendo in quelli dei personaggi i suoi stessi innamoramenti. E che avesse un lieto fine. Ho fatto una prima, poi una seconda e terza stesura, tutto da sola».
E poi?
«Quando ho ritenuto che la forma fosse presentabile, ho fatto un po’ di ricerche su internet e ho scoperto il mondo delle agenzie letterarie. Una, che si chiama Tzla, con sedi a Vicenza e Verona, mi ha risposto e mi ha offerto un contratto di rappresentanza. Ho rivisto il testo con uno dei titolari, Rossano Trentin, che mi ha consigliato di tagliare alcune parti ripetitive e di aggiungere qualche scena. Poi, un venerdì ha proposto la storia a Piemme. Il lunedì dopo il manoscritto è stato accettato. Ed è arrivato l’anticipo, una grande soddisfazione».
Perchè ha funzionato, secondo lei?
«Ho avuto una buona dose di fortuna, la mia protagonista è piaciuta alla editor. Forse era il libro giusto al momento giusto. Celeste ha una personalità positiva, è una ragazza che cerca di capire qual è la sua strada. È orfana e forse per questo è attirata da un professore molto più grande di lei, ha bisogno di affetto e di conferme».
Ma il suo ex fidanzato c’è nel libro?
«Solo in una piccola parentesi, anche se è probabile che ci si riconosca».
E qualcos’altro di autobiografico?
«L’emotività, ma anche la determinazione della protagonista, che in fondo cerca di studiare nonostante sia innamorata. La migliore amica di Celeste è ispirata alla mia reale, che però non è un medico ma una veterinaria, e si è subito riconosciuta. Per il resto, metto le mani avanti: le professoresse acide non esistono, mentre il dottor Ferranti è il prototipo del mio uomo ideale».
Quando scrive?
«Ora sono divisa tra studio e tirocinio. Il libro l’ho scritto di notte, non dormivo e mi aiutava. Diciamo che devo dire grazie al mio ex, in un certo senso è merito suo. Quando è diventato un vero e proprio progetto editoriale, mi sono ritagliata delle ore per lavorarci.
Ma non ha paura che qualche medico in qualche modo ci si ritrovi e non gradisca?
«Ci ho pensato soltanto quando ho avuto un pubblico reale. Nel libro ci sono due primari e una professoressa: non credo che nessuno possa aversene a male, il mio è un ospedale fittizio. Comunque ho lasciato una copia a entrambi i primari “veri”, quello di cardiologia e quello di anatomopatologia. Sono rimasti sorpresi, ma contenti... E poi, cardiologia non l’ho ancora data... bisogna essere molto preparati».


 
L'ospedale di Cattinara a Trieste


Progetti futuri?
«La laurea e poi la specializzazione, mi piacerebbe la geriatria. Sono cresciuta con la nonna perchè i miei genitori lavoravano, è stato difficile quando è venuta a mancare. Avevo un bel rapporto con la sua dottoressa, in quel momento ne ho apprezzato il lato umano, perchè nella fase terminale anche i parenti del malato hanno bisogno di sostegno».
E altri libri?
«Perchè no, l’esperienza mi è piaciuta e la casa editrice mi ha accolto bene. Penso a un sequel».

twitter@boria_a
vedi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2015/01/libri-laura-schiavini-tutto-sesso-ma.html

giovedì 28 gennaio 2016

 L'INTERVISTA

Tamburlini: Leggere un libro ai neonati è una rivoluzione




Il pediatra Giorgio Tamburlini




 «Per carità, io non ho inventato niente. Siamo una grande comunità, migliaia di volontari in tutta Italia». Il pediatra Giorgio Tamburlini ci tiene a condividere subito i meriti, ma il Premio Nonino vinto da “Nati per leggere” ha tanto di Trieste. E lo ricorda la motivazione del riconoscimento, che, senza far torto a nessuno, definisce il Centro per la salute del bambino con sede in via Nicolò de Rin a Trieste, il “cuore pulsante” del progetto di lettura fin dalla prima infanzia. «Per la verità i primi promotori sono stati il pediatra di Cesena Giancarlo Biasini e il bibliotecario di Lugo di Ravenna Igino Poggiali», ricorda Tamburlini, oggi responsabile del Centro. «Era il 1999 e al congresso dell’Associazione culturale pediatri, di cui ero presidente, l’idea è stata abbracciata subito con entusiasmo da tutti. Ed eccoci qui».
Domani, sul palco delle distillerie di Ronchi di Percoto, con Tamburlini saliranno a ritirare il Nonino la bibliotecaria Nives Benati, anche lei di Lugo di Ravenna, l’educatrice triestina Alessandra Sila e quattro volontari, in rappresentanza di quanti si danno da fare per coinvolgere i genitori, raccogliere fondi, alternarsi nelle letture, perchè tutti i bambini, anche quelli di aree socialmente degradate, vivano pienamente il loro “diritto alle storie”. Che è diritto a uno sviluppo intellettuale e affettivo ricco e pieno, alla fantasia, al sogno, al mondo di conoscenze e di relazioni, alla curiosità che suscitano e sviluppano i bei libri, prima ancora che il bambino sappia parlare.
Chiediamo al dottor Tamburlini di raccontare il senso e gli obiettivi di “Nati per leggere”. 

 
Letture di relazione a Napoli


«Il progetto - dice - è nato da un incontro fra due discipline diverse, la pediatria e l’esperienza dei bibliotecari. L’intuizione è stata di alcuni colleghi americani che avevano notato, nei loro ambulatori, l’interesse per i libri di bambini anche molto piccoli. Ecco dunque l’idea di sviluppare un programma che unisse la conoscenza della letteratura per l’infanzia con la funzione del pediatra di dare consigli ai genitori per la salute e lo sviluppo del bambino. Dal sesto mese di vita, ma anche prima, i pediatri suggeriscono di leggere al bambino in vari momenti della giornata, prima di andare a letto, certo, ma non solo. L’esperienza cognitiva del sentire storie è ricca e complessa, sia dal punto di vista della narrazione, del linguaggio, della sequenza, sia sul piano affettivo ed emotivo. Questi due aspetti, dunque, si uniscono per creare un’opportunità straordinaria di crescita, del figlio e anche del genitore. E a entrambi regala un momento, insieme, di qualità».
Un’alternativa alle tecnologie?
«Oggi i bambini sono esposti alla tecnologia digitale fin da piccolissimi. Questo utilizzo pervasivo e intrusivo genera isolamento. Guardiamo che cosa succede al ristorante, al mercato, in una piazza... Tutti fissano il cellulare, il tablet, ma così si perde un’opportunità di stare e leggere assieme. Non solo. La qualità e il numero delle parole ascoltate è uno dei fattori determinanti dello sviluppo cognitivo linguistico del bambino e può determinare la creazione precoce di uno svantaggio. I bambini si presentano “diseguali” a scuola, non solo dal punto di vista genetico, ma anche delle opportunità avute. La lettura riduce questo gap con una modalità semplice, che funziona anche se i genitori non sanno leggere, o non leggono l’italiano o la lingua in cui il libro è scritto. Basta guardare le figure e predere spunto per raccontare delle storie».
Cos’hanno notato per primi i pediatri americani?
«Che un bambino di sei mesi, in braccio al genitore, già mostra attenzione verso il libro. Il primo libro che abbiamo prodotto, “Guarda che faccia”, è una successione di facce di bambini veri, figli di colleghi, raccolte a Napoli nel 2000. Bambini che ridono, piangono, sono stupiti, perplessi. I piccolissimi mostrano una straordinaria attenzione verso queste facce e il genitore può fare commenti, può espandere e costruire una storia a partire dalle immagini. Questo è il primo contatto, poi nel primo anno di vita arriva, per esempio, la Pimpa di Altan, verso i due anni Giulio Coniglio di Nicoletta Costa. Qui, in Friuli Venezia Giulia, esiste una tradizione importante di libri per l’infanzia. Non si tratta di leggere Pinocchio, ma testi adatti a bambini molto piccoli».
Che voi selezionate.
«Abbiamo un gruppo multidisciplinare che ogni due anni produce una bibliografia, facendo una selezione tra tutto quello che c’è di nuovo sul mercato. Poi, attraverso un accordo con i vari editori, offriamo questi libri per il programma - a comuni, associazioni, pediatri - a prezzi molto inferiori rispetto a quelli di mercato. È un modo per raccomandare libri con testo e illustrazioni di qualità, e per indurre all’utilizzo di un prodotto che normalmente non è a basso costo».


 
"Nati per leggere" a Napoli (foto Centro per la salute del bambino Trieste)



Un profano potrebbe pensare che è tempo perso leggere a un neonato. La vostra è una piccola rivoluzione...
«Una rivoluzione che ha una base chiara nelle neuroscienze. Oggi sappiamo che i requisiti per lo sviluppo del linguaggio sono presenti già prima della nascita. Il neonato è in grado di distinguere la voce della mamma o una musica da un’altra. A sei mesi, riconosce un oggetto che la mamma nomina, anche se non è in grado di pronunciare la parola. La ricerca attraverso le neuroimmagini ci mostra che parti diverse del cervello si attivano a seconda degli stimoli linguistici. Un bambino che ha sentito storie è più bravo a leggere e siamo anche in grado di misurare quali aree del suo cervello sono più potenti e più attivabili. Attenzione, c’è un punto fondamentale: l’apprendimento linguistico è facilitato da situazioni emotivamente piacevoli, cioè è diverso sentire storie in braccio a mamma e papà rispetto alla radio o al tablet».
Con il lettore cioè si crea un rapporto speciale?
«Sui nostri gadget, borse e magliette, scriviamo “Leggimi perchè mi piace”, “Leggimi perchè me ne ricorderò”, “Leggimi così stiamo assieme”. I bambini ricevono più facilmente se la voce che legge è familiare. È la pratica della lettura ripetuta in famiglia che fa la differenza. Va bene nei nidi, negli asili, a scuola o in piazza, ma l’effetto è potenziato se poi si ripercuote nella routine domestica di ogni giorno».


 
Giulio Coniglio della triestina Nicoletta Costa


“Nati per leggere” l’avete portato anche in carcere...
«Sì, in carcere e in situazioni di frontiera dove coesistono lo svantaggio culturale e la mancanza di servizi. Nel carcere di Napoli i papà leggono ai bambini che vengono a visitarli con le mamme. E sono molto contenti, perchè sentono di fare qualcosa di buono e che il bambino percepisce come buono. O nei carceri di Roma, Milano, nelle Marche, dove le detenute tengono con sè i bambini. È importante per loro, perchè spesso sentono di non stare facendo tutto quello che dovrebbero per i figli. Quindi migliora il senso di autoefficacia, il senso di sè di madri in condizioni difficili».


 
La celebre Pimpa di Altan, lettura consigliata per i bambini di un anno



Che cosa rappresenta per voi il Premio Nonino?
«Sono tutti entusiasti, un fremito di gioia è corso dal nord-est lungo l’Italia. Il Nonino ha premiato migliaia di operatori, pediatri, educatori, bibliotecari, che fanno qualcosa in più di quanto dovrebbero. Ci ripaga di questo sforzo e premia una visione condivisa. A ritirare il premio ci saranno anche quattro volontari, due del Friuli Venezia Giulia e due della Terra dei fuochi, dove abbiamo creato un punto di lettura in una scuola, per consentire a bambini e genitori di accedere a un servizio che non esiste. Questa è la nostra frontiera. E speriamo che grazie al Nonino arrivi qualche fondo in più per portare “Nati per leggere” al sud o in aree metropolitane dove il pubblico non c’è». 

twitter@boria_a

martedì 26 gennaio 2016

IL LIBRO

Da Auschwitz a Trieste, il viaggio a ritroso di Maddalena 



Elia e Edith Grünglas con i quattro figli: Miriam, Rita, Rachele ed Eugenio



 Miriam, con i fratellini, nella pensione gestita dei genitori, in via di Torre Bianca a Trieste. Alunna nella scuola ebraica di via Del Monte, registrata come Maddalena. Bambina allegra nelle passeggiate sulle Rive insieme al padre, nella città di mare di cui si era innamorato durante un viaggio in Italia e dove di lì a poco si abbatterà l’annuncio delle leggi razziali. Per lui, cantore di sinagoga, la moglie Esther e i quattro figli, ebrei di origine cecoslovacca, quelle parole sono l’ordine di andarsene.
Comincia da qui, da piazza Unità e dal discorso del Duce, il viaggio a ritroso di Miriam-Maddalena verso la casa dei nonni a Tyachiv, sul fiume Tibisco, in Slovacchia. Sarà la tappa finale, l’ultimo momento sereno di bambina, a respirare in cucina il profumo familiare di strudel e paste creme, prima di salire sul treno per Auschwitz insieme ai suoi cari. Dal lager, lei sola, riuscirà a uscire viva.
Oggi Miriam Grünglas è un’anziana signora che vive in un quartiere residenziale di Toronto, circondata da figli e nipoti, nel calore di un’intera esistenza spesa nel paese che l’ha accolta dopo la segregazione. È lì che, nonostante qualche acciacco, Miriam continua nell’impegno di trasmettere la memoria, raccontando ai giovani, nelle scuole, gli orrori del campo di concentramento, la perdita degli affetti e delle radici.
A Toronto l’ha conosciuta Rosanna Turcinovich Giuricin e dal loro incontro è nato il libro “Maddalena ha gli occhi viola” (Comunicarte, euro 18,00, pagg. 135) in cui le due donne decidono insieme di raccontare la storia di Miriam nella lunga Storia del secolo breve, degli esodi e degli sradicamenti che investirono gli ebrei, ma anche gli italiani di Istria e Dalmazia, come la stessa Giuricin.

È proprio quest’ultima a raccogliere la testimonianza dell’amica, non solo da scrittrice e dunque “mediatrice” nel fluire del racconto, ma da interprete empatica di quello smarrimento che segue all’abbandono dei propri luoghi e panorami, affettivi e fisici.
I ricordi corrono a ritroso, da Toronto a Trieste, dove la famiglia Grünglas gestiva una pensione in via di Torre Bianca (e una a Grado) e i quattro figli - Miriam nata nel ’27, Eugenio, Rita e Rachele nei primi anni ’30 - conducevano la vita spensierata dei bambini: i giochi, la musica tanto amata da papà Elia, il dialetto triestino come lingua condivisa con gli amichetti, per Miriam la divisa da “giovane italiana” indossata con orgoglio, le passeggiate al giardino pubblico finchè non vi comparve la scritta “ingresso proibito ai cani e agli ebrei”.
Un anno prima dell’annuncio delle leggi razziali, mamma Esther scrive al fratello Chaim emigrato in America chiedendogli ospitalità per la famiglia, costretta, come tutti gli ebrei stranieri, a lasciare l’Italia nel giro di sei mesi. Quella missiva non arriverà mai, colpevolmente “persa” da un impiegato che non sapeva come interpretare la richiesta di ricovero oltreoceano (forse un attentato alla mistica fascista della sicurezza? Meglio segnalarla a un superiore, attestando così i propri dubbi, o semplicemente farla scivolare tra qualche faldone?).
Quando, due anni dopo, altre lettere a Chaim otterranno risposta, i Grünglas, espulsi dall’Italia, sono già sul treno verso il paese dei nonni materni. Le deportazioni degli ebrei slovacchi cominciarono nel ’42, ripresero nel ’44 e, in quell’anno, tutta la famiglia di Miriam partì per il lager. La Germania occupò l’intera Slovacchia, furono cacciati 70mila ebrei, circa 65mila uccisi. Ad Auschwitz, Miriam vide il padre per l’ultima volta. Si incrociarono marciando in fila in direzioni opposte, separati dal filo spinato. Elia le lanciò un pezzo di pane che finì più avanti e, mentre altri prigionieri vi si gettavano sopra come cani, i due si scambiarono un lungo sguardo, l’addio tra padre e figlia. Ma la ragazzina riuscì a resistere, anche grazie a Carlo, un internato militare catturato sul fronte dalmato, che incontrò nella fabbrica di munizioni di Fallersleben, dove era stata messa al lavoro. Risentire la lingua italiana, comunicare con lo stratagemma del canto, risvegliò in lei il senso dell’attesa, la lotta per la vita.

Dopo la liberazione degli alleati e un periodo in un orfanotrofio di Praga, Miriam riceve la lettera di una cugina da Cleveland. Dentro, un regalo inaspettato: una foto di tutta la famiglia sulle Rive, nella “mia splendida, adorata Trieste”. Con la foto, la cugina le invia anche le lettere della madre al fratello con la richiesta di aiuto. “Erano scritte sulla carta intestata della pensione Grünglas, parte in lingua ungherese, parte in jiddisch. Erano loro, la mia famiglia, tutto ciò che mi rimaneva”. Miriam decide così di lasciare l’Europa, di portare a compimento il progetto dei suoi cari. E oggi, oltre sessant’anni dopo, a Toronto, continua a raccontare questa storia ai giovani, perchè attraverso la memoria le loro ombre non si dissolvano.
twitter@boria_a

lunedì 18 gennaio 2016

 MODA & MODI

L'abbraccio di tulle
  


 
Grace Kelly nell'abito di Edith Head





Quando a Patricia Field, costumista di Sex&TheCity, chiesero perchè avesse scelto di vestire Carrie con un tutù bianco nella sigla della serie, rispose semplicemente: perchè non è possibile dargli un’età. Qualsiasi altro capo avrebbe ricordato gli anni ’80, colori esagerati e paillettes sui maglioni, o i ’90, foderati di pelle e con le spalle quadrate. Come contraddirla? Quel tutù ha resistito per sei stagioni televisive, un arco che va dal ’98 al 2004 e un’era geologica nella moda, senza perdere un filo della sua grazia neutra. Ha continuato a macchiarsi con l’acqua sporca schizzata dall’autobus, e a rimanere di un bianco perfetto, non aggredibile da agenti esterni, tantomeno la polvere degli anni. Un punto fermo nel guardaroba della protagonista, che altrove è impietosamente segnato dalle rughe.


 
Il tutù di Carrie, immutabile lungo sei stagioni di Sex&TheCity


 

La gonna di tulle è uno dei pochi ricorsi della moda che non provoca la sensazione da overdose dei ripescaggi di tartan e fiori, dei ritorni di leopardi e coccodrilli. Che suscita un pizzico di coinvolgimento anche nelle indifferenti e insofferenti al riproporsi periodico dei cosiddetti trend. Può non piacere, rimanere confinata all’occhiata in una vetrina, può essere considerata leziosa, stucchevole, bamboleggiante o liquidata con un’alzata di spalle e un “fa bomboniera”. Ma, a dispetto di tutto, evoca all’istante un’immagine: il saggio di danza o Marilyn seduta sui gradini, Grace Kelly in una nuvola bianca della costumista americana Edith Head o i tutù arlecchineschi di Gianni Versace, Natalie Portman masochista in “Black Swan” o le sottogonne delle sorelle Fontana, il lago dei cigni o Barbie ballerina.


Black Swan con Natalie Portman


Troppo facile dire: il tutù fa parte dell’archivio di immagini di ogni bambina, anche di quelle che non ne volevano sapere di sbarra e scarpette.


 
L'interpretazione del tutù di Gianni Versace


C’è altro per spiegare il ritorno del tulle in gonne di tante proporzioni e ampiezze che ci accompagnerà da ora fino all’estate, perchè non esiste spessore più adatto ad attraversare le stagioni, a combinarsi con giacche di ecopelle e dolcevita, o, senza cambiare identità, con camicie denim e t-shirt estive. I colori scelti da Pantone per il 2016, rosa quarzo e azzurro “serenity”, testimoniano una voglia di leggerezza non più sottotraccia. E il tulle ci aggiunge consistenza e la giusta rigidezza che dà volume alla figura. Che la circonda in un abbraccio lieve, ma sicuro, non inconsistente.
twitter@boria_a


 Marilyn fotografata da Milton H. Greene

mercoledì 13 gennaio 2016

IL PREMIO

Nonino 2016 assegnato a Nati per Leggere,
il "diritto dei bambini alle storie"

Riconoscimenti anche a Lars Gustafsson, Alain Touraine, Simonit&Sirch


Letture per bambini alla Biblioteca del mondo di Cavana, a Trieste


Un riconoscimento che guarda ai bambini, al loro sviluppo intellettuale ed emotivo, ma anche al rafforzamento dei legami con i componenti della famiglia e della piccola comunità che li circonda, dai primi anni di vita in poi. Perchè quello con la lettura è un rapporto, un amore, che si costruisce fin dalla culla, destinato, per i più fortunati e devoti, a durare tutta la vita. Il Premio Nonino 2016 va a chi si è fatto carico di far sbocciare questa passione, il progetto Nati per Leggere, che ha il suo cuore al Centro per la salute del Bambino di Trieste, cui fa capo una rete di migliaia di pediatri, bibliotecari, volontari e operatori in tutta Italia.
I vincitori del quarantunesimo Nonino sono stati annunciati ieri dalla famiglia dei grappaioli friulani e dalla giuria presieduta dal Nobel V.S. Naipaul, e verranno assegnati a Ronchi di Percoto il 30 gennaio, alle 11, nel tradizionale appuntamento cultural-mondano negli immensi spazi delle distillerie.
Guarda alle future generazioni, con l’invito a rispettare la terra e le sue sapienze antiche anche il “Nonino Risit d’Aur”, andato quest’anno ai “preparatori d’uva” Marco Simonit e Pierpaolo Sirch, friulani, autori di un metodo di potatura delle viti che porta il loro nome, applicato dalle più importanti aziende vinicole mondiali, Château d’Yquem, Château La Tour, Moët&Chandon. Entrambi classe 1966, di famiglia contadina, Simonit&Sirch non soltanto hanno recuperato e valorizzato la tradizione, ma l’hanno veicolata con gli strumenti divulgativi di oggi, come corsi e video su Youtube, creando una nuova figura professionale, il “tutor di potatura”, in sostanza maestri potatori per affiancare e formare il personale delle aziende.


 
I preparatori d'uva friulani Marco Simonit e Pierpaolo Sirch


Il Premio internazionale Nonino e il Premio “A un maestro del nostro tempo” vanno a uno scrittore, lo svedese Lars Gustafsson, e a un sociologo, il francese Alain Touraine, che, con strumenti diversi, guardano nel profondo del nostro tempo, ci scavano, cercano di interpretarlo e di rappresentarlo. Scrittore e filosofo, Gustafsson ha studiato a Oxford con il grande filosofo del linguaggio Gilbert Ryle alla fine degli anni ’50 e ha insegnato per molti anni Storia del pensiero europeo a Austin, in Texas. Oltre a romanzi (pubblicati in Italia da Iperborea), drammi e poesie, è autore di molti scritti che riguardano temi connessi con l’estetica e l’etica. «Spesso - ha dichiarato - non vedo un confine netto tra i due generi, e tendo a considerarmi un filosofo che ha fatto della letteratura uno dei suoi strumenti fino a farla diventare parte integrante della sua filosofia».



Lo scrittore e filosofo svedese Lars Gustafsson



Touraine, docente di sociologia in molti paesi dell’America Latina, Stati Uniti e Canada, oltre che a Parigi, dal 1970 è direttore di ricerca all’École des Hautes Etudes en Sciences Sociales della capitale francese, dove si occupa prevalentemente di sociologia industriale, dei livelli di “coscienza” della classe operaia e della dinamica dei “movimenti sociali”. Si deve a lui il conio del termine “società post-industriale”, come si intitola il suo saggio del 1969, in cui, influenzato anche dai movimenti culturali - soprattutto quelli studenteschi, che avevano segnato la società americana a partire dal 1964 e molti paesi europei nel 1968 - pone l’accento sul ruolo degli intellettuali nell’aiutare a comprendere le trasformazioni in corso e a costruire una cultura e una politica che corrispondano ai cambiamenti produttivi.


 
Il sociologo francese Alain Touraine


Il 30 gennaio, dunque, con i rappresentanti di Nati per leggere, saliranno idealmente sul palco della distilleria Nonino anche l’Associazione culturale pediatri, l’Associazione italiana biblioteche, gli educatori dei nidi e della scuola materna, e i 5mila volontari che promuovono la lettura in famiglia. Uno spazio in cui, dai primi mesi di vita, si crea un legame speciale tra il bambino e il lettore, un fattore di sviluppo cognitivo, linguistico ed emotivo, ma anche un “fattore di protezione” dallo svantaggio sociale e culturale e un’opportunità per sviluppare uno sguardo curioso sul mondo. Il “diritto alle storie” per tutti i bambini (per i piccolissimi imparare a “toccare” il libro, sia di stoffa che cartonato, a giocare con i libri tridimensionali, a colorare, intervenire, essere protagonisti nel racconto) è l’obiettivo di Nati per leggere, che sta istituendo “punti lettura” in aree d’Italia dove mancano biblioteche con sezioni per l’infanzia, seguendo iniziative rivolte a figli e genitori in carcere e comunità di immigrati, e supportando programmi simili in Croazia, Bosnia, Catalogna e Brasile.
Un progetto che, dai confini regionali, si è diffuso con successo nel mondo è anche quello di Simonit e Sirch, consulenti di 130 aziende sparse tra Europa, Stati Uniti, Argentina e Sudafrica. La potatura sembra essere una pratica facile o facilmente delegabile alle macchine. La meccanicità e la velocità, al contrario, rappresentano per la pianta un intervento invasivo e spesso nefasto, responsabile della mortalità precoce delle viti in tutto il mondo.
I due friulani, premiati dai Nonino con la “Barbatella d’oro” di questa 41° edizione, hanno ripreso tecniche in uso nel passato, rispettose del flusso linfatico della pianta. Nel 2009 hanno fondato la Scuola italiana di potatura della vite, un unicum a livello internazionale per la formazione permanente degli agricoltori, che oggi ha sede in quindici regioni vinicole italiane e si avvale dell’appoggio di centri di ricerca di primo piano.
Sarà Claudio Magris - componente della giuria del Nonino insieme ad Adonis, John Banville, Ulderico Bernardi, Peter Brook, Luca Cendali, Antonio R. Damasio, Fabiola Giannotti, Emmanuel Le Roy Ladurie, James Lovelock, Norman Manea ed Ermanno Olmi - a consegnare il premio a Gustafsson, mentre Touraine lo riceverà dal “collega” sociologo Morin.
La cerimonia del 30 gennaio seguirà un copione rodato, con la numerosa famiglia Nonino che accoglierà gli ospiti distillando una piccola riserva di Monovitigni del Friuli della vendemmia del 2015. E mentre i premiati saliranno alla ribalta per il loro saluto, centinaia di convitati centellineranno la Riserva AnticaCuvée, grappa con cinque anni di barricatura.

twitter@boria_a
 

lunedì 11 gennaio 2016

 MODA & MODI

David Bowie, il Duca che ha anticipato la moda


David Bowie Ziggy Stardust (ph. Rex)

David Bowie is”, s’intitolava la mostra che gli dedicò il Victoria & Albert Museum di Londra nel 2013. David Bowie è, semplicemente. Icona del rock e della moda, connubio nato col punk degli anni Settanta e, da allora, mai incarnato in modo così originale, mutevole, provocatorio, anticipatore come da lui. Sessualmente ambiguo già cinquant’anni fa, quando lo stile a-gender e il travaso tra il guardaroba maschile e femminile erano di là da venire. David Bowie è, zeppe e make up, tute attillate e broccati, boccoli e zazzera scolpita. Ha attraversato mezzo secolo di musica, spettacolo, cultura visiva, costume, segnando profondamente ogni stagione, nella musica e nello stile, nell’arte e nel design, in una confusione costante tra palcoscenico e vita, tra uomo e personaggio, tra David e Ziggy, Alladin Sane, il Duca Bianco.

Bowie nell'Alladin Sane Tour



David Bowie con la moglie Iman nel 2012 (ph. Getty)


Tre anni fa la Bbc lo ha incoronato re dello stile. In una classifica “storica” è il britannico meglio vestito di tutti i tempi, prima della regina Elisabetta. E in trecentomila, nell’arco di quattro mesi, si sono messi in fila al V&A per ammirare il suo archivio e il guardaroba, immergendosi nel suo mondo cangiante attraverso i costumi di scena che appartengono alla memoria di tutti, anche di chi non lo conosceva bene, dalla tuta spaziale disegnata per lui dall’amico Freddie Burretti nel ’72 per l’album “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”, in cui interpreta il ragazzo divenuto rockstar grazie agli extraterrestri arrivati da Marte, all’iconico custume di vinile nero, a strisce, di Kansai Yamamoto, che indossò nel tour di Alladin Sane.

 
"Bunny costume" di Kansai Yamamoto


David lo scovò a buon prezzo, perchè nessuno voleva comprarlo nè indossarlo: lo soprannominò il “Bunny costume” e, durante il tour in Giappone del ’73, Yamamoto gliene realizzò uno altrettanto pazzo, una tuta a ferri monospalla, incollata al corpo efebico come un cerotto. «Erano eccessivi, provocatori e incredibilmente caldi sotto i riflettori» disse Bowie e poche settimane dopo abbandonò per sempre Ziggie. Al party d’addio del personaggio, al Cafè Royal di Londra, andò in completo chiaro con panciotto, gli occhi sottolineati dal kajal, accanto all’allora moglie Angie Bowie, in abito soprabito dal taglio geometrico: era già nel mood glam-rock.
Il rapporto tra Bowie e la moda comincia da lontano. È il 1963 e un David ragazzino, sassofonista nella band scolastica dei Kon-Rads, fa impazzire gli amici con la richiesta di costumi sempre più stravaganti. Due anni dopo abbandona il cognome Jones per Bowie e, insieme a Marc Bolan, chitarrista dei T. Rex, saccheggia la spazzatura di Carnaby Street a Londra, per cercare abiti da riciclare. Nel ’70, incoraggiato dalla moglie Angie, con cui condivide pantaloni e camicie morbide, mette in subbuglio la stampa musicale e non solo: sulla copertina del terzo album, The man who sold the world”, indossa un abito da donna del designer Michael Fish e si fa immortalare reclinato su un divano, i capelli arricciati, gli occhi socchiusi: il gioco dei sessi è cominciato. È scandalo.
Sarà l’amico Burretti, ironico, appariscente, platealmente gay, a vestire il suo alter-ego Ziggy, mentre l’hair designer Suzy Fussey gli scolpisce una cresta color carota.

Le stagioni si susseguono, l’immagine si evolve in continuazione, in sintonia con la sua musica. A metà degli anni Ottanta è un dandy, che vive a Los Angeles e fa pesante uso di cocaina, con un debole per i completi dal taglio sartoriale e una preferenza per Yves Saint Laurent. Poi gli anni di Berlino, quando s’appassiona all’arte di Dalì e alla scrittura di William Burroughs: si libera dall’eroina come dal glitter e dai look psichedelici e androgini, e, suonando con Brian Eno, abbraccia il bianco e il nero, la monocromia della giacca di pelle della copertina di “Heroes”, nell’immagine del maestro della fotografia nipponica Masayoshi Sukit.
David Bowie è, anche un Pierrot. Una fascinazione per la maschera lunga una vita, racchiusa nei versi di “Threepenny Pierrot” (piccoli piedi felici che ballano tutto il giorno/piccolo cuore solitario con tante cose da dire...). La costumista Natasha Korniloff, che aveva già lavorato con lui nel 1967 per il debutto in palcoscenico di “Pierrot in Turquoise”, negli anni Ottanta gli disegna un cyber-pagliaccio contemporaneo, grigio e argento.



La copertina di Earthling con la redingote di Alexander McQueen

In mostra al Victoria & Albert c’era un altro pezzo iconico: la redingote fatta con la Union Jack, la bandiera inglese, per la cover dell’album “Earthling” del ’97, disegnata insieme a un giovane Alexander McQueen. Bowie non si smentì neanche questa volta. «Quando aveva in testa un’idea sceglieva la persona più innovativa per realizzarla», disse Geoffrey Marsh, curatore della mostra.
Sulla copertina di “Blackstar”, uscito l’8 gennaio, non c’è più lui, in un’ultima imprevedibile mutazione, resuscitato come il Lazarus di quest’album. Solo una stella nera.

twitter@boria_a

sabato 9 gennaio 2016


 IL CALENDARIO

Jotassassina a Trieste, dieci anni per dodici mesi Lgbt

 
Antonio Parisi sulla scalinata dell'Università di Trieste (foto di Armando Casalino)


Un doppio primato l’hanno stabilito, e ne vanno piuttosto fieri (o fiere, a seconda dei casi): primo calendario Lgbt ambientato a Trieste e prima bandiera Lgbt immortalata sui gradoni dell’ateneo giuliano, diventata “regia università” nel 1938, in anni non propriamente favorevoli alle transumanze di genere sessuale.
Jotassassina festeggia così il suo primo decennale di vita in quella che definisce la “laica” e “aperta” Trieste. Un calendario di quattordici fotografie di Armando Casalino, in esterni e in studio, in cui cinque irriverenti drag queen e un drag king rendono omaggio a loro modo alla città che le ha adottate. Gennaio apre proprio sulla scalinata dell’Università, dove Antonio Parisi, romano naturalizzato triestino e portavoce del gruppo, si fa immortalare da diva avvolto in un abito dallo strascico immenso, ricavato dalla bandiera arcobaleno, simbolo della liberazione sessuale, sotto cui si raccolgono gay, lesbiche, bisessuali e transgender. «Il primo scatto del 2016 è all’Università - dice - perchè l’intelligenza e l’apertura di Trieste cominciano da qui. Problemi con le autorità? Nessuno. Anzi, durante lo shooting si è radunato un centinaio di ragazzi giovanissimi, ci ha fatto molto piacere».
Sei personaggi che diventano dodici, perchè ognuno si è fatto fotografare con il suo “doppio”, uomo e donna. Due mesi per realizzare le immagini, da settembre a novembre. Al bombardamento mediatico di questi giorni sulle unioni civili, Drakonia, Veronika, Rose, Viktoria, Antony e Alex, quest’ultima donna che diventa drag king in discoteca, rispondono facendosi ritrarre en plein air Villa Revoltella, fuori dalla chiesa di San Silvestro, sulla Scala dei Giganti, con i loro costumi («tutti realizzati da sarti triestini», rivendicano) e i trucchi che richiedono sedute davanti allo specchio di almeno due ore. «Volevamo richiamare l’attenzione sul trasformismo drag, che poi non ha niente a che fare con l’orientamento sessuale», prosegue Antonio Parisi. «E poi rivendicare i diritti dei transessuali. Veronika, che appartiene al nostro staff e che sta diventando donna, è fotografata di spalle, con l’identità che sta abbandonando, e davanti, come Eva, per esprimere la donna che vuole essere e che sta nascendo. E poi, niente discriminazioni: abbiamo anche le nostre drag “curvy”...».


Viktoria e Rose sulla Scalinata dei Giganti a Trieste



 Le immagini sono firmate da Armando Casalino, un fotografo triestino che si è occupato di tematiche femminili, dalle mutilazioni genitali, agli stupri, alla protesta delle Femen italiane, e i ricavi del calendario (a offerta libera) andranno in parte a finanziare l’Arcigay Nuovi Passi di Pordenone. Ogni mese ricorda una data importante per le conquiste del movimento Lgbt.

 
Drakonia e Rose a Villa Revoltella


Ecco Drakonia nel giardino di Villa Revoltella, issata su stivali cinghiati dal plateau-piedistallo, mentre stringe la mano alla burrosa Rose, sigillata in un bustier candido simil-Westwood. Sulla Scala dei Giganti si staglia la statuaria Viktoria, in un trionfo di piume verdi e strass, appoggiate alle pietre medievali di San Silvestro si abbracciano Alex e Drakonia in un intreccio di pelle e borchie. In studio si osa di più e Veronika, futura donna, offre all’obbiettivo un corpo mozzafiato con reggiseno bucolico e foglia di fico d’ordinanza...

 
Veronika sta diventando donna e si fa ritrarre come Eva



«Ci siamo divertiti, ma anche emozionati», confessa Antonio. «C’è un solo scatto nudo, ma per noi è importante. Abbiamo voluto mostrare come sotto i costumi ci sono persone autentiche, che si sentono a proprio agio con se stesse e non hanno paura a mostrarsi come tali. Il trasformismo è nato nelle discoteche gay, ma ora ci invitano ai matrimoni e nelle case di riposo. Ci chiamano anche ai compleanni: è bello far divertire i bambini». Perchè sotto il costume di una drag queen, in fondo batte il cuore della principessa di Frozen...
twitter@boria_a

martedì 5 gennaio 2016

 IL LIBRO

Quel caffè ha un'arte (e una storia)


 
 
"Barfly" (Nuages Edizioni)



Da Parigi a Napoli, da New York a L’Avana, da Buenos Aires ad Alessandria d’Egitto, a Lisbona, Oslo, Praga, Vienna. Passando per Trieste. In alcuni caffè sparsi ai quattro angoli della terra si è fatta la Storia. Della letteratura, prima di tutto, ma anche dell’arte, della politica, del costume. Tra quei tavoli, alle latitudini più diverse, sono nati movimenti rivoluzionari e rivolgimenti della società, si sono confrontate e scontrate opinioni che hanno cambiato per sempre il nostro stile di vita, il modo di pensare, il gusto. Perchè i “caffè”, dove, lungo i due secoli passati, si ritrovavano abitualmente persone animate da un sentire comune, ma curiose e disponibili al cambiamento, diventavano incubatori di idee, aperti a nuovi apporti e contributi dialettici. Non salotti elitari, con liste rigide di idee e partecipanti, ma spazi inclusivi per quello che oggi chiameremmo un co-working di pensiero.
O, almeno, così accadeva tra Ottocento e Novecento, quando, appunto, in alcuni caffè è passata, si è fermata o formata, la Storia. Come al “Procope” di Parigi, dove, durante la Rivoluzione francese, si riunivano Robespierre, Danton e Marat. O al “Vesuvio” di San Francisco, locale prediletto dagli scrittori della “beat generation”, Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac, Neal Cassady, Allen Ginsberg, Dylan Thomas, Bob Dylan. O, ancora, al torinese Caffè dei Fratelli Fiorio, inaugurato nel 1780 e frequentato da Cavour, D’Azeglio e Balbo, scelto da Nietzsche per scrivere il suo “Ecce homo”. Infine, al “Café Central” di Vienna, che vide sedersi ai suoi tavoli, nel solo 1913, alcuni protagonisti dell’intero secolo: Hitler, Stalin, Trotzky e Tito. E pure Sigmund Freud, che vi avrà trovato materia per le sue esplorazioni mentali.
È un viaggio ricco di aneddoti e curiosità quello che ci propone “Barfly. Guida illustrata ai Caffè Letterari” (Nuages, pagg. 95, euro 15,00 a cura di Giancarlo Ascari, Cristina Taverna e Arianna Vairo), un itinerario internazionale attraverso alcuni locali speciali, che tocca Trieste. Tra i settantaquattro caffè selezionati nel mondo per essere stati un crocevia di personaggi e movimenti, ci sono infatti la pasticceria Pirona e il Caffè San Marco, che condividevano alcuni clienti come James Joyce, Italo Svevo e Umberto Saba. Lo scrittore irlandese era un habitué nel tempio di delizie per golosi in largo Barriera Vecchia 12, aperto nel 1920, mentre il caffè di via Battisti, che iniziò l’attività nel 1914, diventò luogo di incontro di irredentisti, letterati e studenti. E continua ad accogliere il contemporaneo triestino più famoso nel mondo, Claudio Magris, che lì, sempre allo stesso posto, ha intrapreso alcuni dei suoi intensi viaggi letterari nell’Europa di mezzo.


 
L'Antico Caffè San Marco a Trieste




A ciascun caffè è abbinata l’illustrazione di un artista, al San Marco quello della grafica Giovanna Durì, che, in bianco e nero, tratteggia un Joyce in lettura nell’inconfondibile grande sala dove s’intrattengono i giocatori di scacchi, la pasticceria Pirona ad Angelo Stano, fumettista e disegnatore di Dylan Dog, che mette allo stesso tavolo, all’esterno del locale, un Saba che si accende la pipa, un occhialuto e appuntito Joyce, uno Svevo intento al rito del calicetto.


Saba, Joyce e Svevo visti da Angelo Stano alla Pasticceria Pirona di Trieste

Nel percorso dei caffè italiani, alcuni non esistono più. Resta l’eco delle voci dei protagonisti, il sapore e il profumo delle loro ordinazioni, perchè - come dice Daniela Ostidich nell’introduzione al volumetto - «la formazione di una nuova visione del mondo si nutre non solo di scambio di opinioni e convivialità, ma anche di cocktail, stuzzichini e buoni caffè».
Al Bar Del Grillo, a Milano, per esempio, un mix di trattoria, pensione e balera, quello che sarebbe diventato uno dei più grandi disegnatori del XX secolo, Saul Steinberg, all’epoca studente di architettura al Politecnico, buttava giù le vignette per i settimanali umoristici “Il Bertoldo” e “Il Settebello”, le cui riunioni di redazione, con Cesare Zavattini e Achille Campanile, si tenevano proprio nella stanza di Steinberg, sopra il bar. Poi arrivarono le leggi razziali e lui, ebreo rumeno, lasciò l’Italia per gli Stati Uniti, dove disegnò la sua opera più famosa, copertina di un numero del “New Yorker” nel 1976, “View of the world from 9th Avenue”.
Ha abbassato le serrande anche il milanese bar Oreste, definito negli anni ’70 da Umberto Eco, che ci trascorreva le serate giocando a flipper, “una sorta di osteria galattica alla Star Wars”, popolata da intellettuali, attori, militanti della sinistra extraparlamentare, artisti, disegnatori come Giovanni Gandini, fondatore di Linus, che ci portava Georges Wolinski, il disegnatore morto nella strage di Charlie Hebdo, e gli illustratori e attori Roland Topor e Copi.
Stessa fine per il Caffè Aragno di via del Corso a Roma, fondato da un pasticciere torinese arrivato in città al seguito dei Savoia a fine ’800 e definito da Orio Vergani il “sancta sanctorum della letteratura, dell’arte e del giornalismo”. Qui si incontravano i futuristi, Marinetti in testa, ci passava Oscar Wilde e Bontempelli e Ungaretti si sfidarono a duello. Del “clima” delle sue sale, dà un’idea il poeta Vincenzo Cardarelli, che lo descrive come il posto dove “si entrava sovversivi e se ne usciva conservatori arrabbiati e nazionalisti, dannunziani e colonialisti”.


 
James Joyce al Caffè San Marco di Trieste, visto da Giovanna Durì


Accanto ai celeberrimi “Florian” di Venezia, “Pedrocchi” di Padova e “Gambrinus” di Napoli, al romano "Rosati" di Pasolini, “Barfly” ci apre le porte di locali meno noti, come il Caffè dell’Ussero di Pisa, nato nel 1775, che annoverava tra i clienti Carducci e Malaparte, e, in tempi più recenti, Terzani e Tabucchi, ma anche quel semisconosciuto Filippo Mazzei, medico e filosofo italiano vissuto tra il 1730 e il 1816, intimo amico di cinque presidenti americani, al punto da suggerire l’inserimento della “ricerca della felicità” nella Costituzione Usa.
Oltreoceano, questo andar per caffè letterari si fa ancora più curioso. Se La Bodeguita del Medio di L’Avana, buen retiro di Hemingway, Neruda e Salvador Allende, è meta di pellegrinaggio turistico, meno noto è l’antico “The horse you came in on” di Baltimora, risalente al 1775, dove pare che Edgar Allan Poe abbia fatto la sua ultima apparizione prima di essere trovato delirante in strada e morire di lì a poco per cause misteriose. Sorte ugualmente infausta toccò al poeta Dylan Thomas, frequentatore della “White Horse Tavern” di New York da cui, nel novembre 1953, uscì con in corpo diciotto shots di whiskey per collassare sul marciapiede e morire a stretto giro. Il pub rimase in voga, amato da scrittori come James Baldwin, Anaïs Nin e Norman Mailer.
Il viaggio si spinge fino a “Casa Voloshin” a Koktebel, in Ucraina, dove l’omonimo poeta e pittore, durante la guerra civile, tra il 1918 e il ’21, prestava assistenza sia ai soldati rossi che ai bianchi e, dopo la rivoluzione, ospitava artisti e scrittori come Marina Cvetaeva, Massimo Gorky e Mikhail Bulgakov. Oggi gli avventori possono ammirare acquerelli e memorabilia varie, tra cui “L’Ordine n. 44 del 1920”, con cui, per diretto interessamento di Lenin, si raccomandava ai soldati rivoluzionari di non toccare la dacia.
Esistono ancora caffè così o, per citare Ostidich, sono solo “lapidi di una memoria storica collettiva”? Un disegno brumoso di Franco Matticchio tratteggia Dino Buzzati assorto in una giovane donna, davanti al bar Jamaica di Brera. Ci venne Mussolini da direttore de “Il popolo d’Italia”, nel 1922, e se ne andò senza pagare. Con Buzzati lo frequentarono Piero Manzoni e Lucio Fontana, Quasimodo e Dario Fo.


Buzzati davanti al bar Jamaica a Brera di Franco Matticchio


 Ma è andato tutto a remengo, dice Alberto Arbasino in un’intervista a “Il Fatto Quotidiano” del 15 luglio scorso. «Non ci sono più i caffè letterari con letterati che discorrevano di libri, di idee, di forme, nozioni, concetti». E il Jamaica, ormai, fa l’apericena.
twitter@boria_a

lunedì 4 gennaio 2016

MODA & MODI

SSS: saldi, sacrosanta soddisfazione



 
 Davvero la parola “saldi” si abbina solo a Serietà e Saggezza? I consigli per gli acquisti ce lo ricordano puntualmente ogni anno, allo scoccare del fatidico black day nazionale, quando, con la solita Schizofrenia di date da regione a regione (un po’ come l’inizio della scuola), si apre la corsa al capo “ribassato”. Gli avvertimenti sono sempre quelli, non c’è consumatrice che non li conosca. Saldo Serioso, insomma, Svendita Sorvegliata, niente bizzarrie. Comprare solo quello di cui, all’inizio della stagione, abbiamo annotato il prezzo, così da verificare l’effettiva corrispondenza della percentuale scalata dal negoziante. Diffidare dello Sconto in caduta libera, quello intorno al Settanta per cento, che non riserva a chi lo vende alcun margine di guadagno (Sottotesto: chi mai è così fesso da accettare di andare in perdita, anche a costo di ingolfare il magazzino? Sicuro da qualche parte si annida una fregatura...). Guardare bene la merce esposta, per Stanare eventuali residui di Stagioni passate e dissimulati Subdolamente tra i capi freschi. Stare sempre all’erta e conservare gli Scontrini come reliquie, tutto si può cambiare se è fallato o macchiato. Sfoderare a piacere la carta di credito, perchè nessun negozio può rifiutare la Simpatica targhetta (psicologicamente Salvifica), che ci nasconde il passare di mano dei Soldi e ci mette dell’umore adatto per comprare ancora. Da ultimo, il padre di tutti i Suggerimenti: la militante “sald-aholic” deve scegliere pezzi basici, “multitasking”, quelli di cui nessun guardaroba può fare a meno. Sinonimi di Semplicità, Serialità, Sicurezza.
Siamo davvero sempre state così avvedute? Allora non c’è verso: il nostro armadio Scoppia di camicie bianche, little black dress, trench color crema e pantaloni neri e dobbiamo subito mettere mano a quell’operazione che tutti ci consigliano sempre all’inizio del nuovo anno, proprio in contemporanea con le svendite: l’eliminazione del Superfluo, il magico potere dello Sgombero.





 





Ma chi ha detto mai che Sconto debba per forza coincidere con Strazio? Eccetto per i vestiti che avremmo voluto comprarci a Capodanno, e che è meglio che rimangano dove li abbiamo visti e sognati, l’acquisto è anche un’occasione per gratificarsi, per ricaricarsi, per risparmiare “sorridendo”. Per una volta all’anno si può mettere in secondo piano la parola Sobrietà? Non parliamo di Sperpero, sia mai di questi tempi, ma di una piccola, Sacrosanta, soddisfazione.

twitter@boria_a
vedi anche: http://ariannaboria.blogspot.com/2015/01/moda-modi-i-saldi-nella-rete-cera-una.html

venerdì 1 gennaio 2016

L'AUTOBIOGRAFIA

Vivienne Westwood, la nonna del punk racconta i suoi segreti


L'autobiografia di Vivienne Westwood firmata con Ian Kelly (Odoya)



26 settembre 2013, settimana della moda di Parigi: sono le due di notte, mancano meno di sessanta ore all’uscita in passerella della nuova collezione primavera-estate per la sua prima linea, la celebre Gold Label, e Vivienne Westwood, berretto di lana in testa e pelle di porcellana, continua a lavorare con l’energia di una stagista, accerchiata da modelle in perizoma su plateau vertiginosi. Ha settantadue anni questa inesauribile e battagliera vecchia signora, Dama dell’Impero britannico, una delle donne inglesi più famose del pianeta, in Oriente ben più della regina Elisabetta.
È a capo di un brand internazionale, ma ha conosciuto la povertà nera. Il suo primo figlio, Ben, ha imparato a camminare appoggiandosi sulla roulotte dove vivevano, il secondo, Joe, non ebbe neanche il passeggino. Con Malcolm McLaren, artista e musicista, all’epoca suo compagno e padre di Joe, ha inventato il punk, uno dei movimenti che più hanno rivoluzionato e influenzato i costumi del Novecento. Negli stessi anni faceva la maestra per mantenere la sgangherata famiglia, due bambini piccoli e un partner ancora studente.
Ha cominciato così, Vivienne Westwood. Stampando magliette con le "potato printing", le patate tagliate a metà e incise, disegnandoci sopra cowboy gay e nanetti superdotati, e ha inventato negli anni una moda tra le più colte, raffinate e imbevute di citazioni, pescando da tutte le epoche storiche. È stata arrestata, ha scandalizzato e stupito, poi è entrata nei musei, a cominciare dal Victoria & Albert che, nel 2004, le ha dedicato una retrospettiva spettacolare, la più grande per uno stilista vivente. Oggi è un’indomita nonna, attivista e impegnata, con un marito di venticinque anni più giovane, Andreas, suo ex allievo all’Accademia di moda di Berlino, diventato braccio destro.
“Everithing is connected” si intitola quella collezione che Vivienne Westwood stava preparando nella notte parigina, per dire, dalle sue passerelle sempre “politiche”, che “ogni cosa è collegata” e tutti devono fare la loro parte per salvare la terra, preservare i diritti degli esseri umani. Proprio da questa sfilata, anzi, trascinandoci dentro il backstage di questa sfilata, comincia l’ultima autobiografia di “Dame Viv”, firmata dalla stilista inglese a quattro mani con il suo collaboratore Ian Kelly, attore (era il padre di Hermione in Harry Potter) scrittore e drammaturgo.
Tradotta da Marilisa Pollastro, esce in italiano per Odoya (pagg. 414, euro 30,00) Vivienne Westwood, racconto “definitivo”, in presa diretta, della vita tumultuosa della più importante stilista britannica, scritto un po’ in prima un po’ in terza persona, corredato di foto anche inedite e di interviste ai figli Ben (avuto dal primo marito, Derek Westwood, ex pilota), Joe (che di cognome fa Corré, come la nonna di Malcolm McLaren, che sganciò pure i soldi perchè Vivienne abortisse), all’ex compagno italiano Carlo D’Amario e a Naomi Campbell, protagonista, nel 1993, di una vertiginosa caduta in passerella dalle micidiali zeppe di legno della collezione “Anglomania”, con cui Vivienne voleva “issare la bellezza femminile su un piedestallo”.




Vivienne Westwood e Malcolm McLaren

 

 
Naomi Campbell crolla sulla passerella della collezione Anglomania nel 1993



A cinque anni dalla morte di McLaren, Vivienne Westwood lascia fluire i ricordi e si toglie qualche sassolino dalla scarpa, soprattutto sulla loro burrascosa e tormentata storia di coppia. E soprattutto su quel decennio, tra gli anni Settanta e Ottanta, in cui insieme, nel negozio al 430 di King’s Road, diedero vita a un nuovo linguaggio della moda, destinato a rompere tutti gli schemi, a trascendere il punk e a offrire materiale da copiare per decenni.
Jeans strappati, vestiti di lattice, cuoio e catene, spille da balia e pelle nera, maglie su cui - influenzati dall’arte contemporanea - applicavano ossicini di pollo o tappi di bottiglia, accessori retrò e mescolanza di stili: quella di Viv e Malcolm era “determined ugliness”, la bruttezza come strumento di libertà, di rottura, di capovolgimento delle regole, di attacco all’establishment. In quel negozio-installazione (che si chiamò, a seconda delle loro fasi creative, “Let it rock”, poi Too fast to live, too youg to die”, SEX nella stagione del fetish e del bondage, Seditionaries, Worlds End...) nacque un’alleanza formidabile, elettrizzante, che oggi sembra scontata: moda e musica. Il punk e i Sex Pistols. La inventò Malcolm, che fondò il gruppo, Vivienne la realizzò. «Quando entrai nel mondo della musica - disse più tardi McLaren - nessuno ne voleva sapere del collegamento con la moda. Ora è il più grande vantaggio che si possa immaginare».
La relazione tra i due finì per essere autodistruttiva, la vita “domestica” devastante. Vivienne è esplicita, per la prima volta, su Malcolm: «Voleva che stessi male, cercava di insultarmi. Cercava sempre di ferirmi. Questo faceva, e non riusciva a uscire di casa finchè non aveva portato a termine il compito di ridurmi in lacrime... Perciò era più semplice cedere e piangere, così la smetteva. Non ho mai più pianto da allora... Avevo già versato tutte le mie lacrime». E ancora: «Era sempre invidioso degli altri, specialmente di me, non faceva che puntualizzare che non valevo niente. La sua sarta, mi chiamava, la sua creazione». All’inizio degli anni Ottanta si separarono, ma Malcolm continuò a far guerra sui diritti del marchio e vietò di utilizzare i disegni al suo stesso figlio Joe, che non glielo perdonò.
L’ultima parte dell’autobiografia è dedicata alla “rinascita” di Vivienne dopo McLaren e al suo successo internazionale. Una rinascita legata a un uomo, Carlo D’Amario, oggi amministratore delegato del marchio e per quattro anni, all’inizio degli Ottanta, anche suo compagno di vita, e a un paese, l’Italia, dove ancora produce e di cui ha imparato la lingua. Con qualche episodio meno conosciuto, come l’accordo con Giorgio Armani per risanare le finanze di Vivienne e lanciarne il nome. Fiorucci consigliò D’Amario di contattare Sergio Galeotti, manager di Armani. «Vivienne Westwood?!!! Nessun problema. Di quanto hai bisogno?». Gli chiesero trecento milioni di lire, una bella cifra, ma Galeotti accettò, chiedendo di riservare ad Armani un ruolo di anfitrione nel lancio promozionale: una sorta di joint venture, enorme. Non se ne fece nulla, però: Galeotti morì di Aids, uno dei primi in Europa, e tutto saltò.
Tartan e tweed, corsetti e crinoline. Dalla prima collezione, “Pirates”, del marzo 1981, pochi mesi prima della rottura con Malcolm, l’ascesa di “Dame Viv” è costante. Oggi tra prime e seconde linee femminili, l’uomo, i profumi e gli accessori, il marchio Vivienne Westwood è un brand internazionale. Ha perfino il suo tartan, il Westwood MacAndreas, creato nel 1993, lo stesso anno del matrimonio con Andreas Kronthaler, e riconosciuto dal Lochcarron of Scotland (la manifattura leader mondiale del settore) “saltando” la normale procedura di duecento anni. Per due volte è stata insignita dalla regina Elisabetta: nel ’92 viene nominata ufficiale dell’Order of Brithish Empire (a Buckingham Palace è andata senza mutande, storia nota), nel 2006 Dama di commenda.


 
Vivienne Westwood con Andreas Kronthaler, suo secondo marito, di venticinque anni più giovane



 Ha conquistato anche l’America, entrando con venti dei suoi modelli al Metropolitan Museum di New York nella mostra “Chaos to Couture” del 2013, sull’influenza del punk nella moda, e nel cuore di Sarah Jessica Parker che ha voluto un abito da sposa Westwood - tacitando Anna Wintour, fan della stilista Vera Wang - per convolare cinematograficamente a nozze con Mr. Big nel film da Sex and The City.

 
Sarah Jessica Parker con l'abito da sposa firmato Westwood nel film Sex&TheCity



Ricorda suo figlio Ben: «Quand’eravamo piccoli, Malcolm ci raccontava le storie della buonanotte. A me e a Joe. Erano storie fantastiche, molto emozionanti. Ma la cosa particolare di Malcolm era che, quando cominciava una storia, non la completava mai. Lasciava sempre che fossimo noi a finirla. Penso che fosse questa la sua genialità, il suo lascito: ha cominciato qualcosa, specialmente con mia madre, ma non l’ha mai portato a termine. È stata lei a farlo».

twitter@boria_a
vedi anche  http://ariannaboria.blogspot.com/2004/03/la-mostra-vivienne-westwood-la-regina.html