lunedì 11 gennaio 2016

 MODA & MODI

David Bowie, il Duca che ha anticipato la moda


David Bowie Ziggy Stardust (ph. Rex)

David Bowie is”, s’intitolava la mostra che gli dedicò il Victoria & Albert Museum di Londra nel 2013. David Bowie è, semplicemente. Icona del rock e della moda, connubio nato col punk degli anni Settanta e, da allora, mai incarnato in modo così originale, mutevole, provocatorio, anticipatore come da lui. Sessualmente ambiguo già cinquant’anni fa, quando lo stile a-gender e il travaso tra il guardaroba maschile e femminile erano di là da venire. David Bowie è, zeppe e make up, tute attillate e broccati, boccoli e zazzera scolpita. Ha attraversato mezzo secolo di musica, spettacolo, cultura visiva, costume, segnando profondamente ogni stagione, nella musica e nello stile, nell’arte e nel design, in una confusione costante tra palcoscenico e vita, tra uomo e personaggio, tra David e Ziggy, Alladin Sane, il Duca Bianco.

Bowie nell'Alladin Sane Tour



David Bowie con la moglie Iman nel 2012 (ph. Getty)


Tre anni fa la Bbc lo ha incoronato re dello stile. In una classifica “storica” è il britannico meglio vestito di tutti i tempi, prima della regina Elisabetta. E in trecentomila, nell’arco di quattro mesi, si sono messi in fila al V&A per ammirare il suo archivio e il guardaroba, immergendosi nel suo mondo cangiante attraverso i costumi di scena che appartengono alla memoria di tutti, anche di chi non lo conosceva bene, dalla tuta spaziale disegnata per lui dall’amico Freddie Burretti nel ’72 per l’album “The Rise and Fall of Ziggy Stardust and the Spiders from Mars”, in cui interpreta il ragazzo divenuto rockstar grazie agli extraterrestri arrivati da Marte, all’iconico custume di vinile nero, a strisce, di Kansai Yamamoto, che indossò nel tour di Alladin Sane.

 
"Bunny costume" di Kansai Yamamoto


David lo scovò a buon prezzo, perchè nessuno voleva comprarlo nè indossarlo: lo soprannominò il “Bunny costume” e, durante il tour in Giappone del ’73, Yamamoto gliene realizzò uno altrettanto pazzo, una tuta a ferri monospalla, incollata al corpo efebico come un cerotto. «Erano eccessivi, provocatori e incredibilmente caldi sotto i riflettori» disse Bowie e poche settimane dopo abbandonò per sempre Ziggie. Al party d’addio del personaggio, al Cafè Royal di Londra, andò in completo chiaro con panciotto, gli occhi sottolineati dal kajal, accanto all’allora moglie Angie Bowie, in abito soprabito dal taglio geometrico: era già nel mood glam-rock.
Il rapporto tra Bowie e la moda comincia da lontano. È il 1963 e un David ragazzino, sassofonista nella band scolastica dei Kon-Rads, fa impazzire gli amici con la richiesta di costumi sempre più stravaganti. Due anni dopo abbandona il cognome Jones per Bowie e, insieme a Marc Bolan, chitarrista dei T. Rex, saccheggia la spazzatura di Carnaby Street a Londra, per cercare abiti da riciclare. Nel ’70, incoraggiato dalla moglie Angie, con cui condivide pantaloni e camicie morbide, mette in subbuglio la stampa musicale e non solo: sulla copertina del terzo album, The man who sold the world”, indossa un abito da donna del designer Michael Fish e si fa immortalare reclinato su un divano, i capelli arricciati, gli occhi socchiusi: il gioco dei sessi è cominciato. È scandalo.
Sarà l’amico Burretti, ironico, appariscente, platealmente gay, a vestire il suo alter-ego Ziggy, mentre l’hair designer Suzy Fussey gli scolpisce una cresta color carota.

Le stagioni si susseguono, l’immagine si evolve in continuazione, in sintonia con la sua musica. A metà degli anni Ottanta è un dandy, che vive a Los Angeles e fa pesante uso di cocaina, con un debole per i completi dal taglio sartoriale e una preferenza per Yves Saint Laurent. Poi gli anni di Berlino, quando s’appassiona all’arte di Dalì e alla scrittura di William Burroughs: si libera dall’eroina come dal glitter e dai look psichedelici e androgini, e, suonando con Brian Eno, abbraccia il bianco e il nero, la monocromia della giacca di pelle della copertina di “Heroes”, nell’immagine del maestro della fotografia nipponica Masayoshi Sukit.
David Bowie è, anche un Pierrot. Una fascinazione per la maschera lunga una vita, racchiusa nei versi di “Threepenny Pierrot” (piccoli piedi felici che ballano tutto il giorno/piccolo cuore solitario con tante cose da dire...). La costumista Natasha Korniloff, che aveva già lavorato con lui nel 1967 per il debutto in palcoscenico di “Pierrot in Turquoise”, negli anni Ottanta gli disegna un cyber-pagliaccio contemporaneo, grigio e argento.



La copertina di Earthling con la redingote di Alexander McQueen

In mostra al Victoria & Albert c’era un altro pezzo iconico: la redingote fatta con la Union Jack, la bandiera inglese, per la cover dell’album “Earthling” del ’97, disegnata insieme a un giovane Alexander McQueen. Bowie non si smentì neanche questa volta. «Quando aveva in testa un’idea sceglieva la persona più innovativa per realizzarla», disse Geoffrey Marsh, curatore della mostra.
Sulla copertina di “Blackstar”, uscito l’8 gennaio, non c’è più lui, in un’ultima imprevedibile mutazione, resuscitato come il Lazarus di quest’album. Solo una stella nera.

twitter@boria_a

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